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Ebert Theodor - 1 ottobre 1988
LA DIFESA POPOLARE NONVIOLENTA
di Theodor Ebert

SOMMARIO: La più radicale delle proposte in tema di disarmo è sicuramente costituita dalla "resistenza nonviolenta", e l'Autore, membro del comitato direttivo della Chiesa Evangelica di Berlino, da molti anni va studiando le possibilità offerte da questa proposta (proposta che, per molti versi, si situa assai vicino alla teoria che sostiene la "difesa difensiva"). Vengono qui analizzate le esperienze già fatte nella Seconda Guerra Mondiale e discusse le elaborazioni teoriche più importanti sull'argomento degli ultimi quarant'anni. C'è ancora molta strada da fare perché la difesa popolare nonviolenta divenga un complemento alla Difesa o una opzione oppure una alternativa radicale completa, ma gli studi specifici sulle esperienze già compiute ci danno una sorprendente lezione: in tempi di cambiamenti sociali essa emerge spesso, abbastanza inaspettatamente, come una necessità.

(Irdisp - Quale disarmo - Franco Angeli editore - Milano - ottobre 1988)

1. Argomenti tipici del dibattito sul disarmo

1.1. Tre posizioni d'attualità in un memorandum protestante

Il dibattito in corso in Europa sul problema del disarmo è caratterizzato da alcune argomentazioni tipiche ormai di vecchia data. Una importante esposizione di questi concetti di base è contenuta nel memorandum dal titolo: 'The Preservation, Promotion and Renewal of Peace' pubblicato dalla Chiesa Evangelica in Germania nel 1981. Tale memorandum descrive numerose iniziative di pace, soprattutto protestanti, che però rispecchiano la corrente principale del pensiero pacifista non solo in Germania, ma nell'Europa occidentale in genere. La sua importanza non risiede in ambiziose conclusioni ma, come è stato largamente riconosciuto, nel fornire una chiara descrizione di posizioni differenti, ma abbastanza caratteristiche, del pensiero pacifista e disarmista. Il memorandum, infatti, presenta tre filoni di pensiero.

In primo luogo c'è la 'protesta unilaterale' contro il riarmo, rappresentata dal movimento 'Living without Weapons'. Sorto nel 1978, esso trae la sua posizione di rifiuto incondizionato di qualunque arma o forza armata dal messaggio di pace biblico. 'Living without Weapons' rappresenta il punto di vista di molti obiettori di coscienza che sostengono la necessità di rischiare misure di disarmo unilaterale - in Germania ci sono circa 50.000 obiettori di coscienza ogni anno. 'Living without Weapons' prese la sua particolare ispirazione cristiana dal Concilio Mondiale delle Chiese del 1975 a Nairobi che raccoglieva firme per la seguente dichiarazione: "Voglio vivere senza la protezione degli armamenti militari. Mi impegnerò per uno sviluppo politico verso la pace senza armi nel nostro Stato".

In un brano tratto dal testo esplicativo si legge: "In vista della minaccia dell'autodistruzione militare, il particolare contributo politico dei singoli cristiani e delle chiese consiste nella disponibilità a rinunciare all'uso della forza in guerra" (1). 'Living without Weapons' rappresenta tipicamente il tradizionale approccio all'unilateralismo tramite 'testimonianze di pace individuali' (2).

La posizione opposta a questo approccio radicale è rappresentata dal gruppo 'Safeguards for Peace'. La loro posizione è molto simile all'atteggiamento assunto da molti governi nei confronti del disarmo: "Ogni Stato ha l'obbligo di proteggere, meglio che può, la vita e i diritti umani fondamentali dei suoi cittadini. Tale protezione è necessaria non solo rispetto alle azioni criminali interne, ma anche contro eventuali potenze straniere che minaccino militarmente la libertà e i diritti umani. Preservare e ripristinare la pace deve essere l'obiettivo principale. Se ciò richiede l'esistenza di difese militari sono disposto ad accettarle. Appoggio soprattutto ogni sforzo verso il disarmo che sia basato sull'equilibrio delle forze" (3). Questo gruppo, pur sostenendo che qualunque dottrina di 'guerra giusta' non sia più adatta alla situazione attuale, ritiene tuttavia che esista un dovere cristiano di fornire allo Stato gli strumenti di potere necessari "per prevenire atti di forza individuali o da parte di altri

Stati" (4).

Il terzo tipo di argomentazione è a metà strada fra l'approccio unilateralista e quello per l'equilibrio globale delle forze. Questa è la linea di un gruppo protestante-cattolico di intellettuali: 'Steps towards Disarmament'. Le idee di questo gruppo hanno influenzato molto numerosi altri gruppi di pace cristiani, organizzatori delle annuali 'Peace Weeks', di dimostrazioni di massa e delle cosiddette catene umane. La loro posizione ricalca il ben noto approccio gradualista elaborato da Charles Osgood, Amitai Etzioni 'et alii' nei primi anni sessanta (5). Il gruppo di lavoro 'Steps towards Disarmament' sostiene una 'strategia di disarmo graduale' con le seguenti caratteristiche: "La strategia gradualista ha inizio con passi unilaterali che mirano, comunque, a suscitare determinate reazioni dell'avversario, in mancanza delle quali essi decadono dopo un certo tempo. La strategia è basata sul mantenimento di una adeguata capacità deterrente - attualmente ancora nucleare - che deve essere abbastanza grande d

a costituire un rischio incalcolabile per un eventuale aggressore. Su questa base la strategia gradualista rinuncia all'equilibrio militare, partendo invece da misure unilaterali verso il disarmo attentamente progettate. La controparte deve essere debitamente informata e deve sapere che questi passi hanno lo scopo di dare una prova delle intenzioni puramente difensive delle proprie forze armate e del desiderio di comprensione e di distensione. Si richiede che l'altra parte intraprenda azioni simili, ma le misure unilaterali devono essere mantenute per un periodo considerevole, anche se inizialmente la risposta può essere insoddisfacente o non esserci affatto". Quella del gradualismo è una strategia prevalentemente psicologica con lo scopo di ridurre paure e sospetti reciproci.

Nessun paese o nessuna alleanza, si sostiene, potrà ignorare a lungo cambiamenti evidenti nella posizione dell'altra parte: "Il gradualismo, riassumendo, è una strategia di misure di disarmo unilaterali e calcolabili che mira a gettare le basi per più promettenti negoziati bilaterali" (6).

1.2. Due innovazioni: difesa sociale e difesa difensiva

Le tre posizioni caratteristiche precedentemente menzionate sono ben note già da un quarto di secolo o forse più. Durante questi anni ci sono state probabilmente solo due innovazioni nella strategia del disarmo e, secondo me, solo una di esse è realmente fondamentale. Quella fondamentale è la strategia della resistenza nonviolenta come difesa nazionale e l'altra è la difesa difensiva (incapacità strutturale di aggressione), cioè l'idea di sviluppare una forza militare difensiva non-nucleare strutturata in maniera tale da renderla incapace di aggressione. Questa capacità di difendersi senza annientare la propria popolazione e l'impossibilità di superare i propri confini devono essere evidenti al nemico (7).

