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Mellini Mauro - 14 febbraio 1987
Tutti gli alibi dell'arroganza
di Mauro Mellini

SOMMARIO: La critica della sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili i referendum, promossi dal Pr, sulla caccia e sulle modalità di votazione del Consiglio Superiore della Magistratura.

(NOTIZIE RADICALI N. 38, 14 febbraio 1987)

"Le sentenze emesse dalla Corte costituzionale sull'ammissibilità dei referendum richiesto nell'anno 1986 e da tenersi nella primavera 1987 costituiscono un ulteriore, gravissimo passo verso il completo snaturamento dell'istituto costituzionale del referendum abrogativo e verso la pressoché assoluta impraticabilità dell'istituto stesso.

Da una parte, infatti, l'assunzione da parte della Corte costituzionale di un potere praticamente discrezionale (quale che sia l'alibi delle motivazioni formalmente adottate) di "scegliere" i referendum da tenere o da "bloccare", o meglio ancora, da bloccare subito o da affidare alla liquidazione da parte del legislatore ordinario etc., fa sì che la caratteristica di mezzo di democrazia diretta autoattivato dallo stesso corpo elettorale, venga sempre più attenuandosi assieme alla distinzione e contrapposizione di tale referendum rispetto al plebiscito sollecitato dal potere secondo le esigenze di rinnovazione e conferma della propria legittimazione e di dimostrazione del consenso popolare, di tipo bonapartista e gaullista. D'altra parte ciò si realizza con la creazione di sempre nuove ed imprevedibili categorie di leggi non sottoponibili a referendum e di manipolazione ulteriore delle categorie elaborate dalla precedente giurisprudenza della Corte. Questa, dopo aver praticamente vanificato la tassatività del

l'elencazione delle leggi escluse dal procedimento abrogativo referendario contenuta nell'articolo 75 della Costituzione, non ha sostituito ad essa alcun criterio certo, ma invece, adottando sempre nuovi e diversi motivi di inammissibilità, ha semplicemente codificato, appunto, la discrezionalità del suo giudizio e si è arrogato un potere di disporre in ordine alla convenienza politica dei referendum.

Se si tiene presente l'enorme dispendio di energie, di danaro, di impegno e di iniziativa politica necessario per la raccolta delle firme per la richiesta di un referendum, si comprende come tale incertezza comporta come immediata conseguenza la riduzione a termini pressoché meramente teorici della praticabilità del referendum. Istituto che, concepito come strumento di contropotere riequilibratore nel rapporto tra rappresentanze politiche e corpo elettorale, esige facilità di gestione, scarso onere di strutture, garanzie da condizionamenti e filtri selettivi.

Il fatto poi che questo snaturamento dell'istituto del referendum e questa sua pratica vanificazione sia operato proprio dalla Corte costituzionale e con il mezzo della manipolazione giuridica, fa sì che l'arretramento dei margini di certezza del diritto, e del diritto costituzionale e pubblico in specie, sia ancor più generale e significativo anche per la conseguente perdita di credibilità della Corte costituzionale e per la conferma della sua disponibilità al ruolo di mediazione tra i poteri e le istituzioni di fatto.

L'analisi degli strumenti logico-giuridici, o meglio delle giustificazioni teoriche e retoriche, con le quali la Corte costituzionale ha realizzato questo grave e pericoloso passo della sua storia, e della storia delle istituzioni della nostra Repubblica, può richiedere, proprio per l'artificiosità dell'impianto, per l'ambivalenza di ogni classificazione, distinzione, elaborazione concettuale, un discorso assai lungo ed articolato che tuttavia rischia di divenire esso stesso sterile ed inconcludente, quasi l'alibi di un alibi. D'altro canto nella sua opera di "riduzione" del pacchetto referendario la Corte costituzionale è giunta, questa volta, a rifiutare non solo di applicare il diritto e la Costituzione, ma anche ogni alibi logico e dialettico, quasi per sfoggio di arroganza del potere, come è avvenuto per il referendum sull'articolo 842 del codice civile, dichiarato inammissibile con una motivazione di così lapidaria assurdità, da apparire, più che pretestuosa, addirittura intesa a farsi beffa degli abol

izionisti e ad ammonirli che qualunque referendum che possa porre in discussione la caccia sarà comunque inesorabilmente bloccato.

