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Fotia Carmine - 23 ottobre 1986
Essere o non essere?
I radicali parlano del partito e del suo "scioglimento"

di Carmine Fotia

SOMMARIO: Se "unanimi" possono essere le valutazioni sulle ragioni della "cessazione" delle attività del p. radicale, non sembra vi sia, però,"altrettanta chiarezza" su come continuare ad operare. Si possono immaginare, per il congresso prossimo, quattro scenari:

1) Costituire un "comitato" per gestire la fase e per impedire l'utilizzazione del simbolo; 2) Rinviare di sei mesi la decisione, facendo nel frattempo una ulteriore "verifica"; 3) Proseguire nell'attività in ragione della "insostituibilità" del partito nel panorama italiano; 4) Sciogliere il partito, ma lanciando un appello per la "rifondazione" di una nuova formazione politica.

Parlare di "schieramenti" - continua l'articolo - nel p. radicale è "fuorviante". Nel quartier generale del partito, alla Camera, c'è "rassegnata disperazione", ma anche "sentimenti divergenti e contrastanti", da quando Pannella è rientrato da Bruxelles. Si riportano poi i pareri di alcuni esponenti radicali. Rutelli:"La nostra vita e la nostra morte saranno decisi al 'fotofinish'"; Negri: "Potremmo sopravvivere solo diventando uguali agli altri"; Melega: "Pannella è come una portaerei ferma nel lago di Nemi"; Vesce: "C'è ancora un gran bisogno del partito radicale"; Mellini: "La realtà dei rapporti politici non può essere fissata come assoluta"; Signorino: "Nessun partito è stato così duro e assolutista come il P.R." (ma Negri respinge l'accusa:"Le accuse di prevaricazione? Senza la nostra spinta le liste verdi non sarebbero mai nate..."); secondo Signorino, ancora, il partito radicale è divenuto "subalterno" a Craxi; non c'è senso a tenere in piedi un "partitino", ecc.; al massimo, si potrebbe fare una pol

itica da "lobby democratica", ma senza cadere nell'"intrallazzo". Infine, il giudizio conclusivo di Negri: "Non siamo una forza a vocazione minoritaria"...L'idea di una "terza forza" sarebbe realizzabile, "se si facesse una riforma elettorale in senso uninominale" e socialisti e laici, insieme al PCI, si propnessero di divenire "la prima forza, la forza del cambiamento"...

(IL MANIFESTO, 23 ottobre 1986)

("Siamo le prime vittime del "Moloch" che divora la democrazia e la costituzione". Questo è, più o meno, quel che vanno ripetendo in questi giorni militanti e dirigenti radicali. La scelta di "cessazione di attività" che il gruppo dirigente proporrà al congresso è sostenuta da questa valutazione pressoché unanime sulla degradazione delle condizioni della lotta politica in Italia. Non uguali sono però le terapie proposte.)

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ROMA. All'unanimità di valutazione sulle ragioni che inducono i radicali alla scelta della cessazione delle attività, non corrisponde però altrettanta chiarezza, su come possa poi continuare a operare e influire l'esperienza radicale. Non si tratta di uno stratagemma propagandistico; piuttosto, dinanzi alla dura realtà dei fatti, problemi vecchi e nuovi si annodano: come rompere l'isolamento? Da dove si può passare per spezzare il circuito perverso informazione-potere?

Si possono immaginare quattro scenari nel prossimo congresso: 1) La cessazione immediata delle attività e la formazione di un "comitato" incaricato di gestire questa fase con lo scopo di impedire che altri possano usare il nome e il simbolo del partito e di risolvere le "pendenze" istituzionali (finanziamento pubblico, attività dei deputati): questa è la posizione della maggioranza del gruppo dirigente. 2) Rinviare di sei mesi la decisione facendo una verifica legata a precise battaglie da condurre nel frattempo: è una variante della cessazione immediata, ed è sostenuta soprattutto dal presidente del gruppo parlamentare Francesco Rutelli. 3) Continuare l'attività politica del partito, in ragione di alcuni successi degli ultimi mesi e dell'insostituibilità del partito radicale nel panorama politico italiano: sostengono questa posizione Emilio Vesce e Mauro Mellini. 4) Sciogliere il Pr ma lanciando contemporaneamente l'appello per la "rifondazione" in una nuova forza politica: la pensano così Massimo Teodori e

Sergio Stanzani.

Naturalmente le posizioni sono molto più fluide e parlare di "schieramenti" nel partito radicale è fuorviante: le diverse opinioni spesso s'intrecciano e soprattutto nei congressi radicali accade veramente di tutto; senza poi parlare del peso esorbitante delle decisioni di Pannella. E' inutile cercare di capire come finirà. Intanto, ascoltiamo le opinioni, sondiamo gli umori dei diretti interessati.

