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Bizzarri Aldo - 15 giugno 1988
Prigionieri dello stato nazionale
di Aldo Bizzarri dal Giornale di Sicilia del 16.3.1988

SOMMARIO: Nel Settecento e nell'Ottocento l'uso del passaporto per passare da uno Stato all'altro era sconosciuto o pochissimo frequentato. E non è questo l'unico esempio che sembrerebbe indicarci quei due secoli come molto più aperti e cosmopoliti del nostro.

(Notizie Radicali n· 122 del 15 giugno 988)

Il viaggiatore inglese partì da Londra, imbarcò a Dover, sbarcò a Calais e, sostando a Montreuil, Nampont, Amiens, arrivò a Parigi. Quivi giunto e dopo qualche giorno che andava girando per la città, accadde che la polizia si presentasse all'albergo dove egli era sceso per chiedere urbanamente del suo passaporto. Il passaporto? Strana richiesta, davvero. E solo a questo punto gli venne in mente che i due paesi, Inghilterra e Francia, si trovavano in quel tempo in stato di guerra tra loro. Il galantuomo se ne era semplicemente dimenticato e in tale oblio era entrato da turista nel territorio nemico e lo aveva attraversato tranquillo fino alla capitale.

Ciò accadeva nella seconda metà del Settecento all'inglese Jorick, com'è attestato dal famoso viaggio sentimentale di Lorenzo Sterne, che gli italiani ancora oggi possono leggere nella polita traduzione del Foscolo. Allora, dunque, ci voleva addirittura una guerra per rendere necessario il passaporto tra due paesi civili, e questo per le persone comuni. Perché per quelle illustri si passava sopra ben altro.

Nel 1810 per esempio, come ricorda Aldous Huxley, mentre Inghilterra e Francia si stavano facendo una guerra accanita, il dotto inglese Davy e il suo discepolo Farady furono invitati a Parigi, e non solo si diede loro occasione di parlare in pubblico, ma li si accolse dovunque con onore e distinzione. Altro che passaporto!

Del resto anche più avanti nel secolo, quando cominciò a divenire normale l'uso del passaporto, questo non ebbe mai troppa importanza. Basti ricordare che nel 1847 il nostro Carlo Pisacane e la sua compagna Enrichetta, esuli a Parigi sotto il nome posticcio di coniugi Dupont, furono bensì dietro richiesta dell'ambasciata napoletana arrestati dalla polizia francese, ma questa fece sapere all'ambasciata che il »pretesto del passaporto falso non poteva servire a trattenere i due più di una settimana. E infatti dopo otto giorni Pisacane e compagna venivano messi fuori e dichiarati liberi di restare o andarsene a loro piacimento.

Ma, senza affannarsi a cercare esempi nella storia dei secoli passati (il che potrebbe tentar qualcuno ad un pezzo di facile maniera e di cattivo gusto sulla considerazione che quelli non erano, come il nostro, secoli di democrazia e progressivi), lasciando dunque il Settecento e l'Ottocento basti porre mente al fatto che al principio di questo Novecento, negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, non v'era pratica necessità di passaporto, essendo il suo uso richiesto solo da pochi paesi fra i meno civili.

Quarant'anni non sono ancora trascorsi, sono ancor vivi i nostri padri che potevano liberamente salire sul treno diretto ad una capitale straniera come oggi noi saliamo su un autobus rionale, ma tutto è mutato al punto che dare uno sguardo fuori dai confini è divenuto per il comune cittadino l'impresa più complicata (e talvolta rischiosa) che egli possa proporsi. Non solo occorre tassativamente un passaporto del proprio paese, difficile ad ottenersi ed attraverso pratiche che durano mesi, ma occorre poi dal paese dove si vuole andare un visto di ingresso difficile quanto il passaporto e spesso di più. E occorre subire da ambo le parti una lunga e minuziosa inchiesta quasi come imputati di oscuri delitti, dare convincenti spiegazioni e giustificazioni del viaggio, fornire pezze di appoggio e benemerenze. Uno che ingenuamente allegasse: »Voglio soltanto andare a vedere se di là si sta meglio che di qua , sarebbe preso per matto. Siamo al punto che presso alcune nazioni il desiderio di un viaggio all'estero è c

onsiderato con orrore, addirittura come un tradimento.

Ove più e ove meno, in carcere semplice o duro, gli uomini del nostro tempo son prigionieri nei confini del proprio Stato. E la realtà, abbastanza recente, di un mondo senza passaporto e liberamente conoscibile appare già, con colori meravigliosi, quale una favola. Tanto che perfino la dichiarazione delle quattro libertà (di parola, di culto, dal bisogno e dal timore) se n'è dimenticata e non ha accennato neppure a una quinta libertà: quella di andare a girare dove desiderio o necessità ci guidi, conoscere il mondo, le altre fette di questa unica terra e gli altri membri dell'umana famiglia che la popolano. Siamo invece legati. Il progresso degli ultimi decenni ha finito per legarci a una catenella che si allunga fino all'uscio di casa e non più. Chi vuole andare non può. E, naturalmente, come sempre accade quando si viola un principio essenziale della persona, un'aberrazione stimola quella del tutto opposta. Così oggi, a far da controparte all'altro, c'è anche il fatto contrario di chi vuole stare e non può

. I trasferimenti forzati di popolazioni, da territori dove erano nate e radicate ad altri lontani e ignoti, sono fenomeno troppo tipico del nostro tempo per dovere essere illustrato e insieme tanto clamorosamente disumano da riportarci indietro alle epoche più barbare della storia. Dovrebbe aver colpito l'animo di tutti.

Ma torniamo al nostro mondo senza passaporto. La realtà di ieri è divenuta, dunque, favola, né vale dissimularlo. Vorremmo però che essa non si considerasse visione di utopia,, che restasse almeno come ideale. A nutrire nella coscienza l'aspirazione alla libertà di andare (col suo correlativo stare) e combattere l'assuefazione alla degradante condizione odierna che fa del nostro pianeta un insieme di plaghe inospiti col cartello »riserva di caccia .

 
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