Nei primi sei mesi 209 persone sono morte. In italia si spendono ogni anno 27 mila miliardi e settecento milioni.Contro la droga e la criminalità
di Marco Pannella
SOMMARIO: Marco Pannella rilancia l'idea della creazione di una »lega antiproibizionistica contro la droga e la criminalità . E' un problema, quello della droga, da cui ogni singolo, se non direttamente interessato, tende spesso a sfuggire e preferisce catalogarlo come piaga endemica di impossibile cura. Eppure la droga continua a mietere le sue vittime con un crescendo terrificante: In Italia nei primi sei mesi di quest'anno sono ben 209 i morti che ha causato (il 40 per cento in più dell'86). C'è di più; da quando è cresciuta la paura dell'AIDS, la droga in sé e per sé fa ancora meno notizia. Se ne parla di meno senza riflettere che spesso è essa stessa una delle cause di diffusione del morbo.
La droga non è una notizia da dimenticare. Se il numero dei morti, che è purtroppo solo la punta di un gigantesco iceberg, non bastassero, sono altre cifre a parlar chiaro: l'Italia spende 17.000 miliardi in droghe leggere in un anno, altri 7.900 in eroina e 2.800 in cocaina. Dunque, un problema enorme che non è possibile illudersi da scaricare sempre sugli altri, soddisfatti della fortuna che ci è capitata per non averlo dovuto affrontare da vicino.
E' in questo spirito che va intesa la nostra iniziativa di pubblicare l'intervento di Marco Pannella, dalla cui tesi la direzione de ``Il Tempo'' totalmente dissente, condividendo invece in pieno le idee che qui accanto Geno Pampaloni sostiene. Un articolo, quello di Pannella, del quale, pur nel netto nostro dissenso, riconosciamo la forte carica propositiva e certamente l'onestà degli intenti, tesi a riportare in primo piano un argomento così importante come la lotta senza quartiere alla droga.)
(IL TEMPO, 14 agosto 1987)
C'E' LA GUERRA. Ci sono anche i feriti, i mutilati, gli orfani, i disperati, i disadattati. Il flagello è unico, ma i problemi sono diversi e non vanno confusi, pena il non risolvere alcuno.
Il flagello della guerra della droga è "senza dubbio alcuno", nella sua fenomenologia attuale, il portato esclusivo del regime proibizionistico. E' questo regime, dunque, che va innanzitutto abolito. E' un regime internazionale, e a livello internazionale va combattuto. Cioè a partire da ovunque, a partire da qui, da »qui , Italia, Spagna da qui Europa (o da qui USA o Thailandia o Brasile o Bolivia o Beirut).
Anche l'alcool, anche il tabacco, anche gli psicofarmaci di massima diffusione sono un flagello. Il loro costo diretto in vittime umane e in interventi sociali è anzi senza dubbio maggiore. Ma in termini di vita del diritto e di diritto alla vita, di istituzioni, di leggi, di criminalità e di pericolo mortale per la società e per gli Stati non c'è confronto fra la gravità del problema droga e di questi altri.
Senza il regime proibizionistico il flagello della droga sarebbe ridoto al rango dei »flagelli alcool, tabacco, psicofarmaci. Affidata alle logiche del mercato ufficiale, »libero , la »droga perderebbe ogni autonoma sua caratteristica rispetto a questi altri prodotti, cioè cesserebbe di esistere in quel che di più tremendo, pericoloso, costoso e potenzialmente mortale per la
società rappresenta.
Con il persistere del regime proibizionistico il flagello non potrà non estendersi, fino a registrare fra breve progressioni geometriche in non poche regioni del mondo.
La potenza della grande criminalità prodotta dal regime proibizionistico, intimamente strutturata ormai con quella del traffico clandestino delle armi, già comincia ad essere trasferita e riciclata nel mondo istituzionale ed economico, animandolo irrimediabilmente della sottocultura antropologica che questa storia sta sviluppando, con i suoi interessi e obiettivi.
