Pino MakovecVice direttore del carcere di Rebibbia
SOMMARIO: Da un osservatorio particolare, il carcere, l'autore analizza le trasformazioni delle forme di protesta dei detenuti che sempre più adottano metodi nonviolenti.
Ma il carcere rimane un luogo che produce violenza soprattutto perché non vi è certezza delle regole. Non si tratta quindi solo di "umanizzare" il carcere, ma di farvi entrare il diritto, la ragione.
(Atti del convegno "I radicali e la nonviolenza: un metodo, una speranza", Roma 29-30 aprile 1988)
Vorrei portare brevemente la mia testimonianza, che è la testimonianza di chi ormai da quindici anni si confronta con una istituzione che è violenta per definizione, il carcere.
Ascoltando tutto quello che si è detto ho ripensato ai tempi in cui i detenuti avevano come unico strumento per far valere la loro voce i tetti, sfasciare tutto... pagando poi questi loro atti, questo loro essere presenti, non soltanto in termini processuali ma anche in termini fisici; e certamente poi - lo ha ricordato qui anche Spadaccia - la politica nonviolenta, l'esser attivi, l'essere presenti attraverso un atteggiamento nonviolento che si manifesta attraverso la disobbedienza, è stato patrimonio anche di molti detenuti. E non soltanto di detenuti comuni, ma soprattutto inizialmente di detenuti politici: di alcuni detenuti che, prima, avevano fatto della violenza il loro strumento di lotta politica. Voi ricorderete lo sciopero della fame di Franceschini a Nuoro, a Bad'e Carros, che era forse la massima espressione della violenza del sistema carcerario italiano, in quel momento: ma poi questa pratica si è diffusa, è divenuta patrimonio anche di detenuti anonimi, detenuti di cui nessuno parlerà mai; ed
è un fenomeno che, tutto sommato, ha preoccupato l'Amministrazione, ed ha preoccupato anche la Corte di Cassazione, tant'è vero che qualche giorno fa la Corte ha pronunciato una sentenza in cui si dice che appunto è inutile che il detenuto faccia lo sciopero della fame arrivando a conseguenze psico-fisiche che non si conciliano con il regime detentivo - allo scopo di ottenere la scarcerazione per incompatibilità col regime carcerario - perché questa è una forma di ricatto nei confronti dello Stato.
Ma, più che di nonviolenza, vorrei parlarvi del suo contrario, perché chiunque voglia fare il direttore di un carcere - ha ben ragione Mellini - deve confrontarsi con la violenza come mistificazione della ragione. Il carcere è un luogo di non ragione, è un luogo in cui la ragione non c'è, in cui spesso io mi trovo di fronte (a Rebibbia io sono vice-direttore, e a questo ci tengo, perché poi alla fine significa che prendo le distanze da certe responsabilità) a certe domande. "Ma perché, questo, dottò? Ma perché non posso fa' questo?" mi chiedono. E l'unica ragione che posso trovare per una risposta è "Perché è così... Perché è carcere." Ma non trovo una risposta razionale. Eppure la cerco, la risposta razionale, perché credo che lo Stato la debba trovare, perché non è accettabile che il carcere sia affidato all'irrazionale; e anche su questo vorrei che rifletteste: la violenza nel carcere esiste, non c'è carcere senza violenza. Quindi il problema si risolve a monte: con una giustizia senza carcere.
E tuttavia credo che in proposito non serve fare passi avanti, lasciando dei vuoti che altri poi possono riempire. . Il Direttore Generale scrive che bisogna decarcerizzare, che ci sono 35.000 detenuti in Italia (poi, su questo, vi dirò qualcosa) e tutto sommato una buona parte può essere sottoposta a misure diverse dal carcere, dando la risposta custiodalistica soltanto a coloro che veramente mettono in pericolo la convivenza civile, cioè alla grande criminalità. Io credo però che si debba anche dire, e con grande chiarezza e coraggio, "come" questa criminalità deve stare nel carcere...
E allora voglio affrontare questo problema, perché poi io vivo di questo, e lavoro in una realtà che di violenza ne esprime tanta; e molte volte non si tratta di violenza eclatante, esplosiva; la violenza molto spesso è più psicologica che fisica, assume sfumature diverse, i detenuti non si accoltellano più fra loro... c'è una violenza dei custodi sul custodito, c'è una violenza del detenuto sull'altro detenuto, c'è una violenza del detenuto su se stesso, gli atti di lesionismo, i suicidi... noi abbiamo avuto nel 1987 qualcosa come 58 suicidi in carcere, in Italia: ed è un numero allarmante, soprattutto se rapportato alla popolazione detenuta - che da circa un anno e mezzo è intorno a 35.000 unità - ed anche rapportato ad una maggiore efficienza dell'Amministrazione, e quindi a tecniche di controllo più attente; è un dato che fa pensare.
Credo dunque che dobbiamo confrontarci su questo problema: come lavorare all'interno di una istituzione che produce sempre e comunque violenza, e che la produrrebbe anche se avesse al proprio interno un solo detenuto; e credo che non servano "più leggi", perché noi abbiamo una legge di riforma penitenziaria che è tra le più avanzate; quello che serve sono proprio strumenti nuovi, sono le regole del gioco che vanno cambiate. C'è un grande divario fra una legge che crea aspettative, una legge che è fra le più avanzate, e questa impossibilità a dare delle risposte che è dovuta agli strumenti insufficienti. Anche questo è un elemento di altissima frustrazione, una legge che crea aspettative, le quali poi vanno puntualmente deluse.