Questo capitolo tratta principalmente della resistenza nonviolenta e non della difesa difensiva, anche se i sostenitori di entrambe le strategie fanno una analisi molto simile dei contrasti internazionali ed esprimono propositi analoghi. La mia preferenza per la resistenza nonviolenta è frutto di una lunga elaborazione ed è ancora in corso un ampio dibattito fra i proponenti della resistenza nonviolenta come difesa nazionale e i sostenitori della difesa difensiva. Nessuno può pretendere di essere convincente senza argomenti fondati e quindi, per evitare di dare l'impressione di essere superficialmente arbitrario, menzionerò qui alcuni dei motivi di questa mia preferenza.

La resistenza nonviolenta è preferibile da un punto di vista morale poiché non richiede addestramento militare allo scopo di uccidere degli esseri umani. Inoltre la perdita di vite umane in caso di difesa popolare nonviolenta sarebbe probabilmente minore rispetto a quello di difesa difensiva. E' pur vero che chi preferisce l'azione nonviolenta deve, comunque, ammettere che uccidere per autodifesa non costituisce per nessuno un problema religioso o morale. Inoltre non si può negare che è un incerto calcolo delle probabilità a stabilire che la resistenza nonviolenta farebbe meno vittime della difesa difensiva.

La resistenza nonviolenta è fondamentalmente diversa da ogni tipo di difesa militare. E' applicabile in stadi molto diversi dello sviluppo sociale ed economico, mentre l'efficacia della difesa dipende da determinati tipi di sviluppo tecnologico all'interno della stuttura militare di una nazione. Inoltre è sempre presente una tendenza conservatrice rispetto all'integrazione di elementi puramente difensivi nelle strategie tradizionali di equilibrio, o addirittura superiorità, militare - rinunciando, così, all'impatto strutturale verso un processo di disarmo.

Anche coloro che propongono la difesa difensiva hanno bisogno della resistenza nonviolenta come componente della loro strategia, cioè come seconda linea di difesa in un territorio occupato che non possa essere liberato dall'esercito per ragioni strutturali. Il modo migliore, comunque, di comprendere il potere della resistenza nonviolenta è probabilmente quello di esaminare situazioni in cui questa strategia mette in gioco tutte le sue potenzialità, quando cioè viene impiegata come prima linea di difesa.

Comunque, così come la vita reale è spesso un misto di differenti moventi e di diverse linee di azione, sarà uno dei compiti di questo saggio introduttivo quello di considerare la resistenza nonviolenta anche come una componente della difesa militare.

1.3. Resistenza nonviolenta: un messaggio o una opzione per i fautori del disarmo?'

Questa breve esposizione di argomentazioni indica già che l'interesse per la resistenza nonviolenta può scaturire da fondamentali ragioni morali, ma può anche nascere per motivi essenzialmente pratici per cui l'uso della resistenza nonviolenta non sarebbe che lo strumento con le maggiori probabilità di successo in una certa situazione. Le motivazioni morali hanno i loro meriti, ma presentano anche molte difficoltà. Ci sono molti sostenitori della resistenza nonviolenta in Europa occidentale che scelgono questa strategia per ragioni religiose; come esperto di questioni politiche non posso discutere qui la maggiore o minore forza di persuasione di tali ragioni. Dovrò usare un tipo di argomentazione completamente differente. Per esempio, nella tradizione mediorientale ed europea la domanda etica fondamentale fra ebrei, cristiani e musulmani è la seguente: cosa vuole Dio che io faccia (8)? Ogni religione e perfino ogni confessione religiosa ha un suo modo particolare di rispondere a tale domanda. Quando mi rivol

go a dei cristiani a volte cerco di usare un metodo teologico nella tradizione protestante e spero vivamente che risulti convincente, ma parlando a degli 'scienziati politici', di cui non conosco il credo religioso, lo scopo del mio saggio non può che essere alquanto limitato.

La resistenza nonviolenta verrà considerata come uno 'strumento per l'esercizio del potere'. Verrà data per scontata l'esistenza di persone disposte ad usare questo strumento, senza però chiedersi le motivazioni di queste persone a sopportare privazioni e sofferenze durante la resistenza nonviolenta ad un aggressore. Questa potrebbe essere una omissione cruciale poiché l'esistenza di qualche motivazione religiosa o di qualche ideologia simile potrebbe essere il prerequisito per resistere e raggiungere il successo politico. Nonostante tale possibile mancanza fondamentale questo capitolo sarà limitato, a beneficio di un metodo maneggevole, ad una discussione della resistenza nonviolenta come uno strumento, cioè una opzione che si può adattare, in un modo o nell'altro, a tutti gli approcci tradizionali al disarmo - quello unilaterale, quello multilaterale e quello gradualista. Se consideriamo la resistenza nonviolenta come uno strumento di potere del popolo e non come un nuovo, forse prossimo tipo di approccio

al disarmo, diventa possibile adattare questa filosofia di potere a tutti e tre i modelli tradizionali di disarmo. Dobbiamo però ricordare che i sostenitori di ognuno dei tre approcci temono che la resistenza nonviolenta sia un cavallo di Troia per infiltrare la filosofia politica di altre pericolose strategie di disarmo nella propria roccaforte di dottrina pura.

La resistenza nonviolenta offre una alternativa, ovvero una forma di difesa moralmente accettabile, agli 'unilateralisti' radicali, ma li obbliga ad ammettere che possono realmente esistere nemici aggressivi. Questo è un ostacolo per la sua approvazione poiché secondo la dottrina pacifista tradizionale non esistono nemici, cioè veri 'cattivi', ma solo 'Feindbilder', cioè presunti nemici (percepiti come tali in conseguenza della propaganda) con i quali ci si deve riconciliare tramite l'aumento dell'informazione e di tutte le nobili attività pacificatrici da parte di persone piene di buone intenzioni e tramite l'ostinata protesta contro ogni forma di militarismo, inclusa probabilmente la difesa popolare nonviolenta.

La preparazione della resistenza nonviolenta fornisce ai 'sostenitori del gradualismo' l'occasione per spingersi anche più avanti nel loro approccio unilaterale. Inoltre permette loro di ricorrere alla resistenza nonviolenta nel caso in cui un alleato militare sia a tal punto in disaccordo da intervenire militarmente all'interno della propria alleanza. Tuttavia la preparazione della resistenza nonviolenta coinvolge i gradualisti in una analisi critica della società che si suppone valga la pena di difendere. Questo sguardo critico alle condizioni sociali è in contrasto col noto fascino di una strategia psicologica che permette di cooperare con le buone intenzioni del governo senza indagare sulla integrità morale.

