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Onida Valerio - 14 febbraio 1987
Il cacciatore: un'eccezione allo jus prohibendi

SOMMARIO: La memoria sull'ammissibilità del referendum abrogativo dell'art. 842 del codice civile presentata alla Corte Costituzionale dal Prof. Onida in rappresentanza del comitato promotore. Onida afferma che la norma di cui si chiede l'abrogazione (secondo il codice civile, il proprietario di un fondo non può impedire che vi si entri per l'esercizio della caccia) esprime un ingiustificato privilegio a favore del cacciatore rispetto al diritto del proprietario sul proprio fondo.

(NOTIZIE RADICALI N. 38, 14 febbraio 1987)

ECC.MA CORTE COSTITUZIONALE ROMA

MEMORIA

"per i presentatori della richiesta di referendum abrogativo dell'art. 842 del codice civile nel giudizio sull'ammissibilità, ai sensi dell'art. 2, 1· comma, legge cost. 11 marzo 1953, n. 1, del predetto referendum".

1.

"L'art. 842 del codice civile stabilisce, com'è noto, che il proprietario di un fondo, che non sia stato chiuso nei modi stabiliti dalla legge sulla caccia, e nel quale non vi siano colture in atto suscettibili di danno, non può impedire che vi si entri per l'esercizio della caccia da parte di chi sia munito della licenza rilasciata dall'autorità; mentre per l'esercizio della pesca occorre il consenso del proprietario del fondo.

Questa disposizione ha dunque per oggetto, come ha chiarito anche l'Ufficio centrale per il referendum nell'ordinanza 13-15 dicembre 1986 che ha dichiarato legittima la richiesta di referendum, "i rapporti fra attività venatoria e contenuto del diritto di proprietà dei fondi sui quali tale attività si esercita".

Essa pone una eccezione rispetto al normale" jus prohibendi "del proprietario del fondo, sancendo una facoltà di accesso dei cacciatori ai fondi altrui, facoltà che non può essere esclusa dai proprietari dei fondi stessi se non procedendo alla chiusura di questi nei modi previsti dalla legge sulla caccia. La disposizione in esame è intesa dunque a sancire un contemperamento, concretamente determinato dal legislatore nei termini che appunto risultano dalla medesima disposizione, fra il diritto del proprietario a usare in esclusiva il bene e a escluderne i terzi, e l'interesse dei cacciatori a entrare nei fondi per inseguire o impossessarsi della selvaggina.

Si tratta di una regola accolta relativamente di recente nella legislazione del nostro paese: infatti l'art. 712, 2· comma, del codice civile del 1865 espressamente stabiliva che non fosse "lecito di introdursi nel fondo altrui per l'esercizio della caccia contro il divieto del possessore".

Solo con l'art. 29 del t.u. della legge sulla caccia approvato con r.d. 15 gennaio 1931, n. 117, si introdusse implicitamente un principio simile a quello oggi vigente, stabilendosi che fosse vietata "la caccia vagante nei terreni altrui in attualità di coltivazione" e che il possessore avesse facoltà, solo ove ricorressero tali condizioni, di circondare gli appezzamenti con i segnali perimetrali prescritti. A sua volta l'art. 21 del nuovo testo unico approvato con r.d. 5 giugno 1939, n. 1016 vietò la caccia, salvo che al proprietario o col suo consenso, nei fondi chiusi da muro o da rete metallica od altra effettiva chiusura d'altezza non minore di metri 1,80 o da corsi o specchi d'acqua perenni il cui letto abbia profondità di almeno metri 1,50 e larghezza di almeno 3 metri (successivamente il nuovo testo dell'art. 29, introdotto con l'art. 8 della legge 2 agosto 1967, n. 799, estese il divieto a "chiunque", salvo la costituzione dei fondi in riserva privata). A sua volta l'art. 30 dello stesso t.u. vietav

a la caccia in terreni in attualità di coltivazione solo quando essa potesse "arrecare danno effettivo alle colture".

Questa disciplina è oggi sostanzialmente ripresa dall'art. 17 della legge n. 968/1977, con l'aggiunta dell'obbligo di notifica agli uffici regionali dei fondi chiusi e di apposizione, a carico dei proprietari, di "adeguate tabellazioni", e con la variante del rinvio alla legge regionale per la determinazione dei modi di individuazione e di salvaguardia dei territori in attualità di coltivazione.

L'art. 842 del codice civile del 1942 ha sancito espressamente tale restrizione al diritto di proprietà dei fondi, così consolidando in modo nettamente favorevole agli interessi dei cacciatori la soluzione di quel conflitto di interessi fra cacciatori e proprietari dei fondi agricoli, cui già faceva riferimento la relazione ministeriale al testo unico del 1939, là dove constatava "l'urto così frequente di interessi in contrasto", derivante dal fatto che "da un lato il cacciatore non mira ad altro che a far carniere; dall'altro l'agricoltore insorge, giustamente preoccupato delle conseguenze di una tale attività - sportiva".

