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Mellini Mauro - 29 aprile 1988
Violenza è mistificazione
Mauro Mellini

SOMMARIO: La violenza ha bisogno di mistificazione: per dimostrare che la ragione ce l'ha chi è più forte, chi esercita la violenza deforma la ragione e la verità. La violenza non funziona se non è accompagnata dall'imposizione di una verità; il "profeta armato" deve "convincere" che chi ha subito la violenza è cattivo ed ha torto: i fascismi tra le due guerre ne sono la dimostrazione. Si dovrebbe immaginare una capacità di resistenza nonviolenta razionale all'effetto della parola armata.

(Atti del convegno "I radicali e la nonviolenza: un metodo, una speranza", Roma 29-30 aprile 1988)

Vorrei fare qualche riflessione, peraltro un po' vecchiotta perché ricordo di aver detto per lo meno alcune di queste cose niente meno che ad un Convegno antimilitarista, temporalmente in coda a un Congresso radicale a Milano, non dei più recenti... non mi ricordo quando fu, ma comunque prima dell'approvazione della legge sul divorzio... diciamo negli anni settanta. (A controllo effettuato, si tratta del Congresso di Milano nel 1971).

E l'argomento è questo: la mistificazione e la violenza. Partendo da qui, io credo che si possano fare delle considerazioni per quello che riguarda, invece, lo sviluppo della nonviolenza.

A questo ho cominciato a prestare attenzione partendo da considerazioni sul militarismo: ma evidentemente la questione non riguarda soltanto il problema del militarismo, più in generale riguarda la violenza.

La violenza assoluta, come arma assoluta, come strumento assoluto, non esiste. La violenza, in realtà, come costringimento, come mezzo di imposizione - da sola - non realizza mai le sue finalità. Se andiamo a far attenzione ai più raffinati strumenti di violenza fisica, agli eserciti, ai momenti di più esasperata realizzazione della violenza, troviamo che la violenza ha bisogno di una contrattazione della ragione alla quale si contrappone. Non è un gioco di parole: nel momento in cui si afferma che la ragione ce l'ha chi è più forte, e in cui si affida alle armi... come si dice nel linguaggio molto fiorito, che "si affida alle armi" la ragione degli Stati, le buone cause, eccetera eccetera... in quel momento c'è bisogno di ricorso alla mistificazione, cioè alla deformazione della ragione e della verità, da parte di chi esercita la violenza.

E' difficile immaginare un regime come quello Hitleriano, che è fondato sull'esaltazione della violenza, e la storia di quello che ha rappresentato, in quel pugno ristrettissimo di anni, un regime come quello Hitleriano - dalle divisioni corazzate ai forni crematori espressione di violenza - se non fosse stato, tutto questo, accompagnato dalla mistificazione: Goebbels è l'altra faccia di Himmler e delle divisioni corazzate, e senza Goebbels non si immagina il regime, e la vicenda Hitleriana in europa. Si aggredisce l'Olanda, e si dice che l'Olanda stava per aggredire il Terzo Reich, c'è il bisogno di dire questo... no? L'Olanda stava per aggredire il Terzo Reich!

E non è un fatto tipico della scoperta di Goebbels dell'arma della propaganda, ma è una costante precisa, perché in ogni momento il violento ha bisogno di questo completamento, di questo presupposto: le macchine di violenza non funzionano senza che siano accompagnate da una forma di imposizione - in qualche misura - di una verità senza la quale falliscono, e riconoscono a se stesse di fallire.

Certo, c'è l'idea del "profeta armato"... che deve essere armato, ma deve rimanere profeta e deve avere come fine quello di raggiungere in qualche modo una forma di convinzione. E se pensiamo alla parola "convinzione"... scusatemi se salto un po' (apparentemente, mi auguro) di palo in frasca: lo stesso termine di "convinzione", nell'analisi filologica di questa parola, significa "portare gli altri a vincere insieme", ma significa anche "portare gli altri ad essere vincolati, insieme", cioè aggregati alla condizione di assoggettamento della persona che ha subito la violenza; bisogna imporre che quella persona che è stata vinta, che è stata uccisa, che è stata soppressa, che è stata torturata, sia cattiva, abbia torto. Ed è facile, forse, in certe condizioni, "convincere", quando si esercita violenza: però è anche certo che, senza questa "convinzione", la violenza e la stessa teorizzazione della violenza è perdente e disarmata.

Scusate se torno indietro un momento, alle macchine militari: che cosa sono stati i fascismi tra le due guerre, se non il riconoscimento che alla violenza delle armi bisognava aggiungere la mistificazione, e che i regimi più adatti per esprimere violenza dovevano essere accompagnati da una grande forza propagandistica? Non ci illudiamo: il fascismo come dato vincente negli anni tra le due guerre - e non soltanto tra le due guerre, ma anche dopo - è stato espressione di un Regime che ha raggiunto tanta gente, con i suoi mezzi di propaganda, quanto tutti i regimi democratici precedenti non erano mai riusciti a fare. Se pensiamo che per una generazione di italiani, in zone di contadini e di operai, il primo giornale che hanno avuto nelle mani non è stato né il giornale socialista né quello cattolico, ma il giornale di trincea; e la prima ideologia che li ha raggiunti è stata quella che in trincea, mentre stavano coi piedi nel fango e ricevevano fucilate e cannonate, li indrottinava... questo ci fa pensare e ci

spiega come, dalla macchina propagandistica degli eserciti - le più perfezionate, quella tedesca, o le più operettistiche come quella italiana - sono nati questi regimi. Ma questi regimi sono l'espressione, la constatazione di questa esigenza sul piano organizzativo, ma che non è soltanto sul piano delle grandi organizzazioni, ma che attiene alla violenza in se stessa: da quella del bambino che picchia l'altro, e mentre lo picchia dice che è brutto, antipatico, fino all'espressione del terrorista il quale ritiene, certo, di risolvere la questione col colpo di pistola alla nuca o la bomba, ma poi deve fare il messaggio... fino a chi regala (altro aspetto che abbiamo in questo momento) agli altri - a quelli che ritiene avversari, ma non si sa fino a che punto sono avversari - la convinzione e il messaggio.