La resistenza nonviolenta per i 'multilateralisti' può essere un passo verso l'equilibrio delle forze in quanto dà allo Stato un altro mezzo per difendere i "diritti umani fondamentali dei suoi cittadini" come richiesto dai sostenitori di 'Safeguards for Peace'. Però nello sviluppare questa nuova componente della difesa questi fautori dell'equilibrio fra le potenze sono obbligati a riconoscere che in talune situazioni i metodi militari sono poco adatti o troppo costosi per difendere i diritti umani. La principale preoccupazione dei conservatori per quanto riguarda la resistenza nonviolenta, tuttavia, è quella che questo corso di azione potrebbe venire usato anche nell'ambito di proteste interne contro governi conservatori. Essi dovrebbero ammettere che quei metodi di disobbedienza civile tanto aborriti nei conflitti sociali interni, possono rivelarsi molto utili nella resistenza al dominio straniero.

Questa breve sinossi di argomenti tipici del dibattito sul disarmo suggerisce che la resistenza nonviolenta è allo stesso tempo una offerta e una provocazione per le filosofie disarmiste tradizionali. E' probabile che persone impegnate politicamente abbiano una inclinazione verso una delle tre categorie sopra menzionate. Per esempio la mia propensione, come obiettore di coscienza cristiano, è per 'Living without Weapons', ma da un punto di vista politico sarebbe un errore legare la resistenza nonviolenta in modo assoluto ed esclusivo all'unilateralismo radicale e al pacifismo. Una tale restrizione, combinata con la richiesta predicatoria di conversione al pacifismo cristiano potrebbe trattenere i gradualisti e i multilateralisti fautori dell'equilibrio delle forze dal dare una mano nello sviluppo di una certa capacità di resistenza nonviolenta nel futuro lontano o vicino.

Trattare la resistenza nonviolenta come una opzione della politica di sicurezza significa che i gradualisti e i multilateralisti non devono fare a meno né dei soldati, né delle armi che considerano ancora utili. Il punto è che gli aderenti a tutti e tre i tipi di approccio si accorderebbero per sviluppare un nuovo strumento - nonostante le differenze di valutazione sulla resistenza nonviolenta all'inizio della fase di ricerca e di addestramento. Gli unilateralisti possono vederla come una risposta a tutti i tipi di intervento violento, e i gradualisti la possono apprezzare come contrappeso alla riduzione di armamenti e coloro veramente spaventati da diabolici nemici possono essere soddisfatti di avere un mezzo aggiuntivo per difendere la libertà nel caso in cui la deterrenza fallisse e le popolazioni fossero ancora vive.

2. Schema per una innovazione fondamentale nel campo della difesa

2.1. Il macabro sfondo della ricerca

Da quando Stephen King-Hall nel 1957 criticò il Libro Bianco della Difesa britannico poiché non prendeva in considerazione alcun modo di difendere la popolazione (9), l'interrogativo sulla cosiddetta 'difesa' - che distrugge ciò che dovrebbe difendere - si è fatto via via sempre più fondato. Nel gennaio 1971 la Associazione degli Scienziati Tedeschi ha pubblicato i risultati del suo studio 'Conseguenze e prevenzione della guerra', che fornisce una stima dei possibili danni in caso di guerra. Da esso risulta che: "Se una grande potenza nemica tentasse, facendo uso di armi nucleari, di occupare la Repubblica federale tedesca, essa in quanto vitale società industriale ne risulterebbe necessariamente annientata, anche nel caso in cui tale annientamento non fosse voluto dall'invasore" (10).

Il risultato di questo lungo studio non è sorprendente. Sebbene generalmente i tedeschi non vengano messi al corrente delle vittime civili simulate nelle manovre annuali della NATO, dai nomi molto promettenti come 'Confident Enterprise' (impresa di fiducia) oppure 'Trutzige Sachsen' (Sassoni arditi), qualcosa è trapelato nel 1962. Il settimanale 'Der Spiegel' informò i tedeschi che dieci milioni di esseri umani sarebbero stati uccisi nell'arco di una settimana durante l'esercitazione 'Fallex 62', probabilmente conclusasi con una vittoria.

Informazioni di questo tipo e speculazioni sulle conseguenze di altre "imprese di fiducia" - incluso un addestramento dei soldati americani nel 1983 a scavare fosse comuni con i bulldozer - sono alla base dell'interrogativo posto per la prima volta da King-Hall: perché non preparare la popolazione e il governo alla resistenza nonviolenta all'occupazione? Tali preparativi e la formazione di una comunità sociale trasnazionale di difesa nonviolenta potrebbero avere un effetto dissuasivo su un potenziale aggressore? Il transarmo alla resistenza nonviolenta non aumenterebbe le probabilità di successo della strategia politica della distensione?

2.2. Limiti del dibattito pubblico per una strategia alternativa

I tentativi di rispondere a questa e ad altre domande simili si iniziarono a livello accademico nel 1964 con la 'Civilian Defence Study Conference' a Oxford, in Gran Bretagna (11). E' difficile riassumere brevemente venti anni di sforzi, nonostante i quali la difesa popolare nonviolenta, finché non verrà messa in pratica coscientemente da una nazione, rimarrà sempre un concetto non pienamente sviluppato. Il problema principale per un dibattito pubblico serio è il seguente: il concetto di resistenza nonviolenta è una invenzione sociale di vaste dimensioni e deve essere studiato attentamente per poter essere realmente compreso. Si devono apprendere molte informazioni sulle politiche di azione nonviolenta (12). La maggior parte delle valutazioni e delle critiche di questa invenzione sociale sono, comunque, basate su studi alquanto superficiali che cercano di fomentare i pregiudizi sia in favore che contro tale opzione.

In realtà una persona intelligente dei giorni nostri, dopo un breve sguardo a questo concetto, può sollevare serie obiezioni alla resistenza nonviolenta. Ma la assurda situazione attuale è questa: i ricercatori che si occupano di difesa popolare nonviolenta conoscono tali obiezioni. Se ne sono occupati in molti saggi o studi specifici in modo diretto o indiretto. Essi hanno trovato risposte adeguate o preliminari a queste obiezioni e hanno posto essi stessi delle domande, richiedendo ulteriori ricerche ed esperimenti pratici. La situazione generale, tuttavia, è caratterizzata da un comportamento sconveniente: i critici generalmente non sono interessati alle risposte alle loro obiezioni, e molto spesso non lo sono neanche i simpatizzanti. Così si ha una piccola comunità di esperti di difesa popolare nonviolenta abbastanza bene informati sparsi in tutta Europa e nel nord America (ce ne sono alcuni anche in Australia, in India e in Giappone), ma non c'è un vero e proprio dibattito.

