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Bandinelli Angiolo - 1 luglio 1987
La democrazia 'fonda' la filosofia
di Angiolo Bandinelli

SOMMARIO. Sotto l'incalzare del moderno, della "modernità" o, come si dice anche, della "secolarizzazione", i filosofi cercano una ridefinizione dello "status" della loro disciplina, ed il loro dibattito informa i saggi che compongono il volume èdito da Laterza e curato da Gianni Vattimo ("Filosofia 86"). Queste ricerche sono però ugualmente valide per riprendere in mano la questione dello "status disciplinare" della politica; i due temi infatti si intrecciano profondamente. Viene preso in esame, in particolare, il saggio di Richard Rorty "La priorità della democrazia sulla filosofia", il quale a sua volta si rifà alle tesi di John Rawls, il teorico del neocontrattualismo contemporaneo.

L'illuminista Rawls ritesse alcuni passaggi della polemica jefferoniana a favore della "tolleranza". "Una buona costituzione politica deve tutelare in eguale misura tanto il credente quanto il più fatuo dei deisti o il più svergognato degli agnostici": al legislatore devono essere indifferenti le convinzioni religiose dei cittadini. Secondo Rawls, la "società giusta" può essere costruita senza bisogno di verificare se vi è accordo tra i cittadini "su che cosa è intrinsecamente desiderabile", su ciò che è bene e ciò che è male. Per fondare la democrazia, occorrerà finché possibile "non chiamare in causa asserzioni filosofiche" di alcun tipo ma solo definire le sue regole prescindendo da qualsiasi concezione dell'"io inteso quale costitutivo fondante della realtà". Dove sorga un contrasto tra le pretese della filosofia e il metodo "dialogico" della democrazia "è quest'ultima che ha ragione". In definitiva la filosofia, scienza dei lumi, dovrà tornare ad assumere, nella società, una funzione "edificante". Quest

e, le tesi di Vattimo. Ma l'a. sostiene, addirittura, che la filosofia stessa "non può essere pronunciata al di fuori dell'orizzonte della parola": "un pensiero che non sappia dialogare con la frivolezza mondana...dimostrerebbe insicurezza".

E tuttavia questo ripristino dei valori dell'"agorà" lascia alcuni problemi e temi irrisolti, come quello del rapporto tra etica e politica. Un'etica che si fondi solo sulla "mediazione del consenso empirico" "tra i cittadini illuminati della società democratica dispiegata" lascia fuori troppe cose e troppi problemi.

(IL POLIEDRO, periodico, Bari, luglio-dicembre 1987 - Ripubblicato in "IL RADICALE IMPUNITO - Diritti civili, Nonviolenza, Europa", Stampa Alternativa, 1990)

Che cosa è, o costituisce, la modernità? Come la si riconosce, come la si distingue nel fluire dei fatti e dei significati che quotidianamente urgono e ci investono, visto che il suo volto, stranamente, non splende limpido e chiaro? Che fare, poi, dinanzi alla disgregazione e rovina (ma è disgregazione? è rovina?) della complessa rete di istituzioni ereditate dal passato nel loro alone (o aura sacrale, alla Benjamin) e oggi ridotte a poco più che rottame contorto e inusabile, residuato da un fatale incidente di percorso? E, soprattutto, perché l'arrivo di questa modernità, la quale comunque viene ad assumere, contraddittoriamente, il senso di un vero e proprio compimento dei tempi denso di un valore avremmo detto numinoso, sembra non già riempire di letizia i cuori degli uomini ma anzi gettarli in preda allo sgomento, quasi essi avvertano di essere non dinanzi ad una promessa di pienezza, ma ad un vuoto intollerabile?

Modernità, modernizzazione, equivalenti di quel che si dice anche "secolarizzazione", oggi. In filosofia; o meglio, della filosofia- qualcosa che ha gettato gli addetti ai lavori, gli specialisti, in uno stato di agitazione e di conflittualità profonda. Del loro lungo e vario dibattito raccogliamo scintille e frammenti scorrendo una raccolta di saggi edita da Laterza (1), in un libro che parecchie polemiche ha acceso, come ci riassume lo stesso curatore Gianni Vattimo nella bella presentazione.