Non voglio dilungarmi su tutte quelle che sono le disfunzioni del nostro sistema penitenziario, ma credo che alcuni punti vadano individuati, su cui intervenire: quando dico che vanno cambiate le regole del gioco, quando dico che è necessario che vi siano strumenti in cui tutti siano "soggetti" , all'interno di questa istituzione, mi riferisco per esempio non solo ai detenuti ma a tutti indistintamente gli operatori; parlo quindi di una istituzione che non sia autoritaria, verticale, di per se stessa portatrice di violenza, che spesso riproduce tra i detenuti gli stessi meccanismi che strutturalmente sollecita, ma che abbia delle regole del gioco completamente diverse.
Abbiamo un appuntamento, a livello parlamentare: tutta la tematica relativa alla riforma per gli Agenti di custodia. Questo è un problema fondamentale, perché il rapporto su cui alla fine si gioca tutta quanta la detenzione è il rapporto del detenuto col suo custode: non illudiamoci, non enfatizziamo troppo psicologi, psichiatri, criminologi... tutto questo non serve, se non attrezziamo i custodi, se non diamo professionalità a chi poi costantemente segna, minuto dopo minuto, giorno dopo giorni, la detenzione.
E poi, i meccanismi dell'Amministrazione, le regole di questa Amministrazione: da Roma si decide anche in quale cella, su quale piano, in quale sezione deve andare il detenuto; e questo è assurdo. Prendete il caso Signorelli: Signorelli per essere in compagnia di un essere umano, per andare a cenare nella stanza di Tizio o Caio, doveva sottoscrivere una dichiarazione. Lui naturalmente si rifiutava di scrivere la dichiarazione, e così Signorelli se ne è stato anni ed anni completamente isolato. Queste sono le cose su cui dobbiamo riflettere, ben consapevoli che giornalmente noi - io per primo - lavoriamo in una realtà violenta, che produce violenza.
Io credo allora che l'impegno di un radicale sia quello di fare in modo che questa violenza sia sempre più ridotta: mi rendo conto che si tratta di un dato minimale, ma sono anche certo che questo, operativamente parlando, è il terreno su cui possiamo confrontarci.
Ripeto: molto spesso la violenza in carcere non è la violenza "del" carcere, ma è una violenza riflessa, che deriva dal "sistema penale" in senso sostanziale. Non è possibile avere nel Codice, tuttora, dei reati che ormai la coscienza collettiva, la coscienza sociale non considera più come gravi trasgressioni, per i quali non c'è più alcun allarme sociale, perché li abbiamo ormai assorbiti, sicché non sono più neanche ipotesi di reato... L'abuso d'ufficio, per esempio, un reato che andrebbe cancellato dal Codice penale. E, ancora, l'oltraggio a pubblico ufficiale: siamo uno dei pochi Paesi che hanno questa fattispecie criminosa nei codici. Pensate a quanta gente è entrata in carcere per scontare una pena principale di anni X, e poi si è ritrovato con un'altra pena per una serie di reati commessi all'interno del carcere: e molto spesso si tratta del reato di oltraggio.
E che cosa è l'oltraggio se non una scintilla, una conflittualità, una microconflittualità permanente tra il detenuto e l'istituzione? Tutto questo potrebbe essere eliminato attraverso un carcere diverso e una diversa professionalità di chi lavora nel carcere.
Ora io vorrei offrirvi alcuni dati. E' indubbio che il carcere, in Italia, è un problema: ed è giusto che se ne faccia un gran parlare. Ma se rapportiamo la situazione alla popolazione e la confrontiamo coi dati all'estero, vediamo che la nostra è ancora una situazione favorevole. Noi abbiamo 35.000 detenuti su una popolazione di 58 milioni; in Spagna (sono dati del mese scorso) ce ne sono 30.000 su una popolazione di 43/44 milioni; in Germania arrivano ai 50.000, come in Inghilterra, e in Francia sui 45/50.000, tutte con popolazioni inferiori ai nostri 58 milioni. Vedete dunque che il problema non è poi così grosso: si tratta di avere la volontà di agire sulla strada delle riforme compiute, di metter mano ad un sistema che sostanzialmente riproduce ancora vecchi schemi, vecchie gestioni del potere, per ricreare nuovi equilibri.
Questo è il punto: perché quegli equilibri vecchi si vogliono conservare, mentre una riforma completa del carcere non può prescindere dal superamento di certi schemi. Occorre rompere certi equilibri per creare un carcere nuovo, in cui non ci sia quel disordine in cui prima di tutti paga di persona il detenuto ma poi paga tutta la collettività nel suo complesso: un carcere in cui sia consentita la vivibilità, in cui sia imperante la ragione e il diritto.
Volutamente non parlo di "umanizzazione": ci sono certe parole che hanno finito col darmi anche fastidio, tanto sono abuste. Nel carcere deve poter entrare il diritto, deve poter entrare la ragione.
Se vogliamo parafrasare la "giustizia giusta", dobbiamo anche batterci perché giustizia giusta sia anche "detenzione giusta": questa è - secondo me - l'ottica sulla quale dovremmo muoverci.
Tutto il resto verrà da solo, anche l'umanizzazione del trattamento... ma dobbiamo tenerci soprattutto sul terreno della legalità, della ragionevolezza, della nonviolenza, appunto.