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Martino Rocco - 18 marzo 1987
Sconfiggere la cultura della violenza
di Rocco Martino e Norma Andriani

SOMMARIO: Nel loro intervento al Congresso del Partito radicale, Rocco Martino e Norma Andriani, condannati per appartenenza ad un gruppo terroristico, indicano nella cultura della violenza la spinta maggiore che ha portato tante persone nel partito armato. L'impegno politico per affermare il diritto alla vita e la nonviolenza.

(Notizie Radicali n· 62 del 18 marzo 1987)

Amici e amiche, compagni e compagne radicali,

avremmo voluto che questo mio intervento entrasse nelle tematiche proprie di questo congresso.

Ma ci siamo resi conto che innanzitutto è necessario rispondere ad alcune domande fondamentali, importanti, che molti fanno, ci fanno.

E' giusto, si chiede, è necessario, perché ridare parola agli ex-terroristi?

E' semplicemente da una parte un cinico spot pubblicitario del Pr?

E dall'altra è forse uno sporco commercio per uscire dal carcere?

Siamo stati, chi direttamente chi non, causa di drammi, lutti, di ferite profonde e irrisarcibili... ed addirittura ci si permette di fare politica !

Sono domande a cui bisogna rispondere, con serietà e chiarezza, con onestà, con le parole della gente comune.

Per varie ragioni io forse sono il meno adatto a dare queste risposte, ma oggi, poiché sono qui, in mezzo a voi, fra la gente libera, tocca a me assumermi quest'onere.

E' giusto che sia così.

Io sono stato condannato a 30 anni di carcere per detenzione di armi, associazione sovversiva e le rivolte del 1980 nelle carceri di Nuoro e Trani.

Non ho mai ucciso, nè ferito. Ma questo ha poca importanza: è stato solo per caso se non ho tolto la vita a qualcuno.

Eppure culturalmente, politicamente, mi sento, sono, responsabile comunque anche per coloro che hanno ucciso.

Ancora solo due settimane fa abbiamo pubblicamente scritto che non possiamo tacere di fronte a ciò che è accaduto il 14 febbraio scorso.

Non ci è permesso prendere distanze, per quanto coloro che oggi sparano siano lontani da noi mille miglia, siano tutt'altra cosa, lontani ideologicamente, culturalmente, socialmente; probabilmente erano adolescenti all'epoca in cui noi trasformavamo le giuste utopie in terribile piombo.

Loro, quelli che hanno sparato il giorno di San Valentino, sono comunque "figli nostri". Noi siamo stati i primi, in questo Paese, dal dopoguerra, ad aver dimostrato possibile quella atroce cosa che è uccidere in nome di un'ideologia di sinistra. In questo senso noi ci sentiamo chiamati a fare "qualcosa" almeno per impedire che essi si riproducano.

E' troppo comodo dire "sono assassini", "sono altra cosa da quello che eravamo noi". Non basta.

Io ritengo che noi ex-militanti della violenza politica dobbiamo ora autocondannarci a questo "qualcosa" da fare; incorrere nel rischio di diventare noi stessi vittime.

Noi, possiamo solo parlare. Pubblicamente però, culturalmente. Non nelle stanze buie su oscure carte scambiando la nostra libertà con la prigionia di altri. No, questo sarebbe il commercio del pentitismo che ha fatto, forse, più danni di quanto si possa immaginare.

Noi dobbiamo pubblicamente, alla luce del sole, parlare, ragionare, smontare la cultura della violenza politica.

Noi ex-terroristi siamo i primi a dover fare politica per sconfiggere la cultura della violenza.

Altro non possiamo, per ragioni etiche e di efficacia.

Noi sappiamo bene come da un generoso sentimento civile di giustizia si possa giungere ad uccidere; come dalla giusta umana rivolta contro le ingiustizie si possa arrivare a teorizzare e praticare la morte di chi personalmente o simbolicamente è ritenuto in qualche misura responsabile delle ingiustizie che milioni di persone subiscono ogni giorno in ogni angolo del mondo, dal portone della casa accanto ai popoli lontani e sconosciuti.

Noi dobbiamo e vogliamo riflettere e parlare per trovare quel punto in cui la sensibilità per le ingiustizie altrui e proprie si trasforma in cinismo, in freddezza macchinica.

Anche coloro che, come me, per caso, non hanno ucciso, hanno però attraversato nella propria coscienza quel punto oscuro e selvaggio.

Siamo tutti gente di mondo, come si suol dire, anche il cittadino comune, almeno una volta nella sua vita ha attraversato quel punto in cui l'indignazione si trasforma in odio, in propositi vendicativi. Ma è solo un momento.