Quel che resta del proibizionismo americano degli anni Venti non è tanto il ricordo delle vittime dell'alcolismo di un alcool adulterato e non controllato, distribuito e prodotto dalla criminalità. Ma per peste del gangsterismo, delle città e delle istituzioni attaccate, insanguinate, corrotte, di mafie e camorre che da decenni sono sopravvissute, trovando rilancio senza precedenti da due decenni, nel nuovo »proibizionismo .
Nella società contemporanea la sola merce »libera è di fatto quella »proibita finché circola. Ogni merce in »libera vendita è gravata in realtà di molti controlli, diretti ed indiretti. La »carne che mangiamo a casa o nei ristoranti è regolamentata fin da quando è animale vivo. Del vitello, ad esempio, si controllano il nutrimento e le condizioni igieniche, il trasporto nei mattatoi, la macellazione, la conservazione, la vendita, l'esposizione, la qualità, il prezzo. In questa direzione, certamente, si svilupperà sempre di più ogni commercio, non solamente di generi alimentari ma di qualsiasi merce.
La proibizione di una merce, per legge fondamentale ed insuperabile di mercato, si risolve in un suo aumento di valore, direttamente proporzionale alla domanda ed al rischio dell'offerta. Il commercio di merce proibita fa di questa merce la sola ad essere »libera nel prezzo, nella qualità, nella fornitura e nel consumo. I profitti che su di essa si realizzano sono totalmente »liberi , senza concorrenza e controllo possibili, senza pari rispetto a qualsiasi attività lucrativa. Per loro naturale logica, le organizzazioni connesse al commercio della droga reinvestono profitti giganteschi nella promozione del settore, e si riversano altrove con il solo limite delle capacità di assorbimento dell'offerta.
La caratteristica specifica della »droga della quale ci occupiamo (quella »pesante , le altre non meritando nemmeno il nome di droga) è che crea dipendenza e assuefazione, una condizione oggettiva di bisogno e di domanda, che si espande progressivamente, appena intaccata dall'attività repressiva. Per definizione il tossico-dipendente diventa menomato nelle sue capacità di intendere e di volere, in particolare nei momenti di obiettiva crisi di carenza.
Il proibizionismo, non la droga in sé, ne fa un essere pericoloso socialmente, e "definitivamente" pericoloso anche a sé. Il recupero morale, vitale, di una persona che sa di aver compiuto e di dover compiere atti di grave violenza contro altri, innocenti, non di rado proprio contro quelli che più amano o dalle quali più sono amati, diventa sempre più difficile. La angoscia, la disperazione, il male di vivere diventano sempre più profondi, intimi, definitivi appunto. Fino alla morte, o al sempre più improbabile recupero, diventano "macchine" perfette per l'impresa criminale, per l'esercito senza confini e senza possibilità di obiezione del quale è il "soldato", l'"assoldato".
ALTRA è la condizione delle vittime dell'alcool, degli psicofarmaci (per non parlare del tabacco) le droghe sorrette da segno positivo, culturalmente parlando, appoggiate dalla pubblicità e da forze culturali e produttive pressoché sovrane nella nostra società.
Tre anni or sono, dalle colonne de "Il Corriere della Sera" lanciai in Italia la proposta anti-proibizionista. Da allora ho di fatto taciuto, in parte per scelta, in parte perché il bavaglio è stato serrato. La proposta è stata "oggetto" di infinite menzioni, in dibattiti che si riservavano rigorosamente ad altri.
Ho riflettuto, ho studiato, ho partecipato a commissioni d'inchiesta, parlamentari e no, europee o italiane che fossero.
Con i miei compagni del Partito radicale abbiamo cercato di ottenere, nel frattempo, il massimo di sostegno possibile all'opera di chiunque lottasse sul fronte del recupero, dell'assistenza, del reinserimento degli ex-tossico-dipendenti o di coloro che tuttora legati al consumo di droga alla loro attività facevano ricorso. Gli atti della CEE e i bilanci di Stato lo documentano. Abbiamo ugualmente cercato di sostenere la lotta nobile e senza quartiere, meritoria e pericolosa, che l'organizzazione dell'ONU diretta dal dr. Di Gennaro, a Vienna e da Vienna, va conducendo un po' ovunque nel mondo, in primo luogo nei paesi di produzione.
