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Negri Giovanni - 26 febbraio 1987
RELAZIONE AL 32· CONGRESSO DEL SEGRETARIO DEL PARTITO RADICALE GIOVANNI NEGRI

32· CONGRESSO DEL PARTITO RADICALE

SECONDA SESSIONE

ROMA - 26-27-28 FEBBRAIO - 1 MARZO 1987

SOMMARIO: Ringraziando gli 11.000 cittadini che con la loro iscrizione hanno impedito la chiusura del Pr, Giovanni Negri afferma che il congresso dovrà decidere se questo risultato positivo deve rappresentare un traguardo oppure un punto di partenza per la costruzione del nuovo partito trasnazionale. Il progetto che il Partito di deve dare si basa su due "utopie" una democrazia rigenerata e la vittoria di una politica di vita, pace, diritti umani in Europa e nel mondo.

Roma, 26 febbraio 1987

Amiche e amici, nuovi e antichi compagni radicali, gentili ospiti del Congresso, non è facile spiegare perché siamo qui, perché è stato possibile ritrovarci. Occorrerebbe molto tempo e io intendo invece essere parco di parole, in una relazione che apre non il XXXII Congresso (interrotto in un momento in cui nessuno di noi sapeva se mai sarebbe ripreso) bensì la sua seconda sessione, chiamata ad assolvere ad alcuni specifici e precisi adempimenti.

Cos'è accaduto?

E' accaduta una cosa semplice e straordinaria. Accade che siamo speranza, speranza viva. Come spesso dice Marco Pannella la speranza talvolta è crudele, ed è vero perché esige intelligenza, responsabilità, scelta. Ora che tante speranze si sono riconosciute, fatte parte e partito, messe in gioco e in causa; ora che in Italia e nel mondo migliaia di persone con i più incredibili itinerari di vita, fatti di grandi saggezze o di grandi errori, hanno scelto di compromettersi con la nostra storia di radicali; ora che tutto conferma come non si sia voluto consolare e solidarizzare ma investire in fiducia; ora siamo davvero condannati all'altezza di questa speranza, a un'ambizione adeguata, ed aprire una nuova fase del Partito Radicale rifondando i contenuti della nostra politica e gli strumenti necessari per affermarla.

C'è una scelta che dobbiamo fare, prima di ogni altra. E' vero: ci è stata data tanta forza o siamo forza. Quando c'è, la forza chiede un prezzo e vuole manifestarsi in una delle tante forme di potere possibili. Che vogliamo fare della nostra forza? La risposta forse non si scrive in una mozione congressuale, ma ciascuno se la deve dare. Io credo che il potere dei radicali debba essere sempre più il potere della parola e delle idee. Per alcuni non conta nulla, per noi è il potere più alto. Ambiziosi come siamo verremmo meno a noi stessi se imparassimo e facessimo nostro il peggio degli altri piuttosto che tentare di cambiare tutti gli altri, dando ad essi il meglio che abbiamo, cioè esattamente il potere delle nostre idee e della nostra parola.

Questo, credo, è il vero modo di ringraziare tutti coloro che qui dovrei ringraziare e non lo posso fare perché dovrei leggere un libro: un albo che peraltro abbiamo stampato, con i nomi degli 11.000 iscritti dal 1986. Una sorta di albo delle virtù civili dove si mescolano nomi noti di grande dignità o colpevoli di grandi indegnità, come accade in tutte le battaglie e anche in questa, che è stata la battaglia nonviolenta per la vita e la crescita del Partito Radicale. Il bilancio che vi devo, dei poco più di cento giorni trascorsi da novembre ad oggi, è fatto di molti nomi: innanzitutto i nomi dei tanti compagni che hanno umilmente raccolto e fatto divenire realtà questa forza radicale, indispensabile per operare in un quadro così deteriorato di democrazia e di diritto che rischiava di vederci assumere il ruolo dell'alibi, del fiore all'occhiello ricacciato ai margini.

Grazie a voi, dunque, oltre che ai nomi emblematici e prestigiosi che dai Paesi dell'Africa agli Stati Uniti, da Israele agli Stati del nostro continente, dalle massime onorificenze del Nobel alle celle più buie, dalle redazioni dei giornali ai ministeri e ai parlamenti regionali, nazionale, europeo, dal mondo dello sport e dello spettacolo a quello delle libere professioni e delle cultura, hanno voluto essere il Partito Radicale del 1987.

E un modesto grazie, a questo punto, anche alla RAI-TV. A parte le lodevoli eccezioni del direttore del TG2 e dei vani sforzi del suo Presidente, (che ringraziamo per la sua seconda presenza al nostro Congresso, perché questo atto di Enrico Manca sappiamo essere non di mera cortesia ma di esplicita e voluta attenzione) questa RAI ci ha conferito il grande onore di non apparire mai alla sua televisione per riflettere e dibattere anche per un solo minuto su questo nuovo partito, sul fenomeno straordinario che si è verificato e che se fosse accaduto anche in dimensione infinitamente più piccola a qualsiasi partito di potere avrebbe provocato centinaia di caroselli gratuiti, per tessere le lodi di chi si iscriveva e del potente al quale l'iscrizione era destinata. La RAI ci ha confermato che siamo proprio altri, diversi, distanti dalle sue logiche e dai suoi metodi, dei quali siamo vittime.