La differenza con quello che eravamo noi sta nel fatto che noi avevamo ereditato una cultura capace di trasformare quel momento in teoria politica, in pianificazione politica, in giustizialismo prima e in teoria di guerriglia dopo.

Da ragazzo, giù in un paesino calabrese, quando le sere d'inverno, dopo il lavoro nelle campagne, accanto al fuoco, i nonni raccontavano di come nel 1949 i carabinieri spararono a Melissa contro i contadini che occupavano le terre, uccidendo una donna incinta e due ragazzi, da allora io aspettavo di diventare grande per vendicare quei morti, la mia gente, rendere giustizia. Era il sentimento immediato.

Non voglio raccontare la mia storia di una famiglia di contadini senza terra emigrati in Germania. Voglio dire piuttosto che non è solo per la propria condizione sociale che si insorge contro le ingiustizie.

E' caratteristica dell'uomo civile soffrire per le ingiustizie subite da qualsiasi altro uomo. Perché siamo tutti figli di Dio o perché abbiamo tutti la stessa biologia poco importa. Il punto è che l'uomo civile insorge contro ogni ingiustizia dovunque e su chiunque essa si abbatte.

Il punto cruciale è capire come e dove, perché, quella sensibilità si trasforma in teoria e pratica di guerra, di violenza di classe o di popolo o di religione che sia.

Noi, ex-terroristi, dobbiamo parlare, dire cosa è accaduto a noi, affinché tutta la società possa capire, affinché la società possa riflettere su sé stessa, affinché si giunga a regole di convivenza civile per sanare però veramente le ingiustizie.

E questo parlare, per noi, è fare politica, è rientrare e lottare per la democrazia, cioè per un sistema di regole, per un sistema di valori, di etica, che impediscano, culturalmente soprattutto, sottolineo culturalmente prima di tutto, che impediscano alle coscienze più sensibili di cadere in quel "punto oscuro" da cui ci si trova nel tunnel della violenza.

Per questo è necessario dare parola pubblica a chi ha abbandonato il lottarmatismo. A chi si è dissociato. E, sapete, non è facile uscire da quel tunnel: mentalmente e materialmente. Si rischiava la vita qualche anno fa, la si rischia di nuovo oggi. Ne siamo coscienti. Ma la nostra dissociazione, già nelle carceri, ha impedito la pratica omicidaria.

Ecco, c'è quasi sicuramente un unico elemento di continuità in noi: LA DETERMINAZIONE.

Eravamo determinati allora, quando mettevamo in gioco le nostre libertà e le nostre vite e quelle degli altri per un ideale già morto, siamo determinati oggi nell'accettare il rischio di diventare oggetto di odio da parte di questi nuovi terroristi ed anche, badate bene, oggetto di odio da parte di coloro che hanno perduto i loro cari e non riescono ad uscire da quel doloroso ed impotente sentimento di vendetta.

Siamo determinati; però questa volta per un ideale vivo: la democrazia: il sistema di regole pratiche e di valori etici della tolleranza, la convivenza, la difficile educazione alla mediazione, il metodo nonviolento per sanare ingiustizie.

E per questo siamo grati ai radicali che hanno capito ci hanno accettato come compagni di percorso per la pace, ovunque. Fosse anche solo per un giorno di pace almeno.

Io avevo appena 22 anni quando fui arrestato. Ho fatto otto anni di carcere e molte volte avrei preferito essere morto in un conflitto a fuoco piuttosto che riflettere su quello che avevamo scatenato.

Ho pianto quando due miei giovani compagni sono stati fatti a pezzi, per strada, a causa di una bomba che loro stessi trasportavano. Dovevano fare un attentato dimostrativo contro un edificio della redazione del quotidiano "La Stampa" a Torino. Dieci anni fa. Uno di loro era un ragazzo cileno profugo in Italia. Il giornale aveva pubblicato un articolo contro gli operai di un porto italiano che avevano bloccato una nave cilena che trasportava macchinari per il regime dittatoriale di Pinochet.

Ma ho pianto anche per quei due giovani poliziotti uccisi due settimane fa.

Noi tutti, insieme, dobbiamo fare qualcosa per impedire che giovani vite vengano stroncate, da una parte e dall'altra.

E al contempo fare qualcosa per ridurre le ingiustizie di ogni genere, economiche o meno che siano. Tutti, ognuno nella sua quotidianità. Per questo abbiamo accettato e chiesto di stare nel partito della non violenza militante, questo nuovo Partito radicale.

