di Gianfranco SpadacciaSOMMARIO: L'assassinio di Roberto Ruffilli è un'operazione in sé vile e niente affatto rischiosa, condotta contro un uomo solo, inerme, indifeso. Per questo, per evitare di nobilitare l'assassinio delle BR, occorrerebbe evitare di elevare Ruffilli a simbolo, con l'intento di chiedere una nuova emergenza, magari volta, oggi come dieci anni fa, a cementare una traballante coalizione di governo
(Notizie Radicali n· 87 del 28 aprile 1988)
Roberto Ruffilli era uno studioso e un politico. Era un cattolico di cultura e non di potere. Per me era un uomo, era un collega ed un amico. Ciò che è avvenuto è gravissimo. Io piango l'uomo e la sua stupida e cattiva morte.
Per coloro che l'hanno ammazzato Ruffilli era invece un obiettivo facile e inerme, che hanno elevato a simbolo con la grottesca pretesa di aver colpito »il cuore dello Stato .
Io non vorrei che, nel dolore e nello sgomento di questi giorni, angosciosi anche per le notizie che giungono dal Mediterraneo e dal Golfo persico, si commettesse da parte del governo, della Dc, della maggioranza, l'errore di elevare anche da parte loro Ruffilli a simbolo.
Perché, così facendo, e piangendolo come simbolo, prima che come uomo ed amico, si nobiliterebbe l'assassinio delle bierre, esaltando in questa maniera l'efficienza militare di un'operazione in sé vile e niente affatto rischiosa, condotta contro un uomo solo, inerme, indifeso. E soprattutto si attribuirebbe capacità strategica a un gruppo di terroristi che per unanime riconoscimento, nonostante la loro indiscussa pericolosità, sono isolati e privi di prospettive.
Sento il bisogno di scrivere queste cose senza un pregiudiziale desiderio di polemica, ma al contrario come un bisogno di riflessione e di dialogo. E vorrei rivolgermi innanzitutto al Presidente del Consiglio, tentando di ragionare e di capire, come ama ripetere spesso De Mita.
Il segretario del partito di maggioranza ha dalla sua la forza e la storia della Dc che nel bene e nel male è stata l'elemento centrale della storia politica italiana di quasi mezzo secolo. Non deve cercare altrove forza e legittimazione per la sua Presidenza del Consiglio e per la sua azione e il suo programma di governo.
A chi gioverebbe contrapporre alla grottesca forzatura delle bierre (Ruffilli »cuore dello Stato , Ruffilli simbolo del potere democristiano), una forzatura speculare rivolta a creare una nuova emergenza, diversa ma analoga a quella che dieci anni fa cementò una maggioranza traballante di unità nazionale?
Credo proprio che non gioverebbe alla lotta contro le bierre e il terrorismo. Non bisogna minimizzare, d'accordo. Ma non bisogna neppure enfatizzare, affermando sotto l'influenza emotiva cose scarsamente meditate e che rischiano di enfatizzare, moltiplicandola, la forza di questo gruppo di terroristi, incoraggiandoli su questa strada a ritenere politicamente utili e poco rischiosi altri assassinii come quello di Ruffilli. Ma soprattutto mi preoccupo che queste »enfatizzazioni , questa fretta di trarre conclusioni politiche da un assassinio, possano alterare la capacità di comprensione -e quindi la efficace prevenzione e repressione- del fenomeno terroristico nelle sue dimensioni e caratteristiche attuali e reali.
Non posso essere sospettato di essere un »perdonista . Sono sempre stato contro tutte le leggi eccezionali: quelle dell'inasprimento delle pene e della sospensione delle garanzie giuridiche, ma anche quelle del perdonismo. Credo tuttavia giusto pormi una domanda: e se questo omicidio fosse, assai più che un attacco alla democrazia italiana, una risposta ai capi storici che parlano di fine della lotta armata e della necessità di uscirne? Se fosse un assassinio deciso innanzitutto per troncare un dibattito, i dubbi, le esitazioni? Mi chiedo sommessamente se certe reazioni, certi comportamenti di questi giorni, certe dichiarazioni avventate non finiscano, in questo caso, proprio per stabilizzare, incoraggiare, rafforzare i continuatori della cosiddetta »lotta armata .
Ma, si dice, la morte di Ruffilli non chiama in causa questa volta nessuna emergenza giudiziaria, ma caso mai l'emergenza istituzionale, attraverso la necessità di quelle riforme del sistema politico e istituzionale di cui egli era se non sempre un ispiratore, certamente un sollecitatore. Io credo che un disegno politico riformatore abbia bisogno di dibattito e chiarimento politico di volontà e di progetti più che di un clima di emergenza. Anche il programma del nuovo governo, almeno nella formulazione accettata dai cinque partiti, contiene un'enunciazione di temi (Presidenza del Consiglio, riforma del bicameralismo, riforma delle autonomie) più che di propositi riformatori, se si fa eccezione per la nota riforma del voto segreto. Quanto al progetto di riforma elettorale di Ruffilli, la Dc non lo ha mai fatto proprio, come il Pci non ha mai fatto proprio il diverso, anche se in parte convergente, progetto di Pasquino. Sono proposte, l'una e l'altra, che non mi convincono. Il mio partito ha avanzato proposte
assai più radicali. Il discorso elettorale chiama in causa tante questioni: partitocrazia e democrazia, bipolarismo democristiano-comunista e funzione delle forze laiche e socialiste. Sono il primo ad augurarmi che Ruffilli abbia in morte tanta attenzione quanta non ne ha avuta in vita, purché questo avvenga in un clima di dibattito politico democratico, senza forzature.
Un'ultima considerazione riguarda il parallelo con il »caso Moro . Anche qui non posso esimermi dall'esprimere con franchezza radicale una preoccupazione: che questi paralleli servano ad accreditare letture unilaterali e acritiche di quanto è avvenuto in quegli anni, '77 e '78, per meglio rimuovere dalla memoria storica le pagine più inquietanti delle scelte che avvenivano nei governi e nelle forze politiche. O dobbiamo dimenticare l'ascesa degli uomini della P2 al vertice dei servizi e delle Forze armate, proprio nel momento in cui era più duro l'attacco del terrorismo?
(dal Manifesto)