E la sua disinformazione, ben lo sappiamo, colpisce ogni giorno anche altri partiti come D.P., l'M.S.I. e lo stesso P.C.I., o minoranze interne ai partiti come nel caso della DC, o interi soggetti sociali.

Evviva, invece, di fronte a certa TV, questa Italia dello spettacolo che ben sapendo cosa significhi essere in odor di radicali sceglie questo partito.

Lo dico ricordando ancora Claudio Villa. Lo dico perché sono fiducioso che possa venire il giorno in cui anche noi, Enzo, come tu giustamente hai avuto diritto di fare, si possa rispetto alla Costituzione, all'informazione e alla verità rivolgerci anche con te da quel teleschermo al cittadino italiano, dicendogli ``dunque, dove eravamo rimasti?''.

Il nostro saluto va invece a quanti, con seria professionalità giornalistica, hanno saputo capire e spiegare questa bellissima avventura radicale; o chi da solo, pure al di fuori dell'elemento organizzato Partito Radicale, riesce ancora ad alimentare anticonformismo, cultura e critica vere e vive, come è il caso di Leonardo Sciascia. La rispondenza e il senso quasi liberatorio che hanno accolto le parole di Sciascia nella sua ultima polemica hanno qualcosa di simile al riconoscimento che ci è giunto attraverso migliaia di iscrizioni: c'è il segno comune di un conflitto nel quale attraverso mille forme, si contrappongono gente comune e poteri reali; una domanda diffusa di regole vere, non di vecchi e falsi riti, nel rapporto fra cittadino e Stato. Un altro segno di quel ``partito del diritto'' del quale parlavo nella relazione di novembre, tanto presente in ogni settore politico e sociale quanto sommerso e frustrato da un sistema che umilia la democrazia e riduce le istituzioni a feticci. Ma se davvero, come

io credo, la questione della certezza del diritto e della necessità di ridare un corpo e un'anima a una democrazia repubblicana che ne è stata spogliata, viene oggi vissuta da molti come prioritaria e centrale, allora il Partito Radicale con questa grande mole di energie, capacità, competenze, ha una precisa responsabilità e dobbiamo sciogliere un altro nodo. Occorre decidere se il risultato raggiunto a dicembre e a gennaio è per noi un traguardo, un punto di arrivo o non invece un punto di partenza, il segno del nuovo possibile che si annuncia, che non riguarda solo noi e che può cercare e trovare nella gente, non solo in Italia, un miracolo ancora maggiore di quello incontrato in queste settimane. La via della realpolitik ci spingerebbe a contare e ricontare i nostri beni, accumulati con tanta fatica. La via della nostra storia e dell'intelligenza credo ci debba spingere invece a investirli e rischiarli tutti in una nuova, grande utopia radicale, cioè in puntuale proposta, progetto, obiettivo.

Sarebbe del resto sbagliato confondere la nostra maggiore forza soggettiva con il superamento delle condizioni di non-demcorazia, di non-certezza del diritto e delle regole del gioco che la risoluzione Pannella denunciava, traendone la conclusione della chiusura del partito. Le migliaia e migliaia di iscritti in più al PR di questi mesi, che sono evidentemente pochissimi rispetto ai milioni di ascritti agli altri partiti, o ai sindacati, non sono di per loro il sintomo di una democrazia riconquistata: dalla Corte Costituzionale che straccia referendum a istituzioni svuotate di ruolo, sino a tutti i luoghi del rapporto cittadino-Stato (pensioni, sanità, occupazione), al crescere come funghi velenosi di poteri occulti o di strapoteri illegittimi, sempre all'insegna della non-regola, sempre in balìa di potentati e di mercanti (d'armi o d'altra specie), per tacere dell'informazione e della giustizia, davvero non si può parlare di riconquistata democrazia e certezza del diritto.

Le migliaia di nuovi radicali sono invece la risorsa, l'energia, la forza di un Partito che si deve dare, credibilmente, un progetto.

Noi oggi vogliamo riformare la democrazia repubblicana.

Noi oggi vogliamo tentare un modo rigoroso, organizzato, nonviolento di ribaltare le tendenze dominanti della politica internazionale, che sempre più sono tendenze di guerra, di miseria, di sudditanza politica ed economica. Ecco cosa vogliamo fare di questa bellissima, relativa forza radicale.

E queste due utopie, una democrazia rigenerata, la vittoria di una politica di vita, pace, diritti umani in Europa e nel mondo, non sono per noi declamazioni. Per noi vale l'``hic et nunc''. Per noi prospettare un partito transnazionale dell'unità europea e dei diritti umani, e un partito transpartitico, un ``secondo partito'' della riforma politica democratica, significa concretamente vivere, lavorare, capire, organizzarci per arrivare già su basi solide alla rifondazione. Un processo, che da qui dobbiamo aprire, di rifondazione politica che certo non può esaurirsi nella sola, pur già ardua, rifondazione statutaria e organizzativa del Partito Radicale, perché si tratta di una rifondazione che ha come suo logico complemento la ridiscussione profonda anche degli altri partiti, nonché degli assetti politici e istituzionali delle nostre società, quindi dell'Europa.

