Angiolo BandinelliSOMMARIO: Nel 1987, a cura di alcuni radicali di lingua francese ed opranti in Francia, in Belgio o presso il gruppo parlamentare radicale a Strasburgo, si pensò di ristampare la prima edizione dell'opera di Carlo Rosselli, ``Socialismo Liberale'', quella cioè che Rosselli pubblicò in francese a Parigi, subito dopo la fuga dal confino di Lipari. L'iniziativa era il segno dell'interesse di questi militanti per uno scritto politico praticamente sconosciuto fuori d'Italia e al quale invece veniva assai spesso fatto riferimento nei dibattiti del Partito Radicale.
Nella sua prefazione, Angiolo Bandinelli ha tenuto dunque d'occhio in primo luogo le esigenze di lettori non italiani. Dopo aver raccontato le vicende avventurose della stesura del testo, della fuga da Lipari e della pubblicazione a Parigi, la prefazione analizza le linee portanti sia della riforma del socialismo marxista tentata da Carlo Rosselli che della costruzione del raggruppamento militante di ``Giustizia e Libertà'' quale tentativo di superamento dei partiti antifascisti dell'esilio. Infine, Bandinelli ricorda l'impostazione internazionale della lotta antifascista di Rosselli e ne mette in luce il carattere precursore rispetto al tentativo di Pannella e dei suoi di fondare un nuovo partito ``transnazionale'' adeguato alle esigenze di libertà del nostro tempo.
(Carlo Rosselli, "Socialisme libéral", EDITIONS DU JEU DE PAUME, Bruxelles, giugno 1987)
PREFAZIONE A ``SOCIALISME LIBERAL''
Questo libro è, in Italia, un mito. Assieme ai fascicoli della rivista ``Rivoluzione Liberale'', di Pietro Gobetti, esso porta nella tradizione dell'antifascismo e nella lotta politica italiana l'aspra dolcezza dell'intransigenza giovanile, il gusto spericolato della rivolta morale, il pathos della predestinazione soprattutto: fiori di tenue vita, ma che appunto per questo pretendono l'eternità del ricordo. E infatti questi testi vengono citati e branditi ogni qualvolta appaia necessario, nella disputa, il richiamo ai sentimenti alti, o un ritorno alle ragioni prime dell'intendere e dell'agire civile.
Ma essi sono anche grandi testi politici, almeno se si vuole interpretare la storia italiana di questo secolo con le sue peculiari e contorte vicende, come il lento cammino del Paese, da poco unificato, per raggiungere le altre nazioni europee sul piano dei valori della modernità e della democrazia.
Sintetizziamo dunque, come possiamo, il significato di ``Socialismo Liberale'' restando inteso che, nella loro diversità, molto di quello che diremo può valere anche per le opere di Gobetti.
``Socialismo Liberale'' venne scritto da Carlo Rosselli nell'isola di Lipari, dove il giovane antifascista era stato confinato nel 1927, a seguito del processo subìto per aver organizzato e realizzato l'espatrio in Francia del vecchio leader del socialismo italiano, Filippo Turati. Pur subito preso dai progetti di fuga dall'isola (progetto che realizzerà nel 1930), Rosselli utilizzò il molto tempo disponibile per condensare in uno scritto le riflessioni, gli spunti, i disegni maturati in anni di impegno civile e politico.
Lo scritto prese rapidamente corpo, nonostante le difficoltà costituite dalla mancanza di libri e di documentazione e dal rischio che le carte venissero scoperte e sequestrate nel corso di una delle perquisizioni cui i confinati erano assoggettati. Normalmente, il fascicolo era conservato nell'interno di un vecchio pianoforte sul quale Carlo amava, la sera, suonare qualcosa; quando i timori si facevano più forti, esso veniva infilato nel pollaio adiacente casa. L'opera venne comunque completata, e Carlo poté portarsela dietro nella fuga e farla subito pubblicare in Francia, nel 1930. La prima edizione, in francese, venne stampata a cura della Librairie Valois, 7 Place du Panthèon, Paris Ve, in una collezione che comprendeva già altri testi di antifascisti italiani transfughi in Francia (``Suite politique italienne'': opere di Francesco S. Nitti, Vincenzo Nitti, Bruno Buozzi, Silvio Trentin, Alberto Cianca, Francesco Luigi Ferrari, lo stesso Salvemini, per il periodo fino al 1931). E' questa edizione, oggi pr
essoché introvabile, che viene qui presentata in stampa anastatica.