In sostanza la Corte costituzionale, pur richiamando la sua precedente giurisprudenza e le cause di inammissibilità dei referendum elencate nella famosa sentenza n. 16 del 1978, ha in realtà creato ancora nuove categorie di referendum inammissibili ed ha rimaneggiato, dilatandole fino a renderle suscettibili di utilizzazione assolutamente arbitraria, le categorie precedentemente elaborate.

Il requisito della "univocità" del quesito referendario, di per sé assai discutibile, è stato ora dilatato (sentenza legge sulla caccia) in quanto ora tale univocità dovrebbe essere ricercata non solo attraverso la valutazione della coerenza tra le disposizioni della stessa legge da abrogare, ma anche attraverso quella della coerenza tra l'abrogazione delle norme incluse nel quesito e la non abrogazione di altre che nel quesito non sono incluse, salvo poi a dichiarare inammissibile per "disomogeneità" il referendum sull'articolo 842 del codice civile per essere stata prevista l'abrogazione di tutto l'articolo (!!!) compreso l'ultimo comma, che, se lasciato fuori, non avrebbe significato più nulla in caso di conseguita abrogazione del resto dell'articolo, in quanto esso ha la mera funzione di specificare che la facoltà di ingresso nei fondi altrui concessa ai cacciatori non si estende ai pescatori, per i quali si applicano, così come si sarebbero dovute comunque applicare nel caso di abrogazione dei commi pre

cedenti, semplicemente le norme generali sul divieto di ingresso nel fondo altrui senza consenso del proprietario!

Gravissima è poi la manipolazione della giurisprudenza (si fa per dire) della Corte in ordine alla cosiddetta categoria dei referendum inammissibili perché riguardanti leggi a "contenuto costituzionalmente vincolato". Con la sentenza che ha respinto il referendum sulle modalità di elezione del Consiglio Superiore della Magistratura, la Corte ha cominciato con aggiungere, per l'ammissibilità del referendum sulle parti di tali leggi che in realtà vincolate costituzionalmente non sono, perché attinenti a particolari soluzioni di modalità di attuazione dell'istituto imposto dalla Costituzione lasciate alla libera valutazione del legislatore ordinario, un ulteriore requisito, che sembrerebbe attinente alla "intelligibilità del quesito". E questa volta non si tratta neppure della coerenza o meno della mancata inclusione nella proposta abrogativa di altre disposizioni della legge oggetto del referendum, ma della necessità che dal quesito emerga non solo la chiara indicazione della scelta abrogativa nei confronti de

lla soluzione adottata dal legislatore ordinario tra quelle possibili, da cancellare, ma addirittura la diversa soluzione che dovrebbe essere adottata in sostituzione di quella abroganda! Questo principio è in netto contrasto con quello enunciato nella motivazione della sentenza n. 16 del 1978 relativa all'abolizione della Commissione inquirente, tanto che, per allontanare il termine di raffronto, la Corte è stata costretta (anche qui si fa per dire!) a rimaneggiare la motivazione della decisione sull'identica questione dell'attuale referendum (ammesso) pure sulla Commissione inquirente. Ma non ha potuto rimaneggiare nessuna motivazione relativa all'abrogazione di una parte delle norme relative all'Ordinamento giudiziario militare ed alla composizione dei Tribunali militari, pure inserite in una legge giudicata a contenuto costituzionalmente vincolato dalla sentenza n. 16 del 1978 e dalla n. 25 del 1981, con la quale ultima il referendum veniva dichiarato ammissibile senza che fosse lontanamente ipotizzabile

che dal quesito si potesse desumere quale altra soluzione tra le tante si potesse adottare per un diversa composizione dei tribunali militari e per una diversa articolazione della giurisdizione militare. Requisito, del resto, questo della "indicazione della diversa soluzione", impossibile a realizzarsi nella formula di un referendum che per disposizione costituzionale è puramente abrogativo.