Un partito transnazionale, nel solco di Rossi e di Spinelli, per dare subito poteri costituenti al Parlamento di Strasburgo, perché i popoli europei possano votare e far sentire la loro voce a burocrati e governanti miopi, per gli Stati Uniti d'Europa, per dare risposta a quei grandi problemi del nostro tempo che la politica radicale ha tutti individuati e lambiti. Si tratta di problemi di governo del mondo: di fronte alle due superpotenze non possiamo lasciare il vuoto delle piccole potenze europee, destinato a diventare un vuoto di responsabilità. Né come cittadini possiamo riconoscerci solo in quei simulacri vuoti delle internazionali dei partiti. Solo la prima internazionale operaia riuscì, per un attimo nella storia, ad essere transnazionale (ad essa, non al proprio partito nazionale, ci si iscriveva direttamente), prima che le internazionali dei partiti diventassero pericolosi strumenti di egemonia o semplice momento di confronto delle opinioni dei diversi partiti nazionali.

Ma fu sufficiente quell'esperienza per anticipare di decenni l'esplosione della questione operaia, come, appunto, questione che attraversava le frontiere ed esigeva risposte al di là delle frontiere. Oggi, molto più di allora, le questioni decisive per la nostra vita e le nostre società esigono partiti transnazionali e soprattutto un diritto positivo e istituzioni internazionali.

Lo Stato nazionale è oggi solo un contenitore del passato: pace e sicurezza, diritto alla vita nel Terzo e Quarto mondo dove a colpi di sterminio e di criminale uso dell'arma alimentare si giocano partite di dominio, minacce forse irreversibili all'equilibrio ecologico del pianeta, diritti e garanzie di libertà da conquistare e riscrivere dinnanzi a un'incessante rivoluzione tecnologica, sono tutte questioni cruciali che non possono trovare alcuna risposta nella dimensione dello stato nazionale.

Per tentare di gettare le basi del partito transnazionale di un nuovo umanesimo, della nonviolenza e del diritto occorrono una riflessione e una decisione del Congresso, obiettivi precisi di iscrizioni e di apertura di fronti di lotta politica al di fuori del nostro paese. Senza che ciò ovviamente induca in un errore: essere partito transnazionale non significa esportare un partitino in questo o quel paese. Per ciascuno può significare dare centralità, dove vive e lavora, a questi grandi temi che riguardano direttamente la nostra vita, pagando magari ancora una volta il prezzo dell'esser presi per folli perché anziché di consigli comunali, banche e USL parleremo ancora di sterminio per fame e affermazione di coscienza o di buco nell'ozono, desertificazione, difesa dei mari o condurremo la campagna per la vita e la libertà di coloro che sono vittime dei regimi totalitari. Stati Uniti d'Europa, iniziativa straordinaria di vita verso il Sud del mondo e affermazione dei diritti umani compongono il trittico di un

a nonviolenza che può divenire politica attiva a misura di cittadino e a misura di Stato. E consentitemi su questo tema dell'affermazione dei diritti umani, a Oriente come a Occidente (quell'Occidente dove il caso di Paula Cooper sta diventando l'emblema dell'obbrobrio della pena di morte, che deve essere spazzato via, se l'Occidente come noi speriamo vuole essere davvero simbolo di civiltà e di tolleranza) alcune precisazioni sulla nostra lotta contro l'antisemitismo e contro il sistema sovietico, che sono stati ragione di tanta iniziativa in questo ultimo periodo.

Io credo che senza confondere due fenomeni diversi come l'antisemitismo e l'antisionismo, noi dobbiamo ancor più impegnarci nella difesa degli ebrei ovunque perseguitati, nonché dello Stato di Israele, da quegli attacchi che non costituiscono critiche legittime e doverose per chi ne giudica responsabilità e scelte politiche, ma ostilità preconcette e solidarietà meccaniche con i suoi nemici.

Due fatti sono assolutamente certi:

1) In URSS, in altri Paesi del sistema sovietico; nel Medio Oriente e in particolare in Siria, in Irak e in Iran; in Paesi africani musulmani e non, gli ebrei sono perseguitati in quanto tali, per motivi razzistici, ideologici, religiosi e politici;

2) - per quanto errata e odiosa possa apparire l'azione di guerra di Israele nei territori occupati e amministrati, Israele non costituisce la causa prima, più grave, più intollerabile delle tragedie delle popolazioni arabe e di altri gruppi etnici e religiosi del Medio Oriente. Purtroppo occorre riconoscere che in nessun altro paese del Medio Oriente le condizioni di libertà, di diritto al dissenso sono maggiori che nei paesi della Cisgiordania e di Israele, per quanto riguarda i cittadini arabi. In Israele e territori occupati questi diritti sono minimi e in pericolo, ma ci sono. In Siria, in Libano, in Yemen del Nord e del Sud, negli Emirati, in Arabia Saudita, in Giordania stessa, le dittature sono feroci. Lì i diritti della persona e del popolo sono altrettanto ignorate dai sovrani e dai dittatori, quanto dall'insieme della sinistra internazionale, affetta da un sorta di razzismo ideologico: persona e popolo esistono solo se vittime di Israele o presentate come tali.