Mi vengo a trovare sempre di fronte allo stesso problema: mi si chiede un saggio o un discorso introduttivo alla resistenza nonviolenta come forma di difesa nazionale - sia a sé stante che come componente di essa. Queste introduzioni vengono spesso seguite da una discussione sui principi dell'azione nonviolenta e su qualche esperienza storica. Tutto questo va bene, ma non è abbastanza. Ciò che necessariamente dovrebbe seguire sarebbe un attento studio di questo concetto. La maggior parte degli studenti di scienze politiche sarebbe d'accordo sul fatto che per poter capire argomenti come commercio mondiale, assistenza sanitaria, educazione pubblica o strategia della guerriglia bisogna leggere numerosi libri e articoli, seguire seminari e lezioni e fare qualche esperienza pratica. Questo vale anche per la difesa popolare nonviolenta. Si tratta di un argomento molto vasto poiché riguarda le funzioni dell'intera società in tempo di crisi, cioè durante l'intervento di forze armate nel processo democratico.

Rendendosi conto della vastità di questo tema i ricercatori hanno tentato, e stanno ancora tentando, di raccogliere le informazioni necessarie in libri e articoli (13) e giornali specifici come 'Gewaltfreie Aktion' (14), 'Alternatives Nonviolentes' (15), 'Non-violence Politique' (16) e 'Azione Nonviolenta' (17). Queste sono le cose da studiare.

Sebbene non esistano scorciatoie per la comprensione della resistenza nonviolenta, cercherò tuttavia di dare qualche informazione fondamentale esaminando l'evoluzione della ricerca sulla difesa popolare nonviolenta e alcuni dei punti focali del dibattito politico attuale nella Repubblica federale tedesca.

2.3. Terminologia e definizione

Fin dalla 'Civilian Defence Study Conference' del 1964 a Oxford i ricercatori pacifisti europei e americani hanno cercato di sviluppare un concetto di difesa che combini disarmo unilaterale (graduale o completo) con un nuovo tipo di preparazione alla difesa popolare.

L'idea di base è che tramite la resistenza nonviolenta dei civili si possano difendere la struttura sociale e i diritti umani di un popolo contro una aggressione straniera o un colpo di Stato. Inoltre ci si aspetta che i preparativi abbiano un effetto dissuasivo sul potenziale aggressore.

Questo concetto ha avuto diversi nomi, che esprimono però sempre lo stesso contenuto. E' stato chiamato "difesa popolare pacifista" nei Paesi Bassi prima della seconda guerra mondiale; "difesa nonviolenta" e "difesa non-militare" da Gandhi e dai gruppi pacifisti europei durante e immediatamente dopo la seconda guerra mondiale; "difesa civile" e "difesa basata sui civili" in Gran Bretagna e negli Stati Uniti; "difesa sociale" in Germania, Austria, Svizzera e Olanda dal 1968; e "difesa nonviolenta" o "difesa popolare nonviolenta" in Francia e in Italia pressappoco dal 1980.

Questi termini danno risalto o ai mezzi o ai protagonisti della difesa oppure concentrano l'attenzione sui nuovi campi di battaglia. Il nome "difesa sociale" è stato preferito nei paesi di lingua tedesca in quanto trasmette l'idea che la libertà non si deve più difendere davanti o dietro ai confini contendendosi metri quadrati di territorio; esso evidenzia l'intenzione di difendere le linee dei processi decisionali democratici, sottolineando il fatto che il campo di battaglia della difesa sociale sono le strutture sociali di un paese.

Alla conferenza internazionale sulle 'Strategie di Difesa Popolare Nonviolenta' tenutasi a Strasburgo nel dicembre 1985, fu largamente approvata la seguente definizione - proposta da Gene Sharp, direttore del 'programma sulle sanzioni nonviolente' all'Università di Harvard (Massachusetts, USA) e pioniere della ricerca in questo campo - di difesa popolare nonviolenta:

"Nella difesa popolare nonviolenta l'intera popolazione e le istituzioni della società divengono le forze combattenti come conseguenza di una precedente decisione e col beneficio di preparazioni e addestramenti. Questo tipo di politica è stata progettata come difesa sia contro usurpazioni interne - colpi di Stato o altro - che contro invasioni militari convenzionali straniere. Le armi dei difensori civili consistono di una vasta gamma di forme di resistenza e di contrattacco psicologiche, economiche, sociali e politiche. Fra queste, ad esempio, non-cooperazione politica, scioperi, boicottaggi economici, governi paralleli, infrazioni pubbliche, dimostrazioni di massa, sovversione delle truppe occupanti e supporto di sanzioni economiche e politiche internazionali.

La difesa popolare nonviolenta ha come scopo quello di deterrere e di difendere dagli attacchi tramite preparativi atti a rendere la società ingovernabile da parte di potenziali tiranni interni e aggressori stranieri. La popolazione, addestrata a tal fine, e le istituzioni sociali sarebbero preparate ad impedire agli attaccanti il conseguimento dei loro obiettivi e a rendere impossibile il consolidarsi del controllo politico. Tutto ciò verrebbe utilizzato applicando una non-cooperazione e una resistenza capillare e di massa. Inoltre, quando possibile, il paese difensore cercherebbe di creare il maggior numero possibile di problemi internazionali agli invasori e di sovvertire la fidatezza delle loro truppe e dei loro funzionari.

L'obiettivo principale della difesa popolare nonviolenta è quello di prevenire possibili attaccanti interni e stranieri dall'intraprendere qualunque azione ostile. Verrebbero utilizzati vari mezzi, alcuni direttamente associati con la capacità difensiva, altri no. Per esempio, l'adozione di una politica di difesa cui manchi la capacità di un attacco militare eliminerebbe un motivo per un attacco preventivo da parte di paesi vicini che temano essi stessi di essere aggrediti. La probabilità di un attacco può essere ridotta o eliminata anche da una politica estera e interna che promuova la comprensione, il rispetto e la buona volontà.

Tuttavia, alcuni regimi o gruppi potrebbero essere insensibili a tali cambiamenti e potrebbero addirittura interpretarli come debolezze che inviterebbero all'invasione o alla presa di potere interna. Né l'assenza di provocazioni, né la neutralità possono garantire la sicurezza contro attacchi stranieri. Quindi, oltre ad altri mezzi di dissuasione, è necessaria anche qualche forma di capacità di deterrenza" (18).

2.4. Lezioni dalla storia: approccio legislativo o casistico alla resistenza?

La descrizione generale di Sharp della difesa popolare nonviolenta è basata su un'ampia valutazione di casi storici. Per comprendere la difesa popolare nonviolenta è quindi importante conoscere la differenza tra le lotte 'improvvisate' del passato e le forme di difesa civile 'preparate'. Sebbene esistano già molte presentazioni dell'esperienza passata e delle strategie previste, può essere comunque utile fare un profilo del dibattito provocato da interpretazioni differenti di queste lezioni storiche.

La resistenza durante la seconda guerra mondiale ha offerto degli stimoli importanti per delineare la strategia della difesa popolare nonviolenta. Le azioni più significative sembrarono quelle in Norvegia, Danimarca e Olanda, poiché in tali casi la percentuale di azioni nonviolente fu più alta. Comparando l'effetto di azioni di resistenza violente e nonviolente si è trovato che una resistenza esclusivamente nonviolenta sembra essere la più adatta per indurre la potenza occupante a fare concessioni. Ovviamente la resistenza sarebbe potuta essere ancora più efficace se fosse stata preparata in tempo di pace. A prima vista si può avere l'impressione che valga la formula: difesa civile uguale resistenza meno metodi violenti, più preparazione in tempo di pace.