Sotto l'incalzare della secolarizzazione/modernizzazione, i filosofi cercano una "ridefinizione dello status" della loro disciplina, ridiscutendone i fondamenti; noi potremmo utilizzare tali ricerche per riprendere in mano la questione dello "status" disciplinare della politica: una questione che esplose una decina di anni fa e poi è sembrata sgonfiarsi e latitare; ma i due temi, le due ricerche, a nostro avviso confluiscono in un unico alveo.

A porre qui la questione dei rapporti tra filosofia e politica è Richard Rorty, con il suo saggio "La priorità della democrazia sulla filosofia", uno dei pilastri del libro laterziano. Rorty, docente a Princeton, riprende e conferma tesi di John Rawls, il teorico del neocontrattualismo la cui opera ha stimolato anche in Italia la ripresa di un certo liberalismo teorico, in serrato confronto col decisionismo di Carl Schmitt (2).

Dietro Rawls, Rorty ritesse su una trama d'attualità passaggi famosi della polemica jeffersoniana in favore della tolleranza e di quella che cominciava ad essere identificata come "l'opinione", l'opinione pubblica. Affermava Jefferson - il che ai suoi tempi non era affatto ovvio e scontato - che una buona costituzione politica deve tutelare in egual misura tanto il credente quanto il più fatuo dei deisti o il più svergognato degli agnostici: è del tutto indifferente al legislatore che un cittadino professi una fede religiosa oppur no; le sue convinzioni, per quanto sgradevoli e riprovevoli nella buona società, non rappresentano in alcun modo un pericolo per il bene pubblico e, a ben guardare, non possono nemmeno disturbare la quiete privata del vicino di casa.

Rorty, con Rawls, scava fino alle conseguenze estreme il ragionare jeffersoniano. Che vi sia oggi spazio per un nuovo illuminismo sono in molti a dubitarlo: Rorty, il quale si colloca invece tra coloro che leggono in positivo le carte della secolarizzazione, procede con sicurezza nel tentativo di provare che la società giusta (dunque, democratica) può essere definita e costruita senza alcun bisogno di verificare preliminarmente l'accordo tra i cittadini "su che cosa è intrinsecamente desiderabile", e su "quali modi di vivere siano buoni in se stessi" (3). "Poiché la giustizia come equità - aveva detto Rawls - è intesa come concezione politica della giustizia rivolta a una società democratica, essa cerca, per quanto è possibile, di non chiamare in causa asserzioni filosofiche e politiche di nessun tipo" (4). Così Rorty tende a definire la possibilità di organizzare la società democratica e i suoi obiettivi mettendo tra parentesi non solo le fedi e le ideologie, come Jefferson, ma anche - in ultima analisi -

una qualsiasi concezione dell'io inteso quale costitutivo fondante della realtà, o della coscienza. Per edificare la società giusta (democratica) non v'è bisogno di alcuna "considerazione filosofica dell'essere umano"; dovunque sorga contrasto e conflitto tra il filosofare (e le sue pretese forti sui valori ultimi, transmondani) e la democrazia col suo metodo dialogico e di consenso, è quest'ultima che ha ragione. Non solo sul piano pragmatico, metodologico; ma perché le pretese del filosofare sono irrilevanti, infondate, in quanto inesistenti. E' la democrazia - potremmo paradossalmente chiosare - che definisce l'essere, non la filosofia. Dunque, primato della politica e del suo prodotto finale, "secolarizzato" e secolarizzante, la democrazia.

Gli imprevisti esiti di questo procedimento logico trovano il nostro consenso, di appassionati della politica. La filosofia riprende insomma il suo posto nell'agorà, così come venne sperimentata dai sofisti e da Socrate e, molto più tardi, bazzicò i salons illuministi nei quali si plasmò per la gran parte la "opinione" evocata da Jefferson.

Ma noi non ci appelleremo, come fa Vattimo, alle funzioni "edificanti" cui la filosofia moderna può e deve fare riferimento come a sua mondana vocazione, o giustificazione: vorremmo provare ad andare più avanti. Noi pensiamo che la filosofia, la metafisica stessa, non possano essere pronunciate al di fuori dell'orizzonte della parola. La parola dei concreti parlanti nell'agorà. In questo richiamo il pensiero "debole" può avere un suo punto di forza, e ci si perdoni il bisticcio. In un'epoca di specializzazione dei saperi la dialogicità dell'agorà, il fare politico, affermano che la coscienza (non - certo - a priori) è punto di incontro e di incrocio di domande e di risposte nel loro concreto porsi e farsi; di domande e risposte che mutano e svariano nel chiacchierare e nella frivolezza, senza che possa essere avanzato da nessuno il primato di un avere che pretenda di arrestare e legare il flusso dialogante in ipostasi arroganti, avocanti per sé un irrelativo Essere.