La sede del gruppo parlamentare alla camera, un piccolo abbaino in cima al palazzo dei gruppi, tanto piccolo da provocare l'ira radicale e l'occupazione dei precedenti uffici all'inizio della legislatura, è una baraonda indescrivibile. Il quartier generale è sprofondato in una sorta di rassegnata disperazione da quando Marco Pannella ha lasciato l'autoesilio di Bruxelles e incombe sugli indaffaratissimi dirigenti e militanti, abituati ormai a convivere con il loro impossibile leader. Tanta attività per un partito in via di scioglimento? "In questi giorni - afferma Rutelli - noi radicali siamo cambiati: il partito che assume la prospettiva del scioglimento è già diverso da prima, è più profonda la sua consapevolezza. Mai come questa volta la discussione è bella, interessante, tanto ricca da rendere difficile l'individuazione di un linguaggio comune. Già questo è un risultato, come lo sono le adesioni di questi mesi, e alcuni fatti politici accaduti, la sentenza Tortora anzitutto. Abbiamo lanciato una sfida gi

usta - aggiunge Rutelli - per noi sopravvivere non ha senso e tuttavia i giorni che ci separano dal congresso non devono essere normali, rassegnati: la nostra vita o la nostra morte saranno decisi dal "fotofinish".

I sentimenti che si agitano in questi giorni nel popolo radicale sono diversi e contrastanti; per molti la vicenda esistenziale si confonde con quella politica. Alcuni se ne sono andati in rottura con il gruppo dirigente: Roccella e Crivellini hanno rifiutato di dimettersi da deputati; Melega - l'oppositore di Pannella agli ultimi due congressi - s'è invece dimesso da deputato ma è polemicamente in disparte; il senatore Signorino, degli "Amici della Terra", non si fa "avvicendare" neppure lui ed è in aperta lotta con il partito.

Sono volate parole grosse, insulti che lasciano il segno; non è facile valutare se l'asprezza della lotta interna in questi ultimi anni sia stata il frutto dell'isolamento politico radicale o se, viceversa, ne sia una della concause. Anche chi nota a ragione uno scadimento del costume politico interno, non può però non essere colpito dalla tensione che s'avverte in questi giorni tra i radicali: uno scatto d'orgoglio, il tentativo estremo di restituire integrità all'immagine radicale, l'affiorare della consapevolezza che se gli altri non ti capiscono è forse anche perché tu non ti fai capire?

Giovanni Negri, segretario del partito, la vede così: "Certi nostri toni possono anche apparire all'esterno incomprensibili, ma non si deve dimenticare che noi siamo il frutto di una lotta politica dura. Non credo però che sia stata intaccata la regola libertaria della responsabilità; no, non ci sono mai state repressioni interne, né abbiamo mai abbandonato la coerenza e la moralità dell'agire politico. Siamo entrati in parlamento nel 1976 per cambiare e non per farci cambiare; oggi potremmo sopravvivere solo diventando uguali agli altri, personale politico di una delle tante bande della Beirut che è diventata la politica italiana. Quando chiediamo alla gente di iscriversi al Pr vogliamo dire proprio questo: `Impediteci di diventare come gli altri'".

Ecco tornare l'idea dell'accerchiamento, dell'impossibilità per un gruppo che si vuole "luterano in terra di controriforma", come dice Negri, di continuare a operare. "Ci sono i fatti esterni, e in primo luogo la condizione di non-democraticità delle istituzioni - ribatte Gianluigi Melega - ma c'è anche la strategia politica sbagliata portata avanti dal gruppo dirigente negli ultimi cinque anni. Dico del gruppo dirigente, non di Pannella. Marco è come una portaerei ferma nel lago di Nemi: il problema non è la portaerei, il problema sono le dimensioni del lago. Se il partito deve continuare come negli ultimi anni è meglio che chiuda. Nell'evoluzione politica, ci sono anche i punti di non ritorno e se non accadranno fatti nuovi il congresso dovrà prendere atto che ci siamo arrivati".

Di tutt'altro avviso è invece Emilio Vesce, imputato nel processo "sette aprile". Per lui c'è ancora un gran bisogno del partito radicale, delle sue lotte, delle sue idee. Vesce ha incontrato il partito radicale nella lotta contro l'emergenza giudiziaria: "Abbiamo scoperto - dice - di dover attingere al patrimonio radicale, ricorrendo per esempio alla lotta non-violenta". Secondo Vesce, nel partito radicale vive oggi "l'estremo tentativo di coniugare società e politica. Le nostre battaglie hanno inciso: come dimenticare il desiderio di giustizia acceso dalla sentenza Tortora e che si esprime nei referendum? E' vero, la tensione radicale non si riesce a inverare appieno, ma non vedo altrove la possibilità di esprimere bisogni `destrutturanti' senza che siano subito criminalizzati. Ecco, continuare per me vuol dire reinventare insieme il presente e il patrimoni del partito radicale".