``Più che un'opera di erudizione - scriveva Carlo nella prefazione - questa vuol essere la franca confessione di una crisi intellettuale che so assai diffusa nella giovane generazione''. Era la generazione che aveva visto giovanissima la grande guerra, ne aveva sofferto gli orrori ma soprattutto aveva visto perdere nelle trincee le speranze, a lungo cullate, che la conflagrazione potesse portare a soluzione alcuni, se non tutti i grandi problemi, innanzitutto etici, che sembravano altrimenti infradicire nella dissoluzione del vecchio mondo. In altri Paesi, e con una connotazione prettamente letteraria, questa fu ``la generazione perduta''. I giovani ceti intellettuali italiani mancavano della spigliatezza, e soprattutto della verve letteraria, dei loro coetanei d'oltralpe e d'oltreoceano.
Ma forse non è esagerato affermare che proprio in opere come queste, dall'impronta inequivocabilmente politica, la cultura italiana raggiungeva quella europea in un clima e su un terreno nel quale sentiamo seminati fermenti comuni.
Il giovane Carlo Rosselli aveva militato nelle file socialiste. Il socialismo aveva a lungo rappresentato, per molta gioventù italiana, la via maestra per la realizzazione di ideali di giustizia. Ma l'avvento del fascismo, giunto nel 1922 al potere con l'appoggio di larghi strati conservatori e senza che i socialisti, spaccati e divisi, riuscissero a indicare una soluzione parlamentare alternativa, mise in piena evidenza la profonda crisi nella quale era precipitato quel partito, con le sue frazioni irriducibili a un'intesa comune: accozzaglie ormai di correnti e tendenze (ivi compreso il neonato partito comunista), in cui il fiume socialista si era frantumato.
La crisi, che era innanzitutto di ideali e di valori, aveva cominciato a manifestarsi all'inizio del secolo. In quegli anni già tanto lontani il marxismo ortodosso, quello del ``Manifesto'' e del ``Capitale'', sembrò essere definitivamente confutato nelle sue premesse teoriche da pensatori europei di indubbio valore tra i quali giova ricordare almeno, qui, l'italiano Benedetto Croce, che sulle ceneri del verbo marxismo e di quello positivista innalzava la sua nuova filosofia idealista e storicista. Ma le tesi dei cosiddetti ``riformisti'' (pensiamo innanzitutto a Bernstein) i quali pure cercarono di togliere al marxismo di Marx il peso di un determinismo sempre meno accettabile e teoricamente sostenibile, non apparivano sufficientemente aperte e coraggiose, e mantenevano legami troppo stretti con l'eredità ricevuta, senza riuscire a veleggiare per conto proprio verso lidi nuovi. Più passioni suscitava e più adesioni intellettuali raccoglieva forse l'altra corrente di superatori, il cosiddetto ``sindacalismo
rivoluzionario'', fortemente impregnato di volontarismo e di un attivismo tanto impetuoso quanto troppo spesso vacuo, al di là di una ``energica rivendicazione della libertà umana nella storia'' (cfr. Aldo Garosci, ``Vita di Carlo Rosselli'', ed. U, 1946). L'affievolimento del messaggio socialista si aggravò ancora nel dopoguerra: i socialisti avevano assunto in larga parte rispetto al conflitto, un atteggiamento di rigida neutralità consegnata nel motto: ``Né collaborare né sabotare'', e questo rifiuto di una scelta chiara veniva rimproverato, nella drammatica crisi postbellica, dai reduci rivendicanti, a torto o a ragione, le promesse fatte loro durante i lunghi anni di trincea, e soprattutto il riconoscimento del loro diritto ad una sorta di primato morale sulla nazione.