Né la frivolezza può mettere in imbarazzo il grande pensiero (il sublime chiacchierio conviviale del "Simposio" platonico!); un pensiero che non sappia dialogare con la frivolezza mondana, del mondo, dimostrerebbe insicurezza, e l'insicurezza non è ben vista nei tribunali dove si giudica il filosofo.

E tuttavia, se non vi è agire umano che si ponga in rapporto di "secolarizzazione" con il passato se non nella forma messa in luce dall'ermeneutica moderna, il fare politica pone un problema che appare ancora oscuro, non investito dalla luce nemmeno in questa ricerca. Il fare politica, infatti, non tollera che vi sia etica possibile al di fuori del concreto agire nell'agorà. La diatriba sul "rapporto" tra politica ed etica è senza senso: l'unica etica possibile essendo quella che si afferma (cioè, letteralmente, afferma sé) attraverso l'agire storico/politico dell'uomo nella sua responsabilità quale gli è presentata dalla necessità del dover scegliere. Dello scegliere come dovere. Ma questa non è la pretesa, appunto dell'etica "forte"? Dunque, il politico guarderà con qualche perplessità a saggisti e filosofi per i quali l'etica è piuttosto il risultato di un processo di mediazione del consenso empirico. Per costoro, o alcuni di essi, l'etica viene ad essere messa a fuoco, e a definirsi, nel corso del proces

so discorsivo che si svolge tra i cittadini illuminati della società democratica dispiegata. Questa democrazia dispiegata, se in qualche parte del mondo si dà, esprime solo una frazione, nemmeno troppo grande, dell'umanità effettuale; il rivoluzionario sandinista e il fondamentalista khomeiniano, per quanto sgradevoli siano, sono attori anche essi di una storia che deve essere plasmata nel quotidiano verso fini e obiettivi. La complessità del mondo moderno richiede un agire politico "forte", anche in democrazia: quello che Machiavelli intendeva quando, fondando la scienza della politica (secolarizzata), affermava che il "fine giustifica i

mezzi": volendo con ciò dire che solo il fine, nella sua concreta oggettività storica, rende giusti i mezzi sollevandoli nella sfera dell'etica, della moralità effettuale degli uomini.

Qualcos'altro infine ci separa dal pensiero "debole". Perché noi siamo convinti che il sofista e Socrate dialoganti siano in realtà degli eretici, rispetto alla società storica. Socrate alla fine deve pagare, la società lo denuncia come corruttore e lo manda a morte. Ciò vale a ricordarci che il dialogare democratico non può arrivare a divenir fondamento costitutivo della società, delle sue istituzioni, dello Stato (per professatamente liberaldemocratico, giusto che sia); consapevole di dover respingere l'apriori dell'io come della coscienza, il pensiero dialogante può essere intravisto come possibile solo in quanto è fermento; fermento ir-realizzabile (tale, cioè, da non potersi e doversi realizzare, farsi cosa) forza non-violenta che tutto rimette sempre in discussione, pena l'essere contraddittorio rispetto a se stesso. E' questo circolo di dialogo quello (ci pare di poter asserire) nel quale lo stesso Nietzsche individuava l'ambito del suo "complotto" eversore, il luogo della "diffidenza" nei confronti d

elle metafisiche. Solo in questa sede si costituisce la "generalizzabilità di esperienze" evocata da Vattimo, come anche l'opinione settecentesca, che negli economisti inglesi si distingue e si oppone allo Stato. L'opinione pubblica è dialogante e insieme sfuggente: oppure non è, come accade di essa nelle nostre società poste sotto la pressione dei media.

NOTE

1) "Filosofia '86", a cura di Gianni Vattimo, Laterza, 1987.

2) John Rawls: "Una teoria della giustizia", Feltrinelli, 1982.

3) Ivi, pag. 27

4) Ivi, pag. 29

 
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