Un altro "continuista" è Mauro Mellini, uno dei padri storici del partito, il promotore con Pannella della Lega per il divorzio: "Un congresso di analisti e di politologi, di evocazioni retoriche e di lacrime d'addio, di atti di fede e di scoppi di delusione non lo auguro a nessuno e non sarà utile a nessuno". Mellini respinge l'idea che, in queste condizioni, sia inevitabile lo scioglimento: "Non c'è chiusura dell'informazione, illegalità diffusa, stravolgimento delle regole del giuoco che possa dirsi vincente, sicuramente al cento per cento, in qualsiasi condizione, contro qualsiasi iniziativa politica e contro una forza politica d'opposizione, la realtà dei rapporti politici non può essere fissata come assoluta".

Amara è invece l'analisi del senatore Mario Signorino, degli "Amici della Terra", ormai in rotta definitiva con il partito: "Nessun partito - dice - è stato così duro e assolutista come il Pr: hanno tentato di prendere il controllo dell'associazione che pure è stata per anni il tramite dei radicali con il mondo verde". Il rapporto difficile e litigioso tra radicali e verdi è infatti uno dei punti dolenti dell'attuale crisi, ma Negri respinge le accuse: "Si comportano come dei bambini capricciosi verso il papà; solo che non c'è nessun papà. Le accuse di prevaricazione? Ma senza la nostra spinta le liste verdi non sarebbero mai nate e non si sarebbero affermate nelle elezioni regionali come un soggetto politico".

La critica di Signorino non si ferma però a un solo aspetto e riguarda tutta la politica del partito da tre anni in qua: "C'è lo sciopero del voto e la denuncia della partitocrazia ma poi si stringono, senza però una scelta politica trasparente, rapporti con il Psi e i laici fino a divenire subalterni a Craxi; c'è una crisi, in tempi di "inflazione politica", dei tradizionali strumenti dell'azione radicale. Che senso ha tenere in piedi un piccolo partito quando tutta la situazione è mutata dai tempi in cui il Pr si affermò come unico antagonista possibile? Oggi c'è il dinamismo del Psi, ma anche il Pci è in movimento. La terza forza laica? Non ci credo, sarebbe un paradossale ritorno al primo partito radicale. Si potrebbe fare una politica da "lobby democratica", ma purché ciò sia esplicito, e non si dia l'impressione dell'intrallazzo. Comunque, io penso che il partito deve sciogliersi".

Accuse, recriminazioni, incertezze; ascoltiamo cosa ha da dire Giovanni Negri: "Cominciamo col dire che nella nostra scelta c'è il rifiuto del "capannismo" che fa di Dp una forza che si accontenta del suo limitatissimo insediamento; e anche dello "spadolinismo" che fa dire ai repubblicani: `Siamo un partito con 120 anni di storia'; mai che riflettano sul perché, dopo un secolo, son sempre lì con il loro 3-4%. Però l'assenza di regole democratiche nel gioco politico e nell'informazione non ci consente più di essere quella che Baget-Bozzo chiama `un'intransigente minoranza politica che dà voce a maggioranze democratiche e civili'. La società - afferma Negri - si è come opacizzata, il sistema politico è bloccato, persino le oligarchie di partito sono espropriate dal potere di decisione: guarda cosa capita a Piccoli se fa con noi la battaglia sulla fame nel mondo; chiedi a Martelli che gli succede quando si confronta sul nucleare. Spetta a noi partito del "primato della politica" denunciare, anche per essi, ques

to stato di cose, invece che ridurci a correttivo della partitocrazia".

E' dunque fondata la supposizione di dialogo con una parte del mondo politico, l'idea della "terza forza"? "E' infondata se si pensa alle forze politiche come sono adesso - risponde Negri - potrebbe non esserlo se si ristabilissero le condizioni della democrazia nella politica e nell'informazione; se si facesse una riforma elettorale in senso uninominale, l'unica possibile riforma del sistema politico attuale: se le forze socialiste e laiche avessero il coraggio di discutere non dei loro averi ma della candidatura, in presenza di un Pci che è la palla al piede di un sistema politico prigioniero, a essere la prima forza, la forza del cambiamento...".

 
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