Si noti che l'art. 842 non si limita a imporre al proprietario, che voglia impedire l'accesso al fondo ai cacciatori, di un onere di chiusura del fondo. Infatti l'accesso è vietato solo se il fondo sia stato chiuso non già con una qualsiasi delle modalità consentite al proprietario dall'art. 841 c.c., bensì solo con le modalità particolarmente onerose prescritte dalla legge sulla caccia: cioè oggi dall'art. 17 legge n. 968 del 1977, che prescrive la erezione di muro o rete alti almeno m. 1,80, l'obbligo di notifica agli uffici regionali e di apposizione di adeguate tabellazioni, e sancisce l'ulteriore effetto, penalizzante per il proprietario, di precludere anche a quest'ultimo la caccia sul proprio fondo che sia stato chiuso in tal modo.

Onde è chiaro che l'art. 842 esprime un principio di netto favore per l'interesse allo svolgimento dell'attività venatoria rispetto all'interesse dei proprietari di fondi. L'attuale richiesta di referendum verte appunto su questa scelta legislativa, espressione ad avviso degli esponenti di un ingiustificato privilegio a favore dei cacciatori, rispetto anche a coloro che esercitano qualsiasi altra attività sportiva o ricreativa che possa comportare l'uso del territorio (privilegio pur non giudicato incostituzionale da questa Corte nella sentenza n. 57 del 1976, ma severamente criticato in dottrina: cfr. ad es. Gambaro," Costo della caccia e funzione sociale della proprietà, "in" Resp. civile e previdenza, "1976, p. 599 ss.; Basile e Assini," La proprietà fondiaria e il "diritto d'accesso alla natura", "in" Giur. Cost. "1976, p. 697 ss.).

2.

Non possono sorgere dubbi di sorta sulla omogeneità, univocità e chiarezza del quesito.

Infatti esso investe una singola disposizione del codice civile, di struttura assai semplice e di oggetto determinato e specifico (il riferimento, infatti, del 3· comma alla pesca non fa che ribadire il privilegio sancito per i cacciatori, chiarendo che esso non si estende ai pescatori, per i quali vale la regola generale dello" jus prohibendi "del proprietario del fondo).

Il corpo elettorale, secondo la richiesta dei firmatari della richiesta di referendum, dovrà essere chiamato a deliberare l'abrogazione o meno di tale disposizione, e quindi a smentire o meno la precisa scelta legislativa di cui si è parlato.

Anche la connessione con l'art. 17 della legge n. 968 del 1977 (compreso in un altro distino quesito referendario) non può indurre in alcuna incertezza. Attraverso l'abrogazione dell'art. 842 c.c. si mina a cancellare il principio che fa prevalere sul diritto di proprietà dei fondi la facoltà dei (soli) cacciatori, rinviando alla legislazione sulla caccia la determinazione delle modalità esclusive attraverso cui il proprietario può impedire l'accesso ai fondi ed i relativi effetti. Attraverso la abrogazione dell'art. 17 della legge n. 968/1977 (nel quadro dell'intera disciplina statale vigente dei limiti di liceità dell'attività venatoria) si tende a far venir meno la particolare normativa sulle modalità e gli effetti della chiusura dei fondi ai cacciatori, fermo restando il principio sancito dall'art. 842 c.c.

Non vi è dubbio che, come ha rilevato l'Ufficio centrale per il referendum nell'ordinanza 13-15 dicembre 1986, le due norme abbiano una "diversa sfera di operatività", e che vi è la possibilità che "non venga approvata la richiesta di abrogazione delle citate norme della legge sulla caccia, e che venga invece contemporaneamente approvata l'abrogazione proposta della norma dell'art. 842 codice civile, così venendo meno l'obbligo del proprietario di consentire l'accesso al fondo aperto e ripristinandosi la correlativa potestà del titolare del fondo di permettere o meno l'accesso al medesimo".

3.

Degli altri limiti costituzionali all'ammissibilità del referendum, sanciti nell'art. 75 della Costituzione ed enunciati nella giurisprudenza di questa Corte, è di tutta evidenza come non siano suscettibili di venire in considerazione, nella specie quelli relativi alle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia o di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, né quello relativo alle leggi costituzionali o dotate di "forza passiva peculiare".

Ma non occorre spendere molte parole per dimostrare che non potrebbe invocarsi, nella specie, nemmeno il limite delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato.

Infatti non sarebbe in alcun modo sostenibile che il contenuto dell'art. 842 del codice civile riproduca un precetto costituzionale o lo concreti "nel solo modo costituzionalmente consentito", tanto da far ritenere che la richiesta di referendum "tenda in effetti ad investire la corrispondente parte della Costituzione stessa" (sent. n. 26 del 1981).

