di Angiolo BandinelliSOMMARIO. Rievoca la formazione culturale di Gandhi, "il rampollo di buona borghesia indiana" venuto a studiare legge in Inghilterra. In quegli anni Gandhi "faceva professione di razionalismo ed ateismo", e solo a Londra venne introdotto all'approfondimento della cultura indu, facendo presto giustizia dell'"idea, diffusa dai missionari, che l'induismo fosse zeppo di superstizioni". In quegli stessi ambienti dell'avanguardia inglese, Gandhi apprendeva i valori del socialismo utopico, del vegetarianesimo, della nonviolenza: una cultura viva e ricca, cioè, che venne di lì a poco sconfitta dalla nascita dei partiti "di classe", marxisti, ma che nutrì per decenni le avanguardie letterarie ed artistiche e riaffiorò poi, intatta, nel '68 "radical" e "liberal" dei campus universitari.
Se questo è il radicamento europeo del messaggio gandhiano, stupisce che l'"Unità" lo presenti, in alcuni articoli, in forme "ambigue e mortificanti" proprio mentre da altri segnali sembra invece che all'interno del PCI sia aperto un dibattito
sui temi della nonviolenza. In conclusione, secondo l'a.,la nonviolenza gandhiana e moderna, "liberale e libertaria, quindi socializzante e socialista"..."appare metodo e teoria adeguata a dare vita e corpo alle esigenze di libertà che si oppongono sia allo statalismo...sia all'economicismo" pseudoliberale di oggi.
(L'UNITA', 15 luglio 1988 - Ripubblicato in "IL RADICALE IMPUNITO - Diritti civili, Nonviolenza, Europa", Stampa Alternativa, 1990)
Fu Madame Blavatsky - veggente e autrice di trattati di teosofia che anche Eliot ricorda in "A Cooking Egg" - a togliere dalla testa di Gandhi "l'idea, diffusa dai missionari, che l'induismo fosse zeppo di superstizioni". La citazione è dello stesso Gandhi, il quale aveva conosciuto la Blavatsky a Londra durante il suo giovanile soggiorno di studio nella capitale dell'Impero. Non era ancora, ovviamente, il leader nonviolento del movimento nazionalista; era solo il rampollo di buona borghesia indiana venuto in Europa ad assorbirvi la cultura occidentale. Come molti coetanei di quegli ambienti, faceva professione di razionalismo e ateismo, ed era vegetariano solo per tradizione familiare indu.
A Londra, il giovane occidentalizzante venne introdotto ai valori culturali dell'induismo, al vegetarianesimo e alla nonviolenza programmatici. Questi ingredienti erano diffusi nella cultura di opposizione europea di fine secolo, e nutrivano gli incerti inizi del socialismo ancora utopico, non scientifico. Questa cultura esprimeva, in magma ribollente, idee futuribili e vaghe progettualità: vegetarianesimo e libero amore, antindustrialismo e nonviolenza, affrancamento del corpo e operaismo. Sconfitta sul momento (anche per l'avvento del socialismo "scientifico" e dei partiti operai), essa nutrì di sé per decenni, attraverso molteplici e ricchi canali sotterranei, tutte le esperienze dell'avanguardia letteraria e artistica, per riaffiorare in forme di massa, vitali e freschissime, nei "campus" americani dei primi anni '60: incunabulo del '68 radical e nonviolento, libertario e "figlio dei fiori" disprezzato e combattuto dall'altro '68, quello violento e "rivoluzionario", marxiano e infine brigatista.
Dire che la dialettica della libertà si sia mossa, per l'arco di quasi un secolo, su questi due soli binari sarebbe esagerato. Ma se oggi assistiamo ovunque al rigetto della progettualità rivoluzionaria violenta e a una rinnovata attenzione per il messaggio gandhiano, significa che in qualche modo la dialettica tra violenza e nonviolenza era movimento reale, storicamente faticoso e incerto ma non infondato.
Stupisce quindi la pagina dell' Unità (14 giugno 1988) tutta dedicata con due ampi articoli al pacifismo gandhiano, presentato però sotto forme ambigue e mortificanti. Tanto più quando invece, sempre su 1' Unità (8 giugno) avevamo letto un attento articolo di Giovanni Berlinguer, e su Rinascita almeno due interventi (Nicola Badaloni, 30 aprile; Michele Prospero, 14 maggio) di un dibattito dedicato alla "attualità della nonviolenza". Anzi, dall'articolo di Berlinguer apprendevamo che Pietro Folena aveva ripreso, "tra le linee che il Consiglio nazionale della Fgci consiglia a tutti i comunisti, il tema della nonviolenza". Questa oscillazione di atteggiamenti fa pensare che nel nome della nonviolenza gandhiana sia aperto, all'interno del Pci, un qualche dibattito (o contrasto?) di linea, di politica, o almeno di umori.
Da radicali ci auguriamo che il dibattito, se c'è, vada avanti; se non c'è, si apra. La questione merita più che non rievocazioni folkloristiche o ipocrisie riduttive. Accantonata la distorsione folkloristica, la nonviolenza gandhiana si viene infatti precisando come ideologia viva (o vivo ideale) di libertà del nostro tempo; un tempo insidiato, come vediamo ogni giorno e quasi in ogni paese, dalle forme totalizzanti (non solo totalitarie) assunte dal potere, forme contro le quali l'opposizione economicista non sa, troppo spesso, opporre valori universali e di immediata presa nel comune sentire e nelle aspirazioni del cittadino postmoderno.
La nonviolenza, così intimamente legata alla prassi della obiezione di coscienza (ma meglio sarebbe dire dell"'affermazione" di coscienza in quanto la coscienza, nella storicità del calogeriano dialogo, si afferma, è valore positivo) appare essere invece leva efficace per attivare il cittadino del nostro tempo che rifiuti l'accerchiamento totalizzante delle istituzioni all'esercizio delle libertà, con la richiesta incessante di diritto, di nuovo diritto, di diritti più articolati e aperti, per tutti e per ciascuno. E la nonviolenza è "arma" dei molti e del singolo, flessibile quanto poche altre forme di iniziativa e presenza civile e politica. Ad occidente come ad oriente: non si dimentichi che nonviolenta e di massa fu la resistenza cecoslovacca ai carri armati invasori, un momento tra i più alti nella storia delle libertà moderne.
Liberale e libertaria, quindi socializzante e socialista, la nonviolenza gandhiana e moderna (accolta anche dai neoliberali alla Rawls) appare metodo e teoria adeguata a dare vita e corpo alle esigenze di libertà che si oppongono sia allo statalismo (o gli statalismi) del "bene comune" sia all'economicismo, nella sua pretesa di identificarsi con tutta la tradizione e l'area liberale (o neoliberale). Nella necessaria comune ricerca di nuovi, più aperti rapporti tra cittadino e Stato che deve caratterizzare ogni sinistra, c'è da augurarsi che anche all'interno del Pci questi temi affiorino e si affermino in un grande, aperto dibattito.