Ci si fa carico, unicamente, della ``liberazione'' e della indipendenza della Palestina. Se questa dovesse avvenire secondo la cultura e l'ideologia delle classi dirigenti arabe e dei loro sostenitori occidentali di sinistra e di desta, sarebbe facilissimo prevedere che - entro pochi anni - in Israele dovrebbero essere accolti come rifugiati gli Arafat e i loro avversari, a seconda della vittoria dell'una o dell'altra fazione.

Per noi Israele è e deve essere sempre di più testa di ponte storica della democrazia politica per tutti, che deve essere riconosciuta a tutti i cittadini del Medio Oriente. Nella visione che noi abbiamo degli Stati Uniti di Europa, Israele deve trovare il suo posto pieno, di membro, con tutti gli oneri e gli onori che questo comporta.

Chi conosce le posizioni di Elie Wiesel, del nostro compagno Herbert Pagani, di Marek Halter, cui inviamo il nostro saluto affettuoso e riconoscente per la fiducia che ha espresso al Partito iscrivendosi per la prima volta nella sua già lunga vita di militante, di ebreo e di sionista intransigentemente democratico, o quelle di Bruno Zevi, di Rita Levi Montalcini, di Raffaello Fellah, o di Shulamit Aloni e del suo partito, non può nemmeno per un istante mettere in dubbio che noi tutti intendiamo fermamente creare le condizioni, in tempi brevi, politici, per aprire il fronte di una nuova lotta per promuovere la difesa dei diritti del più lontano, del più ignoto fra tutti i cittadini, le donne e gli uomini palestinesi, arabi, iraniani, irakeni...

Nessuno può mettere in dubbio che se Israele va amata e difesa dai radicali, dai democratici, come una propria patria, lo sarà sempre più da ciascuno di noi (cittadino israeliano, francese, italiano, africano o americano) con tutto il rigore, la passione civile che abbiamo in Italia contro quel che ci appare essere errore o delitto da parte di chi ci governa.

Sia ben chiaro che altre interpretazioni generali del problema sono ugualmente lecite e forse presenti nel nostro Partito. Quel che deve unirci sia pure solamente sul piano dell'indirizzo comune, sono le azioni puntuali che possono esser volute da noi tutti anche per altre ragioni anche al di fuori del giudizio di carattere generale.

Io penso, ad esempio, all'estendere ed aggravare la nostra azione militante, di azioni dirette nonviolente, oltre a quelle istituzionali e politiche classiche, per ottenere dall'Europa e dall'Italia un rapporto privilegiato di alleanza istituzionalizzata con Israele; e per ottenere che il maggior numero di refuznik dell'URSS e di ovunque, possano salutarsi fra di loro con il saluto di sempre: ``l'anno prossimo a Gerusalemme'', perché questo deve divenire letteralmente vero. Ma dobbiamo operare a fare davvero tutto il possibile, perché insieme a Joseph Begun anche Grigory Lemberg, Alexei Magarik, Marat Osnis, Dora Kostantinovskaja, Grigory Rosenstein, Natalie Rosenstein, Cerna Golodort, Ida Nudel, siano ``quest'anno a Gerusalemme''.

Come fare, con il carico enorme che abbiamo su tanti fronti, da quello dello sterminio per fame, a quello per la vita del diritto. Per questo dobbiamo rivolgere un appello non solo e non tanto agli ebrei, ma a chi ebreo non è, perché si iscriva, ci dia la forza e l'energia per condurre e vincere in questa iniziativa.

Noi abbiamo terminato il 1986 con le manifestazioni di Roma, Gerusalemme, Bruxelles e Parigi, dinnanzi alle Ambasciate sovietiche, chiedendo libertà per i dieci refuznik da noi prescelti dopo la visita della delegazione del Parlamento europeo alla Knesset. In quella occasione, pochi giorni dopo la liberazione di Sacharov, abbiamo deciso di esprimere la nostra posizione nonviolenta formulando i migliori auguri per il 1987 al popolo ed ai dirigenti sovietici perché quest'anno si proseguisse per una strada che sembrava già imboccata.

Poiché qualche equivoco e qualche incomprensione si sono manifestate, pur all'interno di un giudizio molto positivo sull'iniziativa, è necessario anche su questo punto essere chiari una volta per tutte.

Noi riteniamo che solo un'organizzazione gandhiana, nonviolenta, di militanza politica coraggiosa, può compiere quella efficace lotta per i diritti umani e civili, politici e religiosi (in due parole per lo stato di diritto e per la democrazia politica) che oggi è non solo un dovere urgente, ma la sola arma adeguata in uno scontro che è scontro fra due sistemi e due ispirazioni ideali assolutamente contrapposte.

Il Partito Radicale deve divenire sempre più in Europa occidentale, ma anche nell'Europa ad oppressione sovietica e del comunismo reale, questa organizzazione. A questo dobbiamo attrezzarci adeguatamente. Dobbiamo cioè violare la legittima legalità di quegli Stati; violarla deliberatamente, in modo organizzato, per affermare i diritti umani fondamentali, garantiti dalla Carta dei diritti dell'uomo fin dagli Accordi di Helsinki.

Occorre operare perché i nostri governi occidentali mutino politica; sia quello italiano che gli altri: possiamo farlo a partire dalla nostra presenza nel Parlamento europeo, in quello italiano, in quello dei colleghi parlamentari del Parlamentarians for World Order che ci auguriamo numerosi vogliano iscriversi al nostro Partito Radicale.

