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Spadaccia Gianfranco - 22 novembre 1986
Pci: Una questione aperta
di Gianfranco Spadaccia

SOMMARIO: Il PCI si avvia a rappresentare, sempre di più, il tessuto connettivo di interessi corporativi e delle esigenze di conservazione di poteri discrezionali ed eccezionali da parte di settori dell'ordine giudiziario, contro ogni tentativo di riforma, liberale e garantista.

(Notizie Radicali n· 271 del 22 novembre 1986)

Per oltre dieci anni, dal 1963 al 1976, il Partito radicale ha avuto come proprio ambizioso obiettivo politico "l'unità, il rinnovamento, l'alternativa della sinistra", della sinistra, cioè di tutta la sinistra, compreso il Pci.

Ed oggi? Cosa è cambiato? Il Partito radicale può tagliar fuori dal proprio dibattito e dalla propria politica la "questione comunista"? E può pensare di realizzare la riforma democratica del sistema politico senza i comunisti o addirittura contro di essi? Perché precluderci un dialogo "a tutto campo"? Perché escludere come interlocutori i dirigenti del Pci?

Stando a queste domande, si direbbe che è il Partito radicale che è cambiato, e che nessun cambiamento c'è stato nel Pci. Per la verità quando noi perseguivamo questa strategia politica, non erano, neppure allora, rose e fiori. Era anche allora facile trovare più scomuniche che dialogo. Ma era il Pci del dopo Togliatti, immerso nella crisi del comunismo internazionale e dell'ideologia dello Stato guida, attraversato dalla esigenza di guardare alla verità misconosciuta e negata della propria storia e della storia dello stalinismo in Urss e in Europa. Si poteva legittimamente sperare che l'approdo di quel travaglio e di quella crisi fosse un profondo rinnovamento democratico. Non ne mancarono, del resto, alcuni segni, che potevano essere interpretati come annunci e anticipazioni di questo rinnovamento: con Amendola, che nel 1954 si impegnò esplicitamente e a lungo a favore della prospettiva di un'alternativa di sinistra e laica alla Dc, e si spinse fino al punto di rimettere in discussione le ragioni stesse de

lla scissione del 1921; con Pietro Ingrao, che oppose alla politica amendoliana il "dialogo" in chiave ideologico-rivoluzionaria con i cattolici, ma si battè poi all'interno del Pci per la democrazia interna e contro il centralismo democratico; con lo stesso Longo quando sembrò interrompere la politica della "doppia verità" di Togliatti con la pubblicazione del "memoriale di Yalta", quando rivendicò al Pci la concezione laica dello Stato contro l'ateismo di Stato di marca sovietica, e quando infine condannò senza esitazione la repressione della primavera di Praga.

Ma l'approdo degli anni successivi non fu la strategia del rinnovamento e dell'alternativa democratica, fu la strategia del "compromesso storico". Questo non vuole e non può essere un saggio storico, ma semplicemente una sintesi delle conseguenze profonde che questa politica ha prodotto nel Pci e con cui ancora oggi, ed oggi più che mai, dobbiamo fare i conti. Vediamoli.

Alla politica dell'unità si è sostituita quella della divisione a sinistra, della peggiore intolleranza, come negli anni più bui dello stalinismo. Per esserci opposto alla politica dell'emergenza siamo stati chiamati "radical brigatisti" e amici dei terroristi, per esserci opposti ad un antifascismo ufficiale quanto sclerotico, falsificatore della verità storica che aveva visto purtroppo il fascismo trionfare degli errori e delle inadeguatezze degli antifascisti siamo stati definiti "radical fascisti", ed oggi per continuare a batterci contro le conseguenze dell'emergenza si pretende di liquidarci come protettori di mafiosi e di camorristi. Né diverso è stato in tutti questi anni l'atteggiamento seguito nei confronti delle altre forze della sinistra, a cominciare dai socialisti.

Alla politica del rinnovamento si è sostituita quella della continuità. Grazie a questo continuismo, il Pci non ha voluto rimettere in discussione nulla, ed ha conservato tutto, facendo quadrato intorno agli errori, alle responsabilità, perfino ai crimini del passato, e se li è portati appresso perfino nell'itinerario della più ottusa subordinazione allo stalinismo fino all'adesione al Patto Atlantico.

Di conseguenza, alla politica dell'alternativa ideale e programmatica, della contrapposizione di propri valori, si è sostituita la politica del compromesso, della unità nazionale, della occupazione del potere nella accettazione dei programmi e dei valori dominanti di questo regime.

Il partito di Togliatti era con drammatiche contraddizioni anche il partito di Umberto Terracini, il partito del garantismo e della legalità costituzionale. Il partito di Berlinguer è divenuto senza contraddizioni il partito di Violante e dei magistrati-sceriffi, l'acritico esaltatore di ogni politica di emergenza, di ogni potere eccezionale e di ogni legge speciale, fino alle aberrazioni dei maxi processi, del pentitismo, degli attacchi forsennati al diritto di difesa. Durante il "caso Moro" e il "caso D'Urso" si poteva scomodare il giacobinismo e il leninismo. Ma oggi pericolosamente ormai il Pci sembra diventare semplicemente il tessuto connettivo di interessi corporativi e delle esigenze di conservazione di poteri discrezionali ed eccezionali da parte di settori dell'ordine giudiziario, contro ogni politica di riforma, liberale e garantista.

Nel campo delle istituzioni, formalmente è caduta, dal 1979, la alleanza di unità nazionale. Ma il ritorno formale all'opposizione ha solo dato maggiore elasticità e capacità di penetrazione alla politica consociativa e partitocratica, di compromesso e di potere, che continua a caratterizzare le scelte e la strategia del Pci . In tutte le scelte fondamentali c'è una maggioranza diversa, consociativa e unanimistica, comprendente il Pci, che si impone alla maggioranza formale di governo. Quando questa regola consociativa non viene rispettata, scatta il diritto di veto. E se si pretende di renderlo inoperante, il sistema entra in crisi; ne ha costituito una prova un anno di immobilità politica e di ostruzionismo sulla scala mobile, seguito da un referendum.

In questa situazione, è vano pretendere dal Pci la costruzione di un progetto politico, economico ed istituzionale di alternativa di governo. Tutto ciò che il Pci riesce ad esprimere è una politica rivendicazionista e demagogica, giustizialista e populista, fondata sul rifiuto delle scelte, in definitiva proprio l'opposto di una politica di governo.

Unità laica anche con il Pci e per il rinnovamento del Pci? Certo. Politica di riforma istituzionale democratica, rivolta anche al Pci? Certo. La questione comunista è una questione aperta, non chiusa per i radicali. Ma essa passa attraverso la sconfitta dei valori antidemocratici, giacobino-corporativi, consociativi e di potere che hanno occupato il Pci.

Questa risposta non è dedicata ai compagni del "Manifesto", che vivono drammaticamente ogni giorno sulle loro colonne la contraddizione fra il loro essere comunisti in modo diverso, e questi valori dominanti nel Pci, con cui anche loro vogliono fare i conti. E' dedicata a quanti, non solo cosiddetti "indipendenti" e cosiddetti "di sinistra", vogliono fingere che questo confronto ideale e politico non esista. O hanno già abbandonato i valori liberali che il Pci è ben lungi dallo scoprire e dall'accettare, o si accingono a farlo.

 
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