Continueremo a farlo, ma perfettamente consapevoli che si tratta dell'assistenza e del recupero dei »feriti , degli »orfani , dei »disadattati , degli sconfitti e dei disperati della guerra in corso; anzi di una piccola parte di loro. O dell'esperimento di lotta che si ha moralmente il dovere di sostenere , quando è ingaggiata da gente onesta e forte, anche se si è sempre più convinti che per quella strada non si può conoscere che la sconfitta. E' questo il prezzo della tolleranza e umiltà. Ma non può scadere, per noi, ad alibi. Il nemico è nel proibizionismo; è il proibizionismo; non in un prodotto, in una merce o nel male di vivere, nella perversità necessaria dell'umanità o di una sua parte. La droga come materia di per sé maledetta e attiva. I criminali della droga di per sé imbattibili, superiori ad ogni altro, padroni diabolici del mondo.
Il nemico è anche in noi; nella nostra attesa, nel non organizzarci, subito, perché la battaglia appare ed è di immensa difficoltà e l'obiettivo appare troppo al si sopra delle nostre forze. Ma se non cominciamo subito, in modo organizzato, non vinceremo mai, o quando sarà troppo tardi.
Si può amare o detestare il pensiero, l'opera, il peso di Milton Friedman, il Premio Nobel cui si imputano gli »eccessi reaganiani, l'ideologia ultraliberista, l'antistalismo rigoroso e pressoché messianico. Ma ci pare difficile e imprudente negarne la serietà e l'importanza.
E' proprio sul fronte della droga che Reagan e Milton Friedman appaiono invece i generali dei due eserciti che si affrontano. Reagan sta passando apertamente ad una ideologia ed a una pratica militare e autoritaria contro la »droga , ben più liberamente e incontrastato che nell'altra sua crociata, quella contro il demonio sandinista. L'ONU e le organizzazioni internazionali ne risentono e si va delineando una naturale convergenza culturale e strategica fra le »medicine antidroga dell'impero sovietico e degli stati totalitari, e quelle del Presidente americano e dei suoi sostenitori.
Milton Friedman non cessa di denunciare questa politica come illusoria, antiliberale e antiliberalista, ideologica, statalista, follemente costosa sul piano del diritto non meno che dell'economia, oltre che perdente. Bastano, fra tante, le poche pagine del suo libro »Contro il potere dello status quo , del 1984 (ed. Longanesi).
Nel corso di una hearing - in seduta non pubblica - della Commissione speciale del Parlamento Europeo per i problemi della droga, chiesi al Direttore generale dell'Interpol Mr. Kendall di rispondere a titolo personale e non ufficiale ad una domanda. Lo fecce, e lo prego qui di scusarmi se a fin di bene compio una indiscrezione, che spero voglia perdonarmi. La domanda fu questa: »Mr. Kendall, se fossimo qui riuniti in quanto capi di ``Cosa nostra'' decideremmo di sostenere una campagna anti-proibizionista o una difesa dello status quo, del regime proibizionista? . La risposta fu probabilmente difficile, tormentata, chiarissima, ma laconica. Lascio ciascuno indovinare quale.
IN QUESTI anni, in ogni paese, a volte ai massimi livelli di responsabilità, nel mondo della scienza, della cultura, della politica, del diritto e degli addetti alla sicurezza ed all'ordine pubblico, si sono levate voci chiare e coraggiose contro il regime proibizionistico. Ma poiché la soluzione non può venire dalle istituzioni degli Stati nazionali (o solamente da esse: l'antiproibizionismo in un solo paese sarebbe suicidio inutile) ma delle organizzazioni internazionali o, quanto meno, da regioni del mondo come la comunità Europea, L'America del Nord e del Centro, il Medio e l'Estremo Oriente, e via dicendo, non si sono fatti passi avanti.
Occorre quindi passare subito alla organizzazione di una campagna transnazionale, alla costituzione di una »Lega anti-proibizionismo .