Ma dobbiamo operare esigendo che la destabilizzazione dei governi e dei sistemi dittatoriali diventi la strategia ufficiale, nonviolenta, dei Paesi di democrazia politica.

Lo diciamo da tempo: questa destabilizzazione deve effettuarsi con tutta la forza delle nuove tecnologie, con una informazione sempre più forte, leale, di quei popoli; in primo luogo sui crimini contro i diritti umani e politici che vengono sistematicamente compiuti contro di loro.

Senza tutto ciò, le nuove linee Maginot dei missili e delle deterrenze sono destinate ad essere scelte pericolose e grottesche.

Noi siamo tutti con Bukowski quando ricorda all'Occidente che le armi che a Mosca si temono non sono quelle nucleari ma quelle delle idee di giustizia, di libertà, di democrazia e che queste armi occorre che siano usate a fondo. Noi siamo con il nostro compagno Leonid Pliusc, che ammonisce che Gorbaciov può andare certo ancora molto oltre nella fase di liberalizzazione dell'impero, ma non fino all'autodemocratizzazione, alla creazione di uno stato di diritto e di democrazia politica, al rispetto pieno dei diritti umani e civili.

Ma dobbiamo cogliere questo momento di contraddizione positiva, attenti a non cessare di chiederci, per esempio, se non stia di già accadendo che si liberino con clamore centinaia di persone, e nel contempo lo stato non ne stia incarcerando e perseguitando altre migliaia.

Come partito potremmo anche pensare di cominciare a lavorare affinché in due o tre anni si metta in piedi questa politica militante, che porti centinaia e non più decine di non violenti radicali per mesi e non per ore di arresto, a diffondere a decine di migliaia di copie, opuscoli, volantini, stampa, informazioni, e diciamo davvero, due, tre anni, non lustri.

Certo, questo potremo farlo se questo ``secondo partito'' diverrà tale anche per migliaia di esuli, di dissidenti in Europa ed in America, con la dura regola delle effettive iscrizioni e pagamenti di quota, perché giunga presto il giorno in cui sia magari un ``dissidente'', un democratico, un libertario russo, o polacco, o ungherese a governare il programma di lotte e le responsabilità istituzionali del P.R.

Consentitemi comunque di ringraziare qui, a nome - penso - di tutti i radicali, i circa 2.000 esuli, profughi polacchi dimenticati nei nostri campi di raccolta, che il giorno della manifestazione da noi promossa contro Jaruzelski ci strappavano di dosso i cartelli sandwich radicali, per indossarli loro. In quel momento, per un istante il ``popolo radicale'' è stato quello che noi sappiamo di poter e dover essere.

Erano lì, in 2.000, abbandonati e traditi, a dire: ``Anche noi siamo radicali'', e noi ``anche noi siamo polacchi, siamo di Solidarnosc''. E anche a questi amici lo ripeto con lo stesso rigore di quel giorno, la dura regola dell'iscrizione è la cruna dell'ago attraverso cui dobbiamo far passare la crescita di questo ``popolo'', e di questo ``partito''. Per poter gridare Viva la democrazia russa, Viva la democrazia polacca, Viva la democrazia nei Paesi dell'Est.

Partito transnazionale, quindi. Una scelta che sarà dibattuta e approfondita nelle commissioni congressuali, ciascuna delle quali rappresenta un vero e proprio prestigioso convegno a se stante, per il tipo di intervento che sono previsti. Una scelta da meditare, perché destinata a marcare in profondità la vita del Partito, almeno quanto quella del Partito transpartitico, del partito che vuole porsi come ``secondo partito'', per essere da subito e non a parole partito della riforma del sistema politico. Questo obiettivo, infatti, non coincide con il volerci gonfiare a tutti i costi e ci obbliga anzi a rigettare - a maggior ragione se in dieci o in ventimila - qualsiasi logica da piccola bottega partitocratica. Il partito della riforma, della democrazia e del diritto può essere partito di fecondo, diffuso associazionismo ma non può essere partito-apparato, partito-parastato, partito territoriale, di insediamento e di occupazione.

Si prenda l'esempio degli enti locali, sui quali ha ragione Mauro Mellini.

In luogo dell'autonomia si è instaurata una contrattazione e negoziazione permanente tra Stato, Regioni, Comuni con un va e viene di deleghe, competenze ecc. E la sede della contrattazione è la partitocrazia, che, occorre ammetterlo, diventa chiave di volta di un apparato istituzionale che altrimenti andrebbe in frantumi. Con i suoi ``vertici'', lottizzazioni, intese, spartizioni, organigrammi e persino con le sue tangenti assicura un minimo di razionalità sia pure brutale e ladronesca ad un caos istituzionale altrimenti inestricabile. In questo sistema le forze politiche autonomiste presenti in varie regioni sono sostanzialmente tagliate fuori da ogni potere, anche quando sono assai consistenti e presiedono giunte come il PSDAZ.

Questa è la parodia tragica delle autonomie. E del resto non ci possono essere autonomie se non c'è stato di diritto, certezza del diritto, chiarezza delle leggi, obbedienza alla Costituzione. Se Einaudi diceva ``Via il Prefetto!'', il partito della riforma deve oggi dire: ``Via questi Enti locali''.

Il nostro problema non è dunque quello di occupare Regioni, Provincie, Comuni, ma di battersi per rifarli.