L'evento di Mussolini al potere fece definitivamente sfaldare le speranze di un possibile rinnovamento. Del resto nel 1921 era nato a Livorno, da una scissione del vecchio tronco, il partito comunista italiano. Il baratro continuò ad allargarsi, insomma, e il giovane Rosselli, che si era venuto impegnando nella lotta politica soprattutto dopo l'assassinio del deputato Giacomo Matteotti picchiato a morte da killer fascisti dopo un suo memorabile intervento parlamentare aspramente critico verso Mussolini, si sentiva sempre più insoddisfatto e inquieto. Si avvicinò allora a Piero Gobetti, il giovanissimo intellettuale sulla cui rivistina, ``Rivoluzione Liberale'', scrivevano i più eminenti uomini del tempo, spronati dall'infaticabile editore, teso nel suo sogno di rigenerazione del liberalismo da ottenersi grazie all'innesto della tradizione e dei valori liberali sul tronco giovane e forte dell'operaismo sorgente, e anzi già vigoroso, nella Torino industrializzata per opera della Fiat e di altri imprenditori. M
a l'iniziativa di Gobetti si chiuse presto, e tragicamente. Il giovane, che aveva posto la ``questione morale'' dell'intransigente rifiuto al fascismo rivelatosi assassino, venne selvaggiamente bastonato e dovette rifugiarsi in Francia, per morirvi di lì a poco, nel 1926.
Nel giro di pochissimi anni dopo il 1925 (quando, con leggi eccezionali, mise al bando tutti i partiti), Mussolini si trovò ad essere il padrone assoluto di un paese nel quale non esisteva più opposizione organizzata, mentre i maggiori esponenti dei partiti dissolti e liquidati venivamo o costretti a un definitivo silenzio o, come Gramsci, Terracini, Turati, Nenni ed altri, chiusi in carcere o costretti ad espatriare.
La Francia si riempì presto di esuli che si aggiungevano, si mescolavano e si confondevano con i tradizionali emigranti per lavoro.
Al suo arrivo in Francia dopo l'avventurosa fuga in motoscafo dall'isoletta di Lipari, Carlo Rosselli era ormai pronto per avviare il rinnovamento degli ideali e della prassi socialista e antifascista. Già prima di essere acciuffato e confinato, aveva promosso in Italia, assieme ad altri giovani coraggiosi, un movimento clandestino di resistenza e di lotta contro il fascismo che aveva come motto ``Non Mollare'': appello al coraggio e alla costanza, alla pazienza e alla fiducia prima che alle idee. Da Parigi, ora, l'iniziativa poteva ampliarsi, gettare basi anche teoriche, irradiarsi con forza tra gli emigrati, imporsi sulle schegge dei partiti che invano cercavano, nella ospitale nuova terra, di tener strette le fila, di (ri)organizzarsi, di fare progetti e di proporsi obiettivi, ma riuscivano solo a dare dimostrazione di impotenza ideale e pratica.
Carlo Rosselli, cui presto si aggiungerà, fino alla tragica morte comune, il fratello Nello, storico di rilievo, costituisce ora un raggruppamento il cui nome è già un programma, ``Giustizia e Libertà'', e in esso raccoglie gli spiriti più validi, impegnandosi in azioni antifasciste militanti ed in una seria revisione del bagaglio culturale, teorico, organizzativo socialista.
Con ``Giustizia e Libertà'', nasce insomma, per noi italiani, il primo embrione di partito moderno, laico e riformatore, non ideologico, attento ai valori sociali ma assolutamente intransigente sul metodo che dovrà essere "liberale", legato al potenziamento delle istituzioni, non alla loro occupazione ``rivoluzionaria''. Da ``Giustizia e Libertà'', con la confluenza di altri filoni di simile ispirazione, prenderà vita sul finire della seconda guerra mondiale quel Partito d'Azione nel quale si ritroveranno, sia pure per una brevissima stagione, i migliori ingegni del Paese.