La materia oggetto della disciplina dell'art. 842 è priva di diretta rilevanza costituzionale, quanto meno nel senso che tale disposizione esprime una composizione largamente discrezionale fra un diritto costituzionalmente garantito, quale il diritto di proprietà, e un interesse non fornito di garanzia costituzionale, ma liberamente preso in considerazione dal legislatore ordinario al fine di disporre un limite al diritto di proprietà).

La scelta del legislatore del codice, pur se legittima (secondo la sentenza n. 57 del 1976 di questa Corte), non è certo obbligata. Anzi, essa va, come si è detto, nel senso della compressione di un diritto costituzionalmente garantito, in nome di un interesse (quello all'esercizio della caccia nei fondi altrui) certamente non fornito di tutela costituzionale. Nella abbondante e consolidata giurisprudenza di questa Corte che ha preso in considerazione la disciplina della caccia, è infatti un punto chiaramente affermato quello secondo cui l'esercizio della caccia e l'acquisto della selvaggina attraverso la caccia "non rappresentano nel nostro ordinamento estrinsecazione di diritti garantiti dalla Costituzione" (sent. n. 50 del 1967, sent. n. 93 del 1973), ma semplicemente attività aperta "alle libere determinazioni dei singoli", in un campo in cui "questi non hanno da vantare diritti soggettivi" (sent. n. 50 del 1967); che "l'esercizio della caccia è un'attività che non è protetta dall'ordinamento giuridico c

ome diritto soggettivo, ma che trova il suo limite nell'interesse pubblico" (sent. n. 212 del 1972); che "la cosiddetta libertà di cacciare non è costituzionalmente garantita, ma è una facoltà soggetta a disciplina pubblicistica" (sent. n. 219 del 1974); che è infondata la configurazione di "una libertà di caccia, il cui esercizio rimane soggetto ai soli limiti configurati dalle leggi statali" (sent. n. 148 del 1979). Alla luce di queste chiarissime statuizioni vanno lette anche le affermazioni contenute in qualche sentenza che qualifica l'esercizio della caccia come "un aspetto del diritto di libertà" (sent. n. 219 del 1974, cit.) o come "diritto di libertà individuale" (sent. n. 57 del 1976).

Esse significano dunque che l'attività venatoria, inclusa fra le "libere manifestazioni sportivo-agonistiche" (sent. n. 57 del 1976, cit.), costituisce esplicazione della generale libertà (di fatto) degli individui, cioè della facoltà di liberamente determinarsi, nell'ambito del lecito, e condizionatamente ai limiti e alle modalità stabiliti in vista dell'interesse pubblico, che non assurge allo status di situazione giuridica costituzionalmente protetta.

Non vi è dunque alcun vincolo costituzionale a riconoscere o a garantire un diritto o una libertà di cacciare, tanto meno nei fondi altrui e contro la volontà dei proprietari.

Per questo la Corte a volta a volta chiarito che non sussiste in tema di disciplina della caccia una riserva di legge, quale invece dovrebbe sussistere se si trattasse di libertà costituzionalmente garantita (sent. n. 134 del 1963); che è legittima l'estensione del regime di riserva di caccia a un intero territorio provinciale (sent. n. 59 del 1965 e n. 71 del 1967); che l'attività di caccia è legittimamente sottoposta a poteri discrezionali dell'amministrazione (sent. n. 50 del 1967); che è legittima la sottoposizione di un territorio al regime di caccia controllata (sent. n. 69 del 1971) anche ad opera della legge regionale e con estensione all'intero territorio regionale (sent. n. 148 del 1979); che è legittimo il regime delle riserve di caccia che limita a taluni soggetti l'esercizio venatorio (sent. n. 93 del 1973).

La facoltà d'accesso dei cacciatori ai fondi altrui non chiusi è dunque una concessione libera del legislatore, non certo attuazione di un precetto costituzionale (ponendosi anzi come deroga consentita ma non certo imposta al contenuto ordinario del diritto di proprietà costituzionalmente garantito).

Del resto, nel merito, è ben chiaro che i modi per comporre i contrastanti interessi dei cacciatori e dei possessori dei fondi possono in fatto essere molti e diversi (cfr. ad es., in proposito, le interessanti considerazioni di Gambaro," Costo della caccia, "cit. specie p. 606 ss.): quella prescelta dal legislatore dell'art. 842 c.c. è solo una di queste discipline possibili, per nulla vincolata costituzionalmente. In nessuno modo dunque e sotto nessun profilo sarebbe possibile considerare l'art. 842 c.c. disposizione a contenuto costituzionalmente vincolato; è dunque ammissibile il referendum per la sua abrogazione.

Roma 8 gennaio 1987"

Avv. Prof. Valerio Onida

 
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