Ed è evidente che provocare riforma vuol dire essere partito che attraversa e si fa attraversare dalle più diverse esperienze politiche.

Primo partito per i radicali, ma sempre più secondo, necessario partito del cittadino che oltre al proprio credo o alla propria tessera vuole garantirsi e garantire speranza di riforma. Un partito, dunque, che ancor più deve far deperire la caratteristica della sua autonoma presenza elettorale.

Grazie a Marco Pannella, alla risoluzione con la quale oltre un fa ci obbligò a guardare in faccia la realtà, grazie alla sua intuizione, al suo aiuto anche difficile - perché il rapporto con Marco, proprio perché molto creativo è sicuramente anche molto difficile - oggi ci ritroviamo con un patrimonio di credibilità e di forza molto accresciuto.

E' responsabilità nostra non disperderlo. Noi vogliamo fare del Partito Radicale il luogo della politica dove coloro che provengono anche dai più diversi orizzonti ideologici e partitici possono confrontarsi, liberi da ogni ipoteca partitocratica o di corrente, di gruppo.

Per noi ha quindi un grande valore la scelta della doppia tessera di centinaia e centinaia di compagni socialisti, amici laici, ma anche esponenti cattolici e iscritti al PCI, oltre che praticamente a tutti gli altri partiti, in quantità sicuramente non grandi ma comunque significative. Per la prima volta un elemento teorico del nostro Statuto federativo e libertario, ha preso davvero corpo.

Dobbiamo farlo crescere. Un sistema politico asfittico, bloccato, paludoso, ha più che mai necessità di fenomeni di questo tipo, almeno fino a quando un assetto di modello anglosassone non obbligherà tutti i partiti a mutare, creando partiti parlamentari e non parastatali, dando finalmente respiro e nuovo ossigeno alla società civile e al suo libero associazionismo.

Agli amici e ai compagni che oggi hanno la doppia tessera e speriamo ai tanti che vorranno prenderla, giungerà da noi sempre e solo una richiesta di dialogo. Mai altro, men che mai divieti, ordini, discipline che non esistono, nemmeno in caso di elezioni, formazioni delle liste, candidature.

L'iscritto radicale, con la sua sola tessera o con doppia tessera, è pienamente libero, cioè pienamente responsabile.

La nostra sola disciplina è la nostra responsabilità.

Certo la vocazione, la scelta di essere ``secondo partito'', ben più società fabiana capace di irradiare cambiamento piuttosto che apparato, ci pone nella felice condizione di guardare agli altri, a quanto di positivo e negativo si sta muovendo, con serenità e con rigore.

Non intendo qui analizzare compiutamente le posizioni dei vari partiti, nemmeno di quelli amici.

In generale mi preme ribadire, ancor più che nella prima sessione del XXXII· Congresso, l'acquisizione di una amicizia che sia sempre più salda, pur nelle tante divergenze e divergenti risposte a domande comuni, stabilite con il PSI.

Dal nostro Congresso inviamo, sin d'ora, un saluto fraterno al Congresso di Rimini del PSI. Ci felicitiamo che nel documento precongressuale i socialisti abbiano fatto un passo nella direzione ancora una volta comune. La proposta di elezione diretta del Presidente della Repubblica era certamente volta a cercare di ottenere, con una idea di grande valore emblematico anche se di modesto rilievo costituzionale, il consenso - tecnicamente necessario di PCI e DC - per questa riforma costituzionale. E comprendiamo perfettamente che, in questa ipotesi, il sistema uninominale secco non venisse ritenuto necessario o opportuno.

La risposta ottenuta dovrebbe rendere possibile, speriamo, una nuova, altra, grande, comune acquisizione: si punti definitivamente sull'elezione diretta del Capo dell'Esecutivo, come riforma costituzionale. E, intanto, di conseguenza, si scelga in questa prospettiva la via della riforma uninominale anglosassone del sistema elettorale. Se questa nostra speranza venisse a realizzarsi, al massimo fra 40 giorni la vita politica italiana registrerebbe l'avvio della più importante riforma democratica del sistema politico repubblicano.

Quel che vale per e con i compagni socialisti, vale per noi anche per gli amici liberali. Non intendiamo discostarci di un millimetro dalla scelta e dalla volontà di non tollerare, nei loro confronti, alcune discriminazioni, alcun sospetto gratuito e ingiusto. Noi siamo anche liberali, e lo sono anche i liberali, mi si perdoni l'apparente banalità, ma essa è in parte dovuta alla qualità delle polemiche nei confronti del PLI.

Ai compagni del PSDI, dopo le sprizzanti sortite del compagno Nicolazzi, e dandogli atto della sua simpatica e positiva attenzione e amicizia nei nostri confronti, diciamo che comunque noi resteremo - senza complessi nei confronti di nessuno - attivamente solidali contro quella sorta di stupido razzismo antisocialdemocratico che in Italia si nutre di alibi meschini. Ci rammarichiamo del mancato impegno referendario, ci felicitiamo della disponibilità piena a liste comuni al Senato, anche se per noi non sono concepibili senza la presenza liberale, se proprio dovessimo rassegnarci (ma non intendiamo farlo) a rinunciare a quella repubblicana.

