di Carmine FotiaSOMMARIO: Sergio Stanzani, eletto segretario del partito al termine del congresso di Bologna (2-6 gennaio 1988), parla delle fasi conclusive dell'assise radicale che hanno visto Marco Pannella non votare, ed anzi criticare come pura "dichiarazione d'intenti" la mozione presentata dal "gruppo dirigente". "Malgrado certi "estremismi pannelliani" abbiamo chiesto vincoli più formali e le richieste che ci erano state poste sulla scelta del partito trasnazionale sono state esaudite. Siamo tutti coscienti che in gioco c'è la vita del partito. Qualcuno proponeva di fissare l'obiettivo di 15mila iscritti, ma raccogliere quattro miliardi di autofinanziamento, com'è scritto nella mozione, vuol dire raccogliere un numero di iscritti anche maggiore. Vedremo in seguito se ha ragione Marco o se avevamo ragione noi".
(IL MANIFESTO, 8 gennaio 1988)
Antipannella lui? Sentitelo: "Con Marco ci conosciamo dal 1947 - dice Sergio Stanzani, 64 anni, ingegnere, uno dei fondatori del Pr, nuovo segretario, sibilando la 'esse' da bolognese purosangue - io ero presidente dell'Ugi e lui aveva vent'anni. E rompeva le balle già allora". Nel momento in cui si crea una distanza tra il leader e il partito, diventa segretario un uomo della prima ora, anche se ignoto al grosso della opinione pubblica.
Bologna. E' lo stesso Stanzani a spiegare come mai sia toccato proprio a lui assumersi l'onore di guidare il partito dopo un congresso tra i più difficili, mentre il suo predecessore Negri si preoccupa di smentire le notizie sulla telefonata tra lui e Pannella in pieno congresso.
"Per come sono andate le cose - dice Stanzani senza rifiutare il paragone tra la sua elezione e quella di Natta a segretario del Pci del dopo - Berlinguer - in fondo era la scelta più giusta. Non che io lo pensassi prima del congresso: certo avevo dato, come altri, la mia massima disponibilità al partito, ma non immaginavo che ciò dovesse tradursi nell'assunzione della responsabilità del primo segretario. La scelta ritengo sia stata fatta perché, in un momento in cui si assommano diverse contraddizioni, solo chi riassume in sé tutti gli elementi di una storia (quando si deve fare a meno di Marco Pannella) può guidare il partito senza che si perda nulla del suo passato, mentre si acquisisce una nuova e diversa dimensione".
- Ecco, Stanzani, quale sia questa nuova dimensione non è risultato chiarissimo dal congresso. Che cosa è davvero successo nelle vostre assise?
Questo congresso ha realizzato, almeno potenzialmente, due grosse conquiste. In primo luogo, una legittima maggior libertà di Pannella, sempre condannato a far coesistere il suo essere politico con l'essere del partito. Ciò è stato un grosso fatto positivo per una fase, ma a mio avviso era divenuto una perdita per il partito e per Pannella. In secondo luogo, si è conquistata una maggiore autonomia da parte dei dirigenti del partito. Tutto ciò è un preciso risultato.
Come riusciremo ora a guidare il partito è un altro discorso, sono state disturbate abitudini e modi di essere, si è modificato un equilibrio, ma questa è una condizione necessaria per andare avanti e non invece un dato di conservazione di una realtà pur se fatta di cose stupende. Non è una sconfitta di Pannella, semmai una vittoria della sua intelligenza politica.
- Eppure è stato Pannella ad accusarvi di aver privilegiato l'unità del gruppo dirigente sulla chiarezza delle scelte, e poi non ha votato la vostra mozione. Allora come mai ha vinto?
Il gruppo dirigente è stato in grado di determinare una sua unità. Che ciò poi potesse avvenire, come voleva Marco, con un atto autonomo e al tempo stesso trovando la soluzione teoricamente più adeguata, forse era pretendere troppo. Se insieme all'autonomia fossimo riusciti anche a fare scelte più precise sarebbe stato sicuramente meglio, ma ciò non vuol dire, in questo sono in dissenso con Marco, che la nozione sia una pura "dichiarazione d'intenti". Malgrado certi "estremismi pannelliani" abbiamo chiesto vincoli più formali e le richieste che ci erano state poste sulla scelta del partito trasnazionale sono state esaudite.