La ricerca nel campo della difesa popolare nonviolenta, comunque, è stata influenzata via via sempre meno dalla storia. E' divenuto chiaro che la strategia della difesa popolare nonviolenta è molto diversa da quella della resistenza, con la quale essa ha in comune esclusivamente l'amore per la libertà e alcune tecniche di lotta. Nella maggior parte dei casi la resistenza non si iniziò appena le truppe nemiche valicarono i confini, ma solo dopo la capitolazione dell'esercito e la stipulazione di un accordo con la potenza occupante in relazione al diritto internazionale. Dove non venne raggiunto un tale accordo e continuò lo stato di guerra, la maggioranza della popolazione nei territori occupati trovò naturale che l'invasore reclamasse i diritti che gli spettavano secondo la Convenzione dell'Aia sulla guerra terrestre per l''occupatio bellica' (19). La resistenza contro la potenza occupante aveva uno scopo limitato: essa cercava o di dare sostegno agli sforzi militari degli alleati, o di prevenire violazioni

alla Convenzione dell'Aia sulla guerra terrestre da parte dell'invasore. La resistenza nonviolenta durante la seconda guerra mondiale non si considerò mai un movimento di per sé in grado di costringere il nemico alla ritirata. Esclusi gli scioperi popolari in Olanda (20) e in Danimarca, la resistenza ebbe carattere intermittente e, nella maggior parte dei casi, cominciò solo molto tempo dopo l'occupazione del paese, a volte solo nel momento in cui le possibilità di vittoria degli alleati risultarono evidenti.

A differenza della resistenza, la strategia della difesa popolare nonviolenta prevede che la lotta cominci nel momento stesso dell'attacco armato. Che cosa sia la difesa popolare nonviolenta in relazione al diritto internazionale non è ancora molto chiaro. La premessa del diritto internazionale tradizionale è che i territori occupati per mezzo di una guerra o di confronti armati siano anche, di fatto, territori sottomessi. Nella Convenzione dell'Aia del 1907 sulla guerra terrestre si legge: "Un territorio è considerato occupato quando di fatto è posto sotto il controllo dell'esercito nemico. L'occupazione si estende solo a quei territori dove tale autorità sia stata stabilita e venga esercitata". Il punto controverso del diritto internazionale è fin dove arrivi il dovere di obbedienza degli abitanti; in generale si suppone che l'occupazione militare istituisca per la popolazione un dovere di obbedienza, ma non un dovere di fedeltà (21). Il presupposto della difesa popolare nonviolenta è che il dovere di obbe

dire all'occupante non esista, ma, al contrario, continuino a valere i doveri di fedeltà al governo legittimo e legale in vigore fino a quel momento. Il passaggio ad una difesa che utilizzi mezzi nonviolenti ha come conseguenza che con l'occupazione nulla è ancora deciso quanto ai reali rapporti di potere; anzi la lotta è solo all'inizio.

I movimenti di resistenza durante la seconda guerra mondiale si organizzarono all'interno, o meglio, sotto il nuovo sistema di potere dell'occupante; la difesa popolare nonviolenta, contrariamente, organizza la resistenza a partire dal legittimo sistema nazionale esistente cercando di prevenire la formazione di un nuovo sistema di potere usurpatore fin dall'inizio. Nei territori occupati dalle truppe tedesche e dai funzionari nazisti, i funzionari locali patriottici non sapevano mai con precisione quando dovevano opporsi e quando era il caso di cooperare con i tedeschi allo scopo di 'evitare il peggio' (22).

In caso di difesa popolare nonviolenta, invece, i doveri sono ben definiti. La Costituzione e le leggi, in quanto espressione codificata dell'ordine sociale, devono essere difese; la base della difesa è quindi il punto di vista costituzionale. Gli usurpatori o gli occupanti devono essere considerati come privati cittadini o stranieri che non hanno legittimità per esercitare il potere e i loro ordini devono essere ignorati in quanto illegali. Ogni deputato, ministro, funzionario o semplice cittadino in caso di colpo di Stato o di occupazione diventa automaticamente, senza bisogno di ulteriore mobilitazione e sulla base della Costituzione, un soldato giurato di guardia nel suo posto di lavoro. La sua scrivania o i suoi strumenti di lavoro sono la sua trincea, che egli deve difendere a costo della vita. La regola generale è: nessuno si nasconda, nessuno si dimetta, ognuno rimanga al suo posto normale e faccia il proprio dovere secondo le leggi e la tradizione del suo paese.

Questa concezione legalista della difesa popolare nonviolenta è diversa da quella di Arne Naess (23) e Stephen King-Hall (24) che si avvicina più alla resistenza. Per entrambi gli autori il punto fondamentale è la difesa del tradizionale modo di vita libero; entrambi, comunque, non rifiutano completamente qualunque collaborazione con l'occupante. King-Hall è dell'opinione che, ogni qual volta sia in gioco la sopravvivenza fisica della gente, si debba cooperare con le autorità occupanti, ma che l'obbedienza debba essere rifiutata nelle questioni di principio. Egli polemizza con il lavoro di Jessie Wallace Hughan (25) dove è esposta, in forma piuttosto rozza, la concezione legalista della difesa popolare nonviolenta.

Secondo Jessie W. Hughan sembra che la difesa popolare nonviolenta si debba rapidamente irrigidire in uno sciopero generale e nella dimissione di massa dei funzionari. King-Hall liquida l'intero concetto di resistenza legalista assoluta paragonandolo ad un 'sit-in' ed a uno sciopero della fame della nazione (26). Tali allusioni, però, distolgono dal rendersi conto delle opportunità che offre una completa non-collaborazione attuata fin dall'inizio.

Il giudizio sulle possibilità di successo della concezione legalista o di quella casista di King-Hall dipende dalle risposte che si danno a due domande: primo, con la concezione di difesa casista è possibile una distinzione netta tra non-cooperazione nel caso di questioni politiche di principio e collaborazione nei casi in cui è in gioco la sopravvivenza fisica? Secondo, la concezione legalista permette una strategia flessibile e la possibilità di superare una crisi economica e politica con una azione energica?