Per i Verdi è presto detto. Noi vogliamo le liste Verdi alle elezioni politiche, le sosterremo, e se sarà opportuno dovremo farci carico di garantire loro la certezza del raggiungimento del quorum richiesto. Non dubitiamo che questo ci varrà ancora una volta una solida inimicizia provvisoria da parte di eligendi ed eletti. Ma è un prezzo che all'amicizia e alla comunanza ideale e civile si potrà ancora una volta pagare.

L'esigenza di profonda riforma del sistema politico e di conquista e riforma democratica, vorremmo fosse invece più e meglio valutata dal Partito Comunista, al quale chiediamo attenzione e confronto e col quale non vogliamo polemiche gratuite e pretestuose. Il PCI sembra in perenne oscillazione tra le ipotesi di governi di programma e l'enunciazione dell'alternativa. Mi pare ci sia qualcosa che non funziona, qualcosa di bloccato in tutto ciò che obbliga poi il vertice del PCI a trasformarsi o ad assumere l'immagine, in ogni occasione davvero importante, di difensore dello status quo. Come può il PCI non comprendere che uno schieramento laico di governo, alternativo alla DC (certo problematico, difficile da costruire, ma di questo sempre più si va ragionando) se si realizzasse sarebbe l'interlocutore primo e più utile per una politica di verro cambiamento? Certo vi sarebbe, in questo caso, un dialogo e un'alleanza fra pari, un'alleanza democratica, come è giusto che sia, in luogo del disegno che purtroppo il

PCI continua ad inseguire, puntando a scegliersi di volta in volta gli interlocutori fra partiti piccoli, subalterni, divisi, ed egemonizzabili. Io credo che per sciogliere alcuni loro nodi cruciali, i compagni comunisti debbano sciogliere innanzitutto questo nodo, non dando più l'impressione che tutto il dibattito interno ed esterno sia delegato alle colonne di ``Tango'' e al pur simpatico Bobo.

Del resto le potenzialità di un progetto di riforma della democrazia repubblicana oggi ci sono tutte. Oltre duecento parlamentari dei più diversi partiti, sindaci di grandi città e consiglieri regionali, prestigiose personalità hanno non a caso dato vita, su impulso radicale, alla Lega per la riforma del sistema elettorale, puntando sull'uninominale e sullo schema anglosassone. E' uno schieramento che dimostra quanta insofferenza vi sia verso un pluralismo divenuto solo spartizione e verso una lotta politica ridotta a una dimensione libanese. Dobbiamo nelle prossime settimane andare avanti su questa strada e contemporaneamente su quella del rafforzamento delle nostre lotte.

Prendiamo la battaglia sulla giustizia: cosa può significare un partito radicale più forte, se già duemila radicali sono riusciti a portare al centro della politica le piaghe della giustizia italiana? E cosa significa un congresso che ospita qui, salutandoli con affetto e nonviolenza, gli iscritti, i compagni che dalle celle di Rebibbia si sono rivolti con belle e profonde parole di nonviolenza agli assassini che hanno insanguinato Roma nei giorni scorsi, ponendosi come i più sicuri e funzionali alleati di chi non vuole che vi siano né grandi né piccole riforme, né uscita dall'emergenza, né soluzioni finalmente giuste a vergogne quali il caso 7 Aprile, il cui processo d'Appello è ora in corso e che è per noi il vero banco di prova della volontà di cambiare una prassi giudiziaria pericolosa e violenta?

Giustizia penale e civile, maxiprocessi e pentitismo, bilanci dello Stato e riforma per agenti di custodia, di pubblica sicurezza e carabinieri, carceri e tribunali sono già tutti temi che anche e soprattutto grazie all'iniziativa radicale hanno investito la classe politica. Il nostro impegno deve crescere, così come crescerà il NO a un progetto Rognoni sulla responsabilità civile del giudice che anziché rispondere alla domanda referendaria peggiorerebbe solo l'attuale normativa.

Sull'Energia e sull'Ambiente, Corte Costituzionale o meno, occorre che prima o poi una stragrande maggioranza di opinione pubblica contraria alla caccia possa esprimersi e votare. E' un impegno che assumiamo, per un fatto di pura e semplice democrazia prima ancora che per il contenuto di questa battaglia, alla quale spero che le associazioni radicali ancor più affianchino quelle contro la vivisezione, gli inquinamenti dell'aria e delle acque, per le chiusure dei centri storici e per città a misura d'uomo, lavorando in quel movimento verde che abbiamo animato e del quale siamo a pieno titolo parte integrante.

Tanta acqua, purtroppo sempre più inquinata, è passata sotto i ponti da quel 1978, quando Forattini disegnava Pannella con in bocca il cartello del ``referendum sul nucleare'', assoldato e frustato da uno sceicco petroliere del quale era il portantino. Oggi, a quasi dieci anni di distanza e dopo Cernobyl, vedete come il tempo è galantuomo.

E oggi, da qui, va alla Conferenza Energetica che è in corso un pensiero di pia solidarietà, perché è tanto divertente e non conta proprio niente.

La sola conferenza energetica che conta è quella che è stata convocata per il 14 giugno e che rappresenta un'occasione unica, straordinaria di dibattito politico e scientifico da affrontare con grande serenità e senza preconcetti.