Indagare quel "punto oscuro", quel "rito di passaggio" dalla sensibilità alle belligeranza.

Non è qui, oggi, la sede né il momento. Perché non è il problema di un partito ma è il problema di tutta la società in tutti i suoi aspetti quotidiani, istituzionali e dalla gente comune.

Qui è essenziale porre il problema, agli uomini e alle donne di buona volontà" laici e cattolici. Porsi le domande con precisione, è senza retorica interessata, è già un buon punto di partenza.

C'è un'altra domanda che viene detta senza dirla e si dice tacendola.

Perché ad un certo punto vi siete dissociati? Si tratta di interesse personale o cos'altro?

Potrei rispondere su vari piani, squisitamente politici o in politichese o con le parole del cittadino della strada, ma tutti veri.

Uno, tutto politico, di razionalità, logica politica: alla fine degli anni settanta, finiti quei movimenti di massa che in qualche modo lievitarono, a volta con continuità, a volta con rotture, la violenza politica delle bande armate; venute meno quelle condizioni è giunto il tempo di ritornare alla politica: "la politica come continuazione della guerra con altri mezzi".

In noi c'è stato anche questo ragionare. Non lo nascondiamo.

Ma prima e insieme vi è stata anche una riflessione di tutt'altra natura e con quella intimamente intrecciata. Noi, di fatto, abbiamo consumato vecchie culture che implicavano politicamente la violenza prima o dopo. La cultura del "fine giustifica i mezzi", la cultura del concetto di "Rivoluzione".

Io non sono mai entrato in clandestinità, stare in mezzo alla gente non chiudersi nei "covi" faceva parte della "teoria rivoluzionaria" della mia "organizzazione" anarchici e libertari. Stavo in mezzo alla gente, in mezzo agli operai emigranti in Germania, i braccianti meridionali, gli studenti figli di operai e contadini. I giudizi della gente nei confronti dei lottarmatisti erano: "giusti gli ideali, sbagliati i mezzi". Un giudizio comune.

Ma noi in questi anni siamo andati oltre indagando alla radice.

Anche gli ideali erano sbagliati! Il concetto stesso di rivoluzione è vecchio, anacronistico; esso nacque assieme e di contrappunto alla "rivoluzione industriale". Ma noi viviamo in una società in cui il problema non è la rivoluzione industriale, che è già avvenuta a compimento sotto il fascismo e con la ricostruzione post-bellica.

Dall'epoca del centro-sinistra, del boom economico, le lotte operaie si muovevano in una società di sviluppo, di crescita.

L'errore era affrontare la novità delle lotte operaie nello sviluppo come se fossero lotte pre-industriali, e cioè virtualmente rivoluzionarie. Avevamo coscienza di questo, ma possedevamo e usavamo strumenti concettuali vecchi: il paradigma della rivoluzione. E il metodo, la violenza politica, è intima conseguenza, necessaria, dell'idea di rivoluzione.

E' il concetto di rivoluzione che noi abbiamo portato alle estreme conseguenze, esaurendone la sua "spinta propulsiva". E' inconciliabile credere alla rivoluzione con metodi democratici. E' ovvio dire che rivoluzione e democrazia sono antitetici.

Non esiste Rivoluzione senza violenza politica.

Abbandonare l'idea di Rivoluzione, ragionare sulla Rivoluzione in società avanzate come la nostra: è stato questo il primo processo di autoriflessione collettiva, per noi. Noi stessi, per quanto ne usavamo il linguaggio, le categorie d'analisi, le proposizioni progettuali, non credevamo alla Rivoluzione, alle masse che assaltano la Bastiglia o alla presa del Palazzo d'inverno o alle "lunghe marce". La teoria stessa della guerriglia urbana in realtà era un tentativo di uscire dallo schema rivoluzionario !!

Usavamo parole vecchie per plasmare il nuovo, per dirla in una parola. Ma non lo sapevamo. Rimase solo la violenza pura. Tutte le "bande armate" operavano solo per autoriprodurre sé stesse.

Solo dopo aver compreso questo ci è stato possibile pervenire a riflettere sulla VIOLENZA, SUL VALORE DELLA VITA, nostra e degli altri.

E' proprio così, detto finalmente senza ipocrisia alcuna. Si, abbiamo fatto questo freddo ragionamento.

Da quel momento in poi la nostra responsabilità era uscire dal tunnel, liberare noi e gli altri da quella rete imbrigliante di idee. L'assistere alla trasformazione della sovversione in terrorismo, essere stati responsabili di questa degenerazione ci ha fatto riflettere sul valore della vita.