Fino a che la posizione casistica non sia stata elaborata più dettagliatamente non si potrà rispondere semplicemente sì o no alla prima domanda. Le maggiori difficoltà per i 'casisti', come per semplicità li chiamerò qui, sembrano tuttavia scaturire dal fatto che essi permettono all'usurpatore di avere voce in capitolo in alcuni settori della vita nazionale e sociale, lasciandogli quindi la possibilità di costruire delle teste di ponte politiche. Di conseguenza i 'casisti' accollano all'individuo una grande responsabilità lasciandolo sempre decidere da solo se collaborare o no con l'occupante nelle situazioni specifiche. Se c'è un vasto spettro di giudizio e se non si possono stabilire con successo delle direttive precise, questo tipo di resistenza rischia di disintegrarsi durante il processo di compromesso con la potenza occupante. L'individuo preferisce avere il supporto della resistenza delle masse e preferisce avere un programma di resistenza stabilito, anche se rigido; se vengono a mancare direttive pre

cise ognuno inizierà a sbirciare il proprio vicino e, se quello non rischia molto, cercherà per sé e per la propria famiglia dei riguardi particolari, giustificando certamente tutto ciò con scuse razionali basate sul bene pubblico.

La storia dell'occupazione tedesca in Olanda durante la seconda guerra mondiale offre esempi tipici dell'effetto insoddisfacente dell'approccio casista. Nel 1937 il governo olandese emise delle direttive per i funzionari nel caso di una occupazione, le cosiddette 'Direttive del 1937'. Esse erano basate sull'ipotesi che la potenza occupante avrebbe aderito alla Convenzione dell'Aia sulla guerra terrestre. In tali direttive si richiedeva ai funzionari di continuare il loro servizio fino a che questo avesse giovato al benessere del paese. Se avessero avuto l'impressione che il loro lavoro risultava di maggiore vantaggio alla macchina bellica del nemico che alla popolazione del loro paese, avrebbero dovuto dimettersi.

Come l'esperienza ci ha insegnato, queste vaghe direttive casiste non riuscirono ad impedire che la maggior parte dei funzionari collaborasse. Nel maggio 1943 la stampa clandestina pubblicò un Commento alle 'Direttive del 1937' che - basato anch'esso sulla Convenzione dell'Aia sulla guerra terrestre - adottò un punto di vista legalista chiamando i funzionari alla disobbedienza civile contro gli ordini 'illegali' tedeschi. Werner Warmbrunn, lo storico della resistenza olandese, scrive a proposito di questo Commento: "L'ipotesi era che le autorità tedesche non potessero licenziare tutti i funzionari che praticavano la resistenza passiva. Il Commento dichiarava che era inaccettabile collaborare con le seguenti attività: la requisizione di materie prime e merci oltre i bisogni dei soldati occupanti, il trasferimento di forza lavoro in Germania, il reclutamento di olandesi per l'esercito tedesco, la presa in ostaggio, gli arresti politici e la deportazione di cittadini olandesi. Il Commento sottolineava che il go

verno in esilio rimaneva il governo legale d'Olanda e ricordava ai funzionari che essi erano responsabili individualmente delle loro azioni e avrebbero dovuto renderne conto legalmente dopo la liberazione" (27).

Nell'ottobre 1943 il governo in esilio a Londra fece proprio questo Commento della stampa clandestina e lo dichiarò vincolante. Questa tardiva presa di posizione non poteva porre fine alla collaborazione su vasta scala dei funzionari olandesi, ma può servire come indicazione che la strategia della difesa popolare nonviolenta richiede una concezione che impedisca la cooperazione con l'aggressore fin dall'inizio.

I legalisti, dunque, partono dalla considerazione che l'usurpatore cercherà di occupare i più elevati posti di comando allo scopo di prendere il potere e trasmetterlo dall'alto verso il basso. I difensori devono inoltre assumere che anche i golpisti o gli invasori faranno dei preparativi prima di prendere il potere e costituiranno una burocrazia ombra in vista dell'usurpazione (28). Nella strategia legalista di proseguimento dinamico del lavoro senza collaborazione si assume che gli usurpatori abbiano solo una limitata riserva di personale qualificato a disposizione per occupare tutti i posti direttivi che richiedono preparazione più lunga e maggiori capacità intellettuali; tale burocrazia ombra potrebbe dall'inizio essere alquanto limitata dalla scarsa conoscenza della lingua.

Dopo l'occupazione dell'Olanda da parte dell'esercito tedesco, l'alto commissario Arthur Seyss-Inquart, che sostituì dopo qualche settimana l'amministrazione militare tedesca, dipendeva dalla collaborazione degli amministratori locali delle province olandesi. Non avrebbe potuto sostituirli con membri del Movimento nazionalsocialista olandese (NSB) poiché tale gruppo mancava di personale qualificato (29). Lo stesso valeva per i sindaci delle città. Seyss-Inquart infatti riuscì - e questo è comprensibile in relazione al contesto storico - ad indurre la maggior parte dei segretari generali delle province e dei sindaci delle città a collaborare; in tal modo guadagnò tempo e poté in seguito sostituirli uno ad uno con olandesi che avevano adottato con fervore l'ideologia nazista.

2.5. Effetto della disobbedienza costruttiva

Se, in accordo con la concezione legalista, le istituzioni dello Stato ignorano gli ordini dell'usurpatore illegale, quest'ultimo si trova di fronte ad un dilemma. Da una parte non dovrebbe essere in grado di occupare tutti i posti più importanti con i propri uomini e dall'altra non può permettere, per questioni di prestigio, che i suoi pochi uomini sistemati con la forza in posti di comando siano ignorati dai loro presunti subalterni. Affrontando tale dilemma l'usurpatore ha due possibilità: o rinuncia a rivendicare il potere, come fece Wolfgang Kapp pochi giorni dopo il suo colpo di Stato del 13 marzo 1920, che pure ebbe successo dal punto di vista militare, oppure cerca di ottenere rispetto tramite l'impiego di misure intimidatorie draconiane. Hermann Ehrhardt, capo del corpo di volontari che sosteneva Kapp, voleva piegare lo sciopero generale ordinando di fucilare i leader dei sindacati e di sparare sui picchetti. Ma gli altri insorgenti non gli fecero applicare queste misure. Molti anni dopo uno dei suo

i uomini dichiarò in retrospettiva: "Sarebbe andato tutto bene se solo avessimo fucilato più gente" (30).

Allo scopo di sviluppare il concetto di difesa popolare nonviolenta si deve assumere da una parte che l'usurpatore non abbia gli scrupoli dei kappisti, ma che tenti di costringere alla collaborazione impiegando misure intimidatorie e, dall'altra, che i difensori civili legalisti cerchino di tenere duro nella loro posizione a rischio della vita e di avere la meglio sui collaboratori dell'autorità usurpatrice. Ci si chiede: tutto questo porterebbe veramente al collasso totale dell'amministrazione e metterebbe davvero a repentaglio la sopravvivenza fisica dell'intera nazione, come teme King-Hall? La situazione che ne scaturirebbe obbligherebbe davvero l'amministrazione e il mondo economico a collaborare con gli usurpatori?