In ``Socialismo Liberale'', Rosselli compie un passaggio logico e teorico che nessuno prima aveva osato - magari solo per conformismo e per mancanza di rigore - affrontare; il passaggio logico e teorico dal socialismo al liberalismo, insomma. Il marxismo, egli afferma, è una teoria essenzialmente legata al determinismo economicistico, la cui forza è affidata a una pretesa di scientificità che non trova fondamento nella realtà. Questa teoria ha una grande forza di attrazione per masse ancora legate ad una servitù senza scampo; ma perde di valore e di attrattiva non appena siano cadute le situazioni più disumanizzanti. Nelle presenti condizioni della società e della classe operaia, le premesse teoriche del marxismo e le sue ipotesi catastrofiste sono state tacitamente abbandonate anche grazie all'opera di scrittori e teorici ``revisionisti''; costoro, tuttavia, sono stati troppo prudenti e non hanno osato scostarsi definitivamente dalle premesse di Marx, impaludandosi in un'operazione poco chiara, e inadeguata
ad eccitare interessi e passioni. Occorre coraggiosamente liquidare invece tutto il ciarpame veteromarxista e dire, coraggiosamente e lealmente che le spinte di giustizia sociale si devono affermare attraverso il metodo della libertà.
Il liberalismo, ridottosi finora ad appannaggio e bandiera delle classi possidenti, chiuse in difesa accanita dei loro privilegi, deve tornare ad essere il vessillo delle grandi riforme e delle grandi libertà: ``La parola liberalismo - scrive dunque Carlo - ha servito a contrabbandare delle merci di specie e natura così diverse, è stata a tal punto, nel passato, monopolio della borghesia, che un socialista che la impieghi oggi è malvisto...'' Ebbene, questa condizione dovrà essere ribaltata; perché ``il socialismo è liberalismo in azione''.
Potremmo subito dire: tutto qui. Ci si obietterebbe, stupiti: tutto qui? Sì e no: perché se l'impianto teorico del volumetto è così, in apparenza, semplice, alcune premesse sono più complicate, e alcune conseguenze appaiono nuove e assai complesse. Le premesse che dobbiamo tener presenti stanno nel fatto che nell'Italia di quegli anni le classi operaie come la piccola borghesia, i ceti legati al socialismo come quelli pronti a balzare sul carro del fascismo (e, con loro, l'intero mondo, parte contadino ma parte anche operaio e piccolo-borghese, influenzato dalla Chiesa) tutti - ma proprio tutti - erano uniti in un viscerale odio antiborghese e antiliberale. Così forte era questa avversione che mai più, neanche in questo dopoguerra (dopo, cioè, mezzo secolo), il nome ``liberale'' ha avuto presa nel Paese, restando attributo non invidiato di piccole conventicole e di qualche conservatore ``illuminato''. Le conseguenze discendono anch'esse, ovviamente, da tali premesse, e sono di una gravità poco credibile fuor
i d'Italia, anche se rigorosamente verificabili: Carlo Rosselli - e con loro tanti e tanti altri liberali, radicali, libertari, ecc. - sono ancor oggi strenuamente banditi dal dibattito culturale e civile del Paese. Una grande e nobile casa editrice, famosissima per i suoi spiriti democratici, progressisti, di ``sinistra'', si è a lungo rifiutata di pubblicare ``Socialismo Liberale'', e lo stesso ostracismo - da ``sinistra''! - ha colpito più o meno tutti i suoi prossimi. Una cultura rifattasi marxista in forme più o meno grossolane, con il contemperamento gramsciano utilizzato però anche in forme strumentali e al di là dei suoi effettivi meriti, ha monopolizzato il sistema dei mass-media, mentre i riformisti e i neoliberali di stampo radicale (non, cioè, conservatori) sono stati relegati tra le rigatterie della subcultura, fatti passare per incalliti ritardatari della storia. Il (neo)marxismo italiano ha potuto così imbastire indisturbato per un quarantennio i suoi dialoghi ammiccanti, i suoi ``storici comp
romessi'' con ogni sorta di clericalismo, da quello direttamente vaticano a quello smaccatamente politico (fino al De Mita di oggi), e l'opera di Berlinguer, culminata nel nefasto ``compromesso storico'', sulla sica del ``tradimento'' togliattiano sul Concordato (recepito nella Costituzione repubblicana grazie al voto determinante del partito comunista) essere spacciata come capolavoro di realismo e di progettualità.