Ma un'altra ed ancor più grave, se è possibile, ed evidente contraddizione rispetto alla soluzione adottata con la sentenza n. 25 del 9 febbraio 1981 per il referendum sui tribunali militari, è riscontrabile nella stessa sentenza che rigetta il referendum sul Csm, là dove aggiunge, quale ulteriore motivo di inammissibilità un altro, nuovissimo argomento: quello cioè che nelle leggi relative al funzionamento di organi ed istituti posti dalla Costituzione (leggi a contenuto costituzionalmente vincolato) anche le parti di esse contenuti scelte liberamente adottate dal legislatore ordinario tra le tante possibili per l'attuazione e la costituzione di tale istituto ed organo, non potrebbero essere abrogate mediante referendum, ma solo attraverso altre leggi ordinarie sostitutive di esse con altre norme, ove esse siano necessarie al funzionamento dell'organo non solo nell'immediato, ma anche, eventualmente, nel futuro (nel caso: alla scadenza dell'attuale Csm di qui a tre anni!) per evitare che, dimenticandosi poi

il Parlamento di sostituire la norma abrogata abbia a verificarsi, per difetto di rinnovata composizione dell'organo, la paralisi di questo!

Eppure la stessa Corte costituzionale aveva abrogato proprio alcune delle norme per l'elezione del Consiglio superiore, ovviamente senza sostituirle, e senza tuttavia provocare alcuna paralisi di esso, ma solo la "prorogatio" di quello in carica.

Non solo, ma la stessa Corte costituzionale, con la già ricordata sentenza n. 25 del 9 febbraio 1981, aveva dichiarato ammissibile il referendum addirittura sulla composizione dei tribunali militari (previsti dalla Costituzione ed istituiti, quindi, da norme nel loro complesso a contenuto costituzionalmente vincolato) così che l'esito positivo del referendum ne avrebbe determinato l'immediata paralisi. Ma a tal proposito già con la sentenza n. 16 del 1978, la Corte stessa aveva affermato che l'inammissibilità del referendum sull'intero ordinamento giudiziario militare dipendeva dal fatto che non era "stato richiesto per privare di efficacia norme riguardanti aspetti determinanti, sia pure importantissimi, della giurisdizione militare con lo scopo di obbligare il legislatore ordinario ad attivarsi tempestivamente per colmare o prevenire lacune". Ed ancora più chiaramente, con la sentenza n. 26 del 10 febbraio 1981, la Corte aveva affermato: "Per negare che determinate richieste referendarie siano ammissibili,

non rileva che l'approvazione di esse darebbe luogo ad effetti incostituzionali: sia nel senso di determinare vuoti suscettibili di ripercuotersi sull'operatività di qualche parte della Costituzione, sia nel senso di privare della necessaria garanzia situazioni costituzionalmente protette... in quanto il legislatore ordinario potrebbe intervenire...".

Anche con le sentenze ammissive dei referendum salvati dalla falcidia, la Corte non ha mancato, attraverso la motivazione, di operare ulteriori rimaneggiamenti, suscettibili di effetti restrittivi, dei principi precedentemente elaborati in fatto di classificazione di referendum inammissibili e di leggi e disposizioni non assoggettabili a tal forma di abrogazione. Così con la sentenza ammissiva del referendum sull'Inquirente ha rimaneggiato le due categorie di leggi rispettivamente "a copertura costituzionale" ed "a contenuto costituzionalmente vincolato", includendo nella prima norme e concetti in precedenza classificabili e riferibili alla seconda, con l'effetto appunto, di rendere non assoggettabili a referendum in toto leggi che, in precedenza, lo erano solo nella parte in cui l'attuazione del principio o dell'istituto costituzionale non fosse suscettibile di diversa realizzazione nell'opera del legislatore ordinario.

Il discorso potrebbe continuare con rilievi univoci e non meno gravi. Ma qui vogliamo fermarci, per chiudere con una considerazione relativa allo stesso funzionamento della Corte costituzionale. Divenuto oramai il giudizio di questa un atto di vera e propria scelta politica, la segretezza della camera di consiglio non si confà più alle sue decisioni. Le responsabilità di sentenze come quella sulla caccia e sull'art. 842 c.c. non possono rimanere riservate o essere note, magari in anticipo, attraverso vociferazioni ed illazioni. Il ruolo dei relatori, e quello della loro scelta, che certamente è stato in questo caso assai rilevante, non può non comportare responsabilità precise e palesi. Se la Costituzione, quella scritta del 1948, ha avuto i suoi padri, è bene che quelli della costituzione di fatto che la sta sostituendo non rimangano ignoti".

 
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