Ecco, queste nostre battaglie sono già di per loro strumenti straordinari per riconsegnare ai cittadini politica e democrazia, per svecchiare un sistema logorato e paralizzato. Strana avventura, quella radicale. Quando in un pomeriggio uggioso di gennaio, di oltre un anno fa, concepimmo a tavolino un referendum sulla giustizia; quando in una mattinata un po' più serena lanciammo tre referendum sul nucleare (e non fu facile, credetemi, convincere a farli con noi molti di coloro che si proclamano Verdi che più Verdi non si può), davvero non pensavamo di poter fare esplodere con tanta forza questi grandi temi, né di dare così tanti incubi a molti palazzi della politica, a botteghe di partito, a potentati e corporazioni che - toccati nel nervo giusto - stanno reagendo in modo scomposto e arrogante.

E nemmeno pensavamo, quando con tutta la nostra intransigente passione di democratici chiedemmo ai cittadini lo sciopero del voto e adottammo il codice di comportamento del non-voto parlamentare per denunciare il sistematico stravolgimento delle regole del gioco nelle istituzioni, di risultare poi - a distanza di pochi anni - come il gruppo parlamentare che può vantare forse il più efficace e significativo bilancio di vittorie, basti ricordare la vicenda Andreotti-Sindona e i fondi neri IRI, gli scandali scoppiati sulle tangenti per le armi all'Irak e per le armi all'Iran, gli stanziamenti aggiuntivi che hanno consentito di varare il nuovo codice di procedura penale e ammodernare strutture e strumenti degli agenti di pubblica sicurezza in Campania, Calabria e Sicilia.

In dieci deputati del non-voto, accusati di aventinismo o servilismo, in duemila cittadini, tanti quanti allora eravamo, abbiamo saputo essere partito di vero buon governo dei temi cruciali di questi anni, e di vera, efficace opposizione che scompiglia i giochi, divide, ricompone nuovi schieramenti ben più di ogni altro, grosso e piccolo, partito di opposizione.

Però ora dobbiamo puntare più in alto. La posta in gioco è la riforma della democrazia repubblicana. Anche per questo, pur essendovi per noi tutte le condizioni propizie, diciamo no alle elezioni anticipate. E' un no che va di moda: ma noi lo diciamo per davvero, per quella prudenza e quella responsabilità che sono sempre state virtù radicali.

E' un triplice NO. NO perché non si possono usare arbitrariamente le elezioni per impedire referendum che ormai debbono tenersi. Il Parlamento ha avuto prima interi lustri, poi mesi e mesi per legiferare: ora non potrebbe che produrre i consueti, già visti e sperimentati, pasticci dell'ultima ora. Né può essere invocato strumentalmente, sui referendum, il rischio della rottura della maggioranza. In diverse altre consultazioni referendarie i partiti della coalizione si trovarono su posizioni contrapposte e non per questo vi fu crisi di governo e scioglimento delle Camere; chi afferma che i problemi del pentapartito si identificano con l'iter e lo svolgimento dei referendum, afferma il falso. NO perché salterebbero decine e decine di leggi decisive sia per la generalità dei cittadini che per importanti categorie, e questo comporterebbe un costo altissimo. Basti pensare alle riforme del processo civile e amministrativo, delle unità sanitarie locali, delle pensioni e degli agenti di custodia; alle leggi sul traf

fico d'armi, sulle minoranze linguistiche, sul risparmio energetico... e non sono che alcuni esempi.

NO, infine, perché non possiamo accettare che ormai da vent'anni viga un Costituzione materiale, di fatto, che assegna al Parlamento una vita di 4 anni al massimo. Né possiamo accettare che ciò accada nel momento in cui l'anno che abbiamo di fronte può essere decisivo per alcune, puntuali, riforme istituzionali e per un processo di riflessione presente in diverse forze politiche che potrebbe trasformare l'appuntamento naturale delle elezioni del 1988 dall'ultima, stanca e ripetitiva occasione per raschiare il fondo del barile del sistema partitocratico nella prima, effettiva occasione data la Paese di scegliere nuove istituzioni, nuove regole, forse nuovi e inediti schieramenti.

Se ci si imporranno le elezioni anticipate, valuteremo il da farsi: ma non saranno certo queste elezioni con i loro risultati e i loro effetti contingenti, risibili, a doverci distogliere sia dalle campagne internazionali che occorre subito animare, sia dall'obiettivo della riforma del sistema politico. Le elezioni andrebbero semmai utilizzate a questo scopo, tentando di dare vita quanto meno attraverso l'elezione e le liste per il Senato - se non anche attraverso quelle della Camera - a uno schieramento, un fronte della riforma federalista e repubblicana, in grado di proporre al Paese un profondo mutamento degli assetti istituzionali e politici.

Come vedete, compagne e compagni, l'aver vinto la prima parte della sfida radicale comporta molta riflessione, dibattito, responsabilità.

Ora le ragioni e le speranze in nome delle quali abbiamo posto drammaticamente in discussione la vita del partito ci chiamano ed esigono una sfida ancora più difficile. Non credo sia un sogno ad occhi aperti, anche se sognare ad occhi aperti non sempre guasta. A voi il compito di ragionare, decidere, trasformare in realtà questo progetto e questa sfida, con tutta l'intelligenza e la tenacia che i radicali sanno avere.

Buon lavoro, buon 32· Congresso.

 
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