Manco a dirlo, uno stesso violento odio antiliberale è ben radicato in tutti gli ambienti cattolici, tranne per esigue minoranze. Il liberalismo è da una parte identificato esclusivamente con la storia degli interessi conservatori che hanno a lungo frenato l'emancipazione popolare; dall'altra parte esso - nella sue componenti rivoluzionarie, laiche, radicali, ricche dell'audacia che può venire dal ricordo dei grandi, storici trionfi ottenuti sulle tenebre del passatismo, come ci ricorda una espressione tanto retorica quanto vivace - è odiato come il simbolo stesso di una modernità sempre rifiutata, se non nelle sue forme strumentali. L'attuale segretario della D.C., on. De Mita, non fa mistero della sua avversione e del suo sarcasmo nei confronti di tutta la cultura laica, o di democrazia critica, e degli sforzi che si vengono compiendo per ricollocarla al centro della tradizione civile e politica del Paese; egli crede così di compiere la vendetta dei suoi avi contadini e ``cafoni'' sui signori renditieri ag
rari e latifondisti parassitari ed esosi; in verità, egli è ancora il custode della cultura più autenticamente reazionaria, quella del populismo clericale.
Finché l'immagine passatista e reazionaria del liberalismo tiene, tutto va bene: ma guai, appunto, se qualcuno cerca di scrollare dalla vecchia ideologia la muffa del tempo, e reinventare la cultura e i valori dei Tocqueville e dei Constant, dei Bentham o dei Croce, e dei loro fratelli spirituali. Così, insomma, l'Italia è forse l'unico dei grandi paesi europei nel quale la tradizione liberale viene respinta e rifiutata, negata e repressa, in primo luogo nelle sue strutture istituzionali.
Ciò spiega perché, per altri, per coloro che credono nei grandi principi dell'89 o nell'eredità di Lord Beveridge, nell'insegnamento di Martin Luther King o nel retaggio libertario, il nome di Carlo e di Nello Rosselli è ancora mito e bandiera. E non solo come espressione di una esperienza cui si debba reverenza e basta. Rosselli (in questo più ancora che Gobetti) è infatti moderno; moderno proprio nella semplicità e chiarezza del suo messaggio. Quando i radicali di oggi hanno innalzato la bandiera dei diritti civili in nome dei quali sono riusciti ad erodere larghi margini dell'infausto accordo tra clericali e neomarxisti - introducendo in Italia il divorzio o l'aborto o l'obiezione di coscienza, i referendum contro il Concordato, leggi liberticide, il finanziamento pubblico dei partiti, e così via - si sono rifatti alla sostanza dell'insegnamento di questo maestro; sia nel richiamare puntigliosamente i valori di libertà come i più necessariamente costitutivi di qualsiasi rivendicazione sociale, sia anche -
e forse soprattutto - nel metodo. Come Carlo e Nello Rosselli con il loro associazionismo del ``Non Mollare'' e di ``Giustizia e Libertà'', i radicali di oggi hanno compreso che per stare insieme e costituirsi in partito - in parte politica - non è necessario, "non deve essere necessario" rifarsi, come in una Chiesa, ad un messaggio di salvezza nel quale giurare, in comunità o in comunione, pena l'espulsione decretata da burocrati, probiviri o preti: ma è necessaria invece e solamente l'accettazione di alcuni articoli di uno Statuto associativo inteso come contratto di collaborazione, e la promozione di iniziative scelte e deliberate assieme e per un tempo determinato.