Siamo tutti coscienti che in gioco c'è la vita del partito. Qualcuno proponeva di fissare l'obiettivo di 15mila iscritti, ma raccogliere quattro miliardi di autofinanziamento, com'è scritto nella mozione, vuol dire raccogliere un numero di iscritti anche maggiore. Vedremo in seguito se ha ragione Marco o se avevamo ragione noi.
- Non puoi negare però che c'è stata incomunicabilità tra Pannella e il resto del gruppo dirigente.
Comprendo bene chi ha avvertito duramente la sofferenza del rapporto con Marco, ma non capisco chi, nel momento in cui si fa una scelta di autonomia, esita poi ad assumere tutte le responsabilità conseguenti.
- Ti riferisci a quelli che Pannella chiama i "radical-democratici", cioè a quelli che lui definisce "i conservatori radicali"?
L'impatto individuale con quello che è stato definito "un salto nel buio" è stato pesante. Non era facile essere d'accordo, ma la difficoltà era dentro ciascuno di noi, a nessuno piaceva personalmente l'idea di accollarsi questi nuovi oneri, per chiunque è difficile mettere in gioco quel che si ha in nome di quel che si potrà avere. Tutto ciò ha prodotto esitazioni, ma alla fine la sfida è stata accettata da tutti.
- Dunque, si è chiuso un ciclo della politica radicale? Si volta pagina rispetto alla scelta "istituzionale" del 1976?
Siamo stati noi per primi ad avvertire il rischio di una perdita di originalità dell'esperienza radicale, è per questo che oggi, con la scelta trasnazionale, da tradurre operativamente, cerchiamo un ritorno alle radici.
- Vuol dire, come teme qualcuno anche al vostro interno, che ciò significa disertare la lotta politica in Italia?
Pensare che un partito che esiste e opera in Italia da trent'anni possa in un sol giorno diventare "trasnazionale" è certo un'idiozia: peccato, perché quanto più saremo "trasnazionali", tanto più saremo anche "nazionalmente" forti.
Il problema è come far vivere, anche in Italia, questa scelta di trasnazionalità. E ciò vuol dire dar vita e corpo a un processo di riforma. Da oggi, però, questo non lo potremo più fare con "il partito radicale-in quanto tale", partecipando con il suo simbolo alle competizioni elettorali. Se domani si andasse a votare noi avremmo di fronte diverse possibilità: dare indicazioni di voto per altri, o non darne affatto; sollecitare il non voto o, ad esempio, promuovere liste elettorali aperte all'insegna dell'uninominale. Tutto ciò sempre con un simbolo diverso da quello del Partito radicale. In fondo è un ritorno alla nostra concezione originale del partito secondo la quale la partecipazione diretta alle elezioni costituisce un mezzo a cui ricorrere solo in via del tutto eccezionale.
- E' vero che questo Pr 1988 è più distante dal Psi e più vicino al Pci?
Col Pci abbiamo da sempre un rapporto di non subordinazione e di scontro ma da sempre aperto al dialogo e al confronto. Fummo noi dell'Ugi ad aprire le nostre associazioni agli universitari comunisti, quando, con il maccartismo, l'anticomunismo era imperante: la nostra diversità ci ha sempre consentito una maggiore libertà di dialogo.
Il discorso con i socialisti è diverso: siamo più vicini per tradizione, storia e cultura; il confronto con loro pertanto è più diretto e immediato, come più dirette e immediate sono le possibilità di scontro. Le scelte compiute dal Psi dopo le elezioni, anzitutto con il rifiuto di sostenere la strada dell'eptapartito, con noi e i Verdi al governo, e poi svilendo l'esito dei referendum, hanno creato importanti elementi di dissenso. Resta tuttavia immutato il nostro più vivo interesse a ogni occasione di incontro e la nostra speranza di poter proseguire in un proficuo lavoro comune.