Pensiamo a quello che avviene in questo momento, a questa buffonata avvenuta qui, in Parlamento: quando quattro assassini miserabili ammazzano un professore passato alla politica (come si è detto di lui), e qua dentro, con voce singhiozzante "oh, voleva le riforme istituzionali, lo hanno ammazzato perché rappresentava le riforme istituzionali, ma noi le faremo lo stesso!"; e si attribuisce, così, ai quattro assassini la funzione di interlocutori sul problema delle riforme istituzionali. Ecco questo disegno, che c'è: tra la violenza, anche la grande violenza, che ha bisogno di una mistificazione, e nello stesso tempo le mistificazioni che hanno bisogno di questi momenti di violenza.

Considerazioni su tutta questa questione. La prima considerazione è questa, che la violenza non è l'arma risolutiva, se riconosce la necessità di ricorrere a questa integrazione, della profezia che deve coesistere con le armi, pur bandendo l'idea del profeta che deve essere armato. Ma l'altra è questa: certo, la grande difficoltà della nonviolenza, ma una nonviolenza integrale, per questo solo fatto; e - per il solo fatto che la violenza ha sempre bisogno di essere accompagnata da questo momento profetico - ciò significa che la violenza è, nei suoi sbocchi, nelle sue realizzazioni, nei suoi obiettivi, distrutta, totalmente disarmata, perché le armi non funzionano.

Se si potesse immaginare una capacità di resistenza nonviolenta razionale, di non-convinzione, da parte di chi pure può subire qualunque violenza, come dato fisico: e quindi con una prorompente... certo, difficilissima, ma poi dipende, perché non esistono in assoluto le cose di cui si può convincere, la quantità di convincimento, senza sapere quale ne è l'oggetto... altrimenti non esisterebbe differenza tra verità e non verità; ma la capacità di verità è certamente una capacità che distrugge l'effetto stesso, la tattica, la capacità stessa della violenza, perché la violenza non si realizza mai - o non si realizza mai come finalità politica, come risultato politico. Se si potesse concepire questa totale resistenza all'effetto della parola armata - in quanto parola e non in quanto armi - certamente sarebbe distrutta ogni possibilità concreta di politica violenta e di guerra, con quello che segue.

Detto questo, e fatte queste considerazioni (che, certo, attengono a momenti del ..."filosofeggiare sui sommi principi", si potrebbe dire) e richiamandomi ad alcune considerazioni che faceva Gianfranco a questo proposito, io credo che il problema non sia tanto quello di realizzare, concepire, scelte totali: bisogna avere idee chiare a questo proposito, ma io credo che la strada delle grandi conquiste, come quella della realizzazione delle grandi politiche, passa attraverso la capacità di realizzare momento per momento, giorno per giorno - avendo certo presenti queste grandi idee-forza - un modo diverso di fare politica.

Se questa riflessione, sul complemento necessario di "violenza alla verità" (e quindi di mistificazione) che è connesso alla violenza, diventa strumento della nostra capacità di lotta politica e riesce a realizzarsi giorno per giorno, ci porterà certamente a un modo diverso di fare politica; non basterà certo, e sarà molto più utile che la conquista di una chiarezza di convinzione totale su questo punto; e ci porterà, intanto, a realizzare quella particolare attenzione che il nonviolento deve avere per il problema dell'informazione.

Per il problema dell'informazione, e anche per un altro aspetto della propria capacità di far politica, perché certo uno dei punti (lo ricordava Gianfranco nel suo intervento), uno dei nodi, uno degli argomenti di polemica relativa alle questioni della nonviolenza, è sempre quello in ordine alla mansuetudine del linguaggio, al tono sommesso, che secondo alcuni dovrebbe essere il naturale complemento delle posizioni del nonviolento. Il nonviolento non deve essere necessariamente sommesso: se lo è, è perché è sommesso nei suoi atteggiamenti per natura; ma io credo che il nonviolento che si rende conto della difficoltà e della grandezza degli obiettivi che si può, che si deve porre in una politica nonviolenta, molto "sommesso" non possa essere... e che l'asprezza, la durezza - che molto spesso è una faccia necessaria della verità - sia invece propria del discorso del nonviolento.

Sono riflessioni, non sono certamente tentativi di costruzione di un sistema, né sono obiettivi politici da realizzarsi per una forza politica, nell'immediato: ma credo comunque siano riflessioni che hanno un loro peso. E credo che qualche riflessione sul passato, a questo proposito, sia anche opportuna e ci aiuti a guardare avanti con maggiore puntualità e chiarezza: la storia di altri Paesi, ma anche la storia nostra - sapendola vedere con un'attenzione che tenga conto anche di certe considerazioni generali - si possano trarre insegnamenti notevoli anche a questo riguardo.

Grazie.

 
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