Per i radicali italiani di oggi - non a caso - la questione della ``forma-partito'' nasce nello stesso momento in cui ci si pone gli obiettivi programmatici di rinnovamento, e solo in funzione di essi: non è astratta struttura tesa alla propria conservazione, al di là di obiettivi e fini. Ed ecco che in questi ultimi tempi essi hanno collocato al centro del loro impegno la riforma del sistema elettorale, quel passaggio obbligato per rinnovare, anzi ``rifondare'' i partiti, il sistema dei partiti. Perché l'assurdo che fa parlare troppo spesso di ``caso italiano'' - non comprensibile e non spiegabile con le logiche culturali e politiche correnti nei grandi paesi di democrazia occidentale - è che i partiti oggi presenti nell'agone politico, rappresentati ?? Montecitorio e nel barocco Palazzo Madama, al centro di Roma, sono sostanzialmente quelli nati agli inizi del secolo, prima della prima guerra mondiale, o subito dopo. Il partito dominante, la democrazia cristiana, ancora si rifà (magari solo proforma) all'i
nsegnamento sociale di Leone XIII, alla intransigente difesa della unità dei cattolici sotto una stessa bandiera politica, all'avversione per le idee provenienti dalla cultura europea e internazionale, in primo luogo quella laico-socialdemocratica. Le sinistre rimasticano le polemiche della scissione di Livorno del '21, incapaci di superare se stesse e la propria vecchiaia, senza aver avuto né Bad Godesberg né le rifondazioni mitterrandiane o d'altro genere. Legati in patto scellerato ad un arcaico proporzionalismo che garantisca la permanenza di ogni mummificata minoranza purché di potere (i cosiddetti partiti ``laici'') e di ogni sclerotico interesse locale, i partiti italiani amministrano i loro interessi di bottega occupando ogni più piccolo spazio delle istituzioni e della società civile, senza produrre né politiche né buona amministrazione, in uno spreco di energie e di risorse altrove inconcepibile.
Il ritorno alle fonti ideali della modernità liberale è, in Italia, uno dei presupposti di una grande, nuova iniziativa di costruzione democratica. I ribelli sconfitti nel passato riprendono ad ammaestrare, a fornire indicazioni di marcia. Tra loro, assieme a Ernesto Rossi e ad Altiero Spinelli, a Benedetto Croce e Umberto Calosso e a Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone c'è, in posizione preminente, Carlo Rosselli, legato al fratello Nello dalla tragica comune morte che li coglieva in terra di Francia, a Bagnoles-de-l'Orne, il 7 giugno 1937, per mano della Caguole prezzolata da Mussolini. Vi è, nell'insegnamento dei due fratelli, una ulteriore specificità che li rende preziosi non solo a noi italiani. La condizione di esuli espatriati dava loro infatti una visione non angusta, non nazionalistica, ma ampiamente europea e mondiale dei problemi di libertà. Carlo e Nello furono tra i primissimi, in Europa, a capire, a metà degli anni '30, che la vittoria del franchismo in Spagna avrebbe irreparabilmente rafforza
to tutti i fascismi europei, oltreché quello italiano. Perciò essi si impegnarono a fondo nella lotta contro la falange franchista: ``Oggi in Spagna, domani in Italia'', divenne il motto del loro instancabile impegno combattente. Questa lucida intuizione ci insegna, ancora oggi, una cosa importantissima.
Le battaglie di libertà, dicono i fratelli Rosselli, non hanno né possono avere confini nazionali. L'interesse congiunto di tutti i conservatorismi è, all'opposto, quello di separare e dividere il dialogo, la comunanza di impegno tra i novatori e i portatori di idee di libertà. Essi hanno perciò inventato o fatto propria la teoria della ``noningerenza'' e della ``sovranità'' assoluta sulle cultura e le tradizioni nazionali o ``nazionalpopolari''. Ma, come nel grande Secolo dei Lumi, occorre oggi invece promuovere un confronto di libertà che abbatta le barriere nazionali e rivendichi il diritto-dovere alla piena ingerenza delle idee - armate non di fucili ma di verità e di dialogo - ovunque sia necessario. Affermare quindi, ad esempio, che occorre oggi combattere con forza i nazionalismi d'ogni genere per lavorare nella dimensione europea, o farsi pienamente carico, dall'interno di una Europa dei surplus agricoli, della fame che devasta le piaghe sottosviluppate del terzo mondo, o infine non tener alcun conto
della cosiddetta ``distensione'' per rivendicare il diritto di esportare nei Paesi dell'Est germi attivi di libertà e di operosa, rigorosa nonviolenza, è esigenza urgente ed eccitante, assolutamente imprescindibile per salvarci e salvare l'Europa e il mondo. Sulle rovine dell'internazionalismo socialista occorre urgentemente fondare il nuovo transnazionalismo europeo e mondiale, come rinato ``partito dei lumi'' e della libertà. Magari, se necessario, ripercorrendo l'insegnamento dei Rosselli e la loro militanza itinerante, su tutte le frontiere e su tutti i fronti dove sia da combattere la buona battaglia di libertà del nostro tempo.
Angiolo Bandinelli