Tornare all'umanesimo contro le logiche tecnicistiche dell'efficienza.

E' anche vero che è stato il carcere a farci riflettere, ma non nel senso banale della durezza della prigionia -che anzi al contrario ci induriva di più- ma piuttosto il renderci conto che stavamo diventando i simboli e martiri che giustificavano in qualche modo chi dalla libertà sparava per solidarietà verso di noi o perché vincolato dai trascorsi comuni. Sparava terrorizzando.

A questo essere simbolici siamo sottratti.

Infine proprio l'atteggiamento del partito radicale, il suo cercare di costruire ponti di mediazione ci ha spiazzati; qualcuno che non ci rispondeva per le rime ma ci chiamava sì assassini, però "compagni".

Tutte queste cose insieme ci hanno portati ad essere altro dal continuismo irriducibile e dall'altra sua faccia che è il pentitismo.

Uscirne per una sorta di "terza via": la dissociazione, che politicamente dall'interno poteva ed ha eroso le bande armate, e il suo non di meno dannoso emergenzialismo.

Si dice che la recente legge sulla dissociazione è premiale, che mette in libertà i terroristi. E' falso. Volete un solo dato?

A parità di reato, un terrorista ha avuto condanne in media 4 volte superiori a quelle dei detenuti comuni. Per una pistola si eroga in media una condanna di 6 mesi, per un terrorista invece 6 anni; per una rapina da 3 a 6 anni, a un terrorista da 11 a 20 anni; per un omicidio da 10 a 25 anni, a un terrorista l'ergastolo... E sapete, noi eravamo orgogliosi di questa disparità: era la dimostrazione che stavamo in guerra.

La legge sulla dissociazione non ci mette in libertà, semplicemente ridimensiona le nostre condanne, che restano comunque in media doppie rispetto a quelle della detenzione comune, a parità di reato.

Una regola del buon giornalista è quella di distinguere le notizie importanti da quelle interessanti e quasi mai quelle importanti sono interessanti. Il giornalista pubblica solo le notizie interessanti. Un bravo giornalista rende le notizie importanti in notizie interessanti.

Pochi mesi fa, in occasione della riduzione dei termini sulla carcerazione preventiva, un giornale dava la notizia, con

nome e cognome, che un terrorista era uscito in libertà e che addirittura aveva partecipato all'attentato contro il il dottor Da Empoli. Ebbene, quel terrorista era in carcere dal 1978 e sta in carcere tutt'ora. Il terrorista ha denunciato il giornalista ed il direttore di quel giornale, che forse oggi sta anche in questo congresso. Entrambi, giornalista e direttore sono stati amnistiati dalla recente amnistia, amnistia che ha escluso i terroristi.

L'emergenzialismo accanto al sensazionalismo di alcuni giornalisti è proprio ciò che contribuisce a fare il gioco di questi nuovi terroristi.

E' stato scritto su vari giornali che la legge sulla dissociazione ha messo in libertà terroristi che sarebbero rientrati nelle bande armate, ma ancora quella legge non è entrata in vigore!!

La verità è che molti dissociati che ora stanno in libertà per aver scontato la loro pena, oggi stanno chiusi nelle case o camminano con le spalle rasenti i muri.

Fintanto che ci sono giornalisti che rincorrono lo scoop

piuttosto che informare, sarà molto difficile percorrere la battaglia per sconfiggere questo nuovo terrorismo.

Allora quando lo Stato di diritto vince sullo Stato emergenzialista è possibile sconfiggere il terrorismo. Questa la lezione della storia.

Per questo noi parliamo a un congresso del partito radicale, il partito dello Stato di diritto, il partito che ha battagliato negli anni più bui.

Dobbiamo ripristinare le libertà delle coscienze critiche se vogliamo con-vincere, vincere insieme, contro gli effimeri ma sempre luttuosi atti di terrorismo.

Noi, da qui e dalle carceri, parliamo, in trasparenza, pubblicamente, senza nulla commerciare, nè idee nè libertà, nè vite. Vorremmo pagare con eque condanne al carcere i nostri errori, ma vogliamo fare di più e di positivo questa volta.

Fare politica, essere nella società per cooperare e risolvere i suoi problemi, i problemi di tutti.

Per questo ringrazio, anche a nome degli altri detenuti politici iscritti al partito, ringrazio questo congresso, tutti voi, vecchi e nuovi radicali. Anche per questo il Paese, la democrazia, sono grati al partito radicale.

Rocco Martino Norma Andriani

 
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