Una tale prova di forza deteriorerebbe sicuramente il normale corso amministrativo e la vita economica e culturale, ma non è detto che la totale non-cooperazione con l'usurpatore porti necessariamente alla completa paralisi di tali istituzioni. Il proseguimento dinamico del lavoro senza collaborazione implica che ognuno rimanga al suo usuale posto di lavoro per cercare di risolvere problemi nuovi nell'ambito delle leggi e dei regolamenti normalmente in vigore. Un licenziamento o una serrata da parte dell'usurpatore devono essere ignorati e ognuno deve tornare sul proprio posto di lavoro fino a che questo non venga impedito a tutti con continuità tramite la violenza. Se qualcuno viene cacciato un successore designato oppure un neo-eletto o addirittura un gruppo di sostituti prenderà il suo posto. Le persone nominate dall'usurpatore verranno ignorate, o meglio trattate come privati cittadini.

Un caratteristico esempio dell'impotenza dell'usurpatore è rappresentato dalla storia del proclama del colpo di Stato di Kapp. Quando volle scriverla scoprì qualcosa di veramente sorprendente: "Poiché nessun impiegato della Cancelleria era venuto al lavoro, non si poté trovare né una dattilografa né una macchina da scrivere. Il dottor Kapp deve di certo aver riflettuto amaramente sulla cattiva sorte che perseguita i grandi. Alla fine si ricordò che sua figlia durante la guerra aveva seguito un corso di dattilografia e la mandò a chiamare. Dopo ulteriori ritardi si trovò anche una macchina da scrivere e il capo dello Stato si dedicò alla composizione letteraria. Sfortunatamente quando il proclama fu ultimato era ormai troppo tardi per poterlo pubblicare sui giornali della domenica. Per tutto il fine settimana la popolazione di Berlino non ricevette alcuna notizia ufficiale da parte degli uomini che si erano autoproclamati padroni del destino tedesco" (31).

Nel caso della strategia del proseguimento del lavoro senza collaborazione la dattilografa si sarebbe presentata al lavoro, ma si sarebbe categoricamente rifiutata di scrivere anche una sola riga per l'usurpatore. Questa tecnica di resistenza sul posto di lavoro potrebbe anche essere chiamata 'work-in' o 'work-on' - in analogia ai 'sit-in' del movimento per i diritti civili americano (32). Essa creerebbe agli usurpatori più difficoltà tecniche e psicologiche di uno sciopero o di dimissioni volontarie che, in entrambi i casi, lascerebbero senza attriti né scontri il posto libero ai collaborazionisti, ammesso che ce ne sia un numero sufficiente con la necessaria preparazione (33). Secondo questo punto di vista, per esempio, in Palestina gli arabi, rifugiandosi in un territorio non occupato, commisero un grosso errore.

King-Hall ha criticato le proposte di Jessie Wallace Hughan come essenzialmente 'negative', in quanto il loro unico scopo è quello di rendere difficile l'occupazione al nemico, senza sfruttare pienamente tutte le possibilità di una influenza ideologica. "L'obiettivo della resistenza nonviolenta deve essere quello di rendere l'occupazione pericolosa per il nemico" (34). Cosa ci può essere, comunque, di più pericoloso per l'usurpatore di cercare di ottenere l'obbedienza nei singoli posti di lavoro con mezzi apertamente coercitivi? Dovrebbe dividere le sue truppe e il suo personale civile in piccoli gruppi da mandare nella giungla della resistenza. Non dovrebbe forse aspettarsi che i suoi forzati seguaci vengano impressionati dalle motivazioni e dall'atteggiamento dei difensori con cui, ora, avranno dialoghi personali? Come potrebbe iniziare un tale colloquio lo scrive nelle sue memorie Arnold Brecht, che al tempo del colpo di Stato di Kapp era consigliere governativo nella Cancelleria: "Un civile accompagnato

da due soldati armati di granate entrò nella mia stanza venendo dall'ufficio. Mi chiese: 'Sei pronto a lavorare per il Cancelliere?' Rispondo: 'Lo faccio già'. Lui mi guarda minacciosamente: 'Non sto parlando del Cancelliere precedente, ma del Cancelliere Kapp'. 'Conosco solo il Cancelliere Bauer'. 'E' stato destituito'. E io: 'Secondo la costituzione è lui l'unico Cancelliere. Ho prestato giuramento alla costituzione e non maneggio questo giuramento come i vostri uomini maneggiano le loro granate'" (35).

Nell'agosto 1968 in Cecoslovacchia gli occupanti furono in grado di tenere sotto controllo la maggior parte delle loro truppe, accampate in contingenti chiusi all'esterno delle città. Le prime conversazioni ebbero luogo tra cecoslovacchi a piedi e soldati sui carri armati. Cosa sarebbe successo al morale delle truppe se i russi, i polacchi, i tedeschi, i bulgari e gli ungheresi avessero lasciato i loro veicoli e fossero dovuti andare ad arrestare la gente nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole e nelle università venendo nello stesso tempo coinvolti nelle discussioni?

L'efficacia della strategia del proseguimento dinamico del lavoro senza collaborazione si basa su questo pericolo ideologico per gli occupanti e sui costi materiali che derivano dal dover sottrarre alla propria amministrazione e alla propria economia dei civili qualificati (36). Per preparare la difesa popolare nonviolenta bisogna prima di tutto esercitarsi a un comportamento normale in circostanze anormali.

2.6. Fallimento dell'effetto deterrente e proseguimento della lotta'

L'effetto deterrente della difesa popolare nonviolenta dipende dalla credibilità della non-cooperazione ad ogni livello del processo democratico - ed è importante fare in modo che questa completa non-collaborazione duri per un tempo abbastanza lungo da permettere alla pressione internazionale sull'invasore di svilupparsi. Suppongo che ci vorrebbero numerose settimane prima che essa raggiunga il suo apice.

Se si riesce a convincere il potenziale aggressore che per avere il controllo di un paese sarà obbligato ad arrestare non solamente qualche migliaio di funzionari, ma dovrà arrestare e sostituire centinaia di migliaia di persone determinate a resistere, egli si asterrà da un tale esperimento. Ma il problema è che egli può supporre di ottenere una rapida vittoria tramite una brutale repressione iniziale - oppure si può illudere sulla base di qualche altra speranza o malinteso. Di conseguenza la funzione dissuasiva e deterrente della difesa popolare nonviolenta può fallire. Ciò è possibile, ed è anche possibile che l'aggressore riesca ad intimidire i difensori e a controllare l'apparato governativo, come fanno Husak in Cecoslovacchia e Jaruzelski in Polonia. Ma, nel caso di difesa popolare nonviolenta organizzata, l'installazione di un gruppo dirigente in qualche posto di comando ad alto livello nello Stato non significa la fine della difesa civile. E' prevista una seconda fase che in qualche modo potrebbe ess

ere simile alla resistenza norvegese e danese durante la seconda guerra mondiale o alla attuale resistenza dei simpatizzanti di Solidarnosc in Polonia. La resistenza può essere concentrata in certi gruppi sociali o associazioni, oppure può essere concentrata in una particolare zona del paese o in alcune città.

Se la resistenza di questi focolai sociali ha successo, può prendere piede la speranza di una generale liberazione. Quindi la fine di questa seconda fase potrebbe essere una insurrezione nonviolenta che abbia inizio con azioni dirette, tipiche dei conflitti interni contro regimi autoritari, come ad esempio boicottaggi, scioperi, manifestazioni di piazza e infine l'installazione di un legittimo corpo democratico. Il successo di una tale insurrezione nonviolenta dipenderà molto dalle condizioni internazionali e non posso, quindi, fare generalizzazioni sul percorso da seguire per la riconquista della democrazia. Il punto principale di questi commenti conclusivi è: fino a che un popolo oppresso è vivo e finché c'è qualche resistenza, non esiste sconfitta definitiva per la difesa popolare nonviolenta, ma c'è sempre la speranza di riconquistare infine la libertà. Onestamente, rispetto a quella attuale, questa prospettiva è tutta un'altra cosa per un europeo, abituato ad essere minacciato da qualche generale dell'e

st o dell'ovest che promette l'esistenza di qualcosa che può essere definito una 'vittoria' in una guerra militare moderna.

Rimane il problema psicologico e politico rappresentato dal fatto che la maggioranza della gente ancora considera stabile l'attuale sistema di mutua distruzione assicurata. Essi credono di poterne sopportare i costi e hanno paura dei rischi di un cambiamento verso la strategia della difesa popolare nonviolenta. Non appena verranno riconsiderati attentamente i rischi e il concetto stesso di stabilità, ci sarà anche un nuovo interesse e persino entusiasmo per la difesa popolare nonviolenta. Per ora dobbiamo fare del nostro meglio per prepararci a questa nuova valutazione della politica di difesa.

3. Problemi ed opportunità del transarmo

3.1. Identificazione dei pericoli incombenti

La ricerca sulla difesa popolare nonviolenta è stata iniziata da persone totalmente insoddisfatte della corsa agli armamenti che cercavano una alternativa radicale. Il risultato di questo approccio è stato il concetto di resistenza puramente nonviolenta che risulta promettente in molti, e con buone speranze in tutti, i prevedibili casi di conflitto. Così la difesa popolare nonviolenta è divenuta la linea favorita del pensiero strategico pacifista tra gli obiettori di coscienza tedeschi e tra i simpatizzanti dei Verdi.

Ma come può quella che, almeno per ora, è una minoranza, mettere in pratica o per lo meno iniziare a realizzare un tale concetto? Già durante le prime conferenze internazionali sulla difesa popolare nonviolenta a Oxford nel 1964 e a Uppsala nel 1969 ci furono sostanziali dibattiti sulle possibilità di mischiare difesa militare e difesa civile rispettivamente integrando la difesa militare con alcuni elementi di azione nonviolenta. Il filo del ragionamento durante tali dibattiti è facile da seguire. I puristi puntano alla maggiore efficacia della nonviolenza da sola e i fautori dell'unione tra difesa militare e civile ricordano che è molto poco probabile che la corsa agli armamenti smetta da un giorno all'altro. I primi temono che il loro concetto venga alterato o persino snaturato; i secondi puntano ad una svolta facendo progredire la ricerca e realizzandola gradualmente (37).

Il vero dilemma è che entrambe le posizioni sono in qualche modo giuste: primo, se l'azione nonviolenta non è sufficientemente distinta da quella militare non si avranno risultati soddisfacenti. Secondo, se i problemi riguardanti la possibilità di coesistenza dell'azione militare con quella nonviolenta non vengono discussi realisticamente, non ci sarà alcun processo pratico verso il transarmo. Secondo me un avvicinamento (non una riconciliazione) tra le due posizioni è possibile, a patto che entrambe le parti si pongano, senza prevenzioni e in modo aperto, una semplice domanda cui è molto difficile rispondere: chi è il nemico? A prima vista la risposta sembra essere così chiara, così ovvia: il nemico deve essere il Patto di Varsavia - poiché si suppone che la difesa popolare nonviolenta debba essere una alternativa alla NATO o un complemento alla strategia NATO esistente. Questa risposta a senso unico, comunque, è troppo semplice. La storia è piena di immagini sbagliate del reale nemico. Il primo compito di

una strategia completa è sempre quello di identificare il nemico, cioè, nel nostro caso, identificare quei nemici che minacciano realmente il processo democratico in un dato periodo.

I dubbi sul semplicismo della attuale percezione del nemico sono sostenuti da alcuni esempi, nel recente passato, di mancata identificazione delle minacce di quel tempo. Già nella primavera del 1968 il generale Prehlik identificò il pericolo di una occupazione russa della Cecoslovacchia camuffata da manovra. Questo tempestivo avvertimento fu, tuttavia, ignorato. In Cile nel 1973 il presidente Allende e il suo governo non si resero conto della imminente minaccia di un colpo di Stato. Nel 1981 Solidarnosc si aspettava più una aggressione russa che un colpo di Stato polacco da parte del gruppo militare che già era al potere. Ci sono molti altri esempi di governi e popoli che, mentre si preparano per deterrere minacce illusorie o perlomeno distanti, non riconoscono le reali minacce incombenti.

La difesa popolare nonviolenta originariamente è stata discussa come un modello che presupponeva il completo disarmo unilaterale, cioè il modello prefigurava una aggressione militare straniera dopo che il processo di disarmo unilaterale e di cambiamento di strategia di difesa fosse stato completato. Tuttavia, se vogliamo identificare le minacce incombenti, dobbiamo considerare non solo le situazioni in cui la transizione sia stata 'completata', ma anche le minacce che possono sorgere 'durante il processo' di cambiamento.

Il transarmo può prendere varie forme. Lo sviluppo maggiormente auspicabile sarebbe quello di un consenso sociale all'interno di ogni paese che prende parte al processo e all'interno dell'Alleanza come insieme. Purtroppo un consenso così completo e senza problemi è molto poco probabile e quindi dobbiamo pensare a interferenze militari in questo processo, solo al termine del quale la difesa popolare nonviolenta può essere vista come alternativa funzionale alla difesa militare. D'altra parte dobbiamo renderci conto che il transarmo probabilmente verrà iniziato solo se un sostanziale numero di persone si convincerà che il potere dissuasivo della difesa popolare nonviolenta contro il nemico riconosciuto della Alleanza, alla fine, sarà completamente equivalente alla deterrenza militare. Per questa ragione dobbiano discutere anche dei problemi della difesa popolare nonviolenta contro una aggressione del Patto di Varsavia.

In Cecoslovacchia nel 1968 e in Polonia nel 1981 gli interventi militari ebbero luogo proprio nella fase iniziale di un processo sociale che mirava ad un tipo di socialismo più umano e democratico. Interventi simili potrebbero ripetersi in caso di cambiamenti sociali e politici all'interno del Patto di Varsavia. Quindi i riformatori in tali paesi hanno delle buone ragioni per informarsi sulle azioni nonviolente. Tuttavia, qualunque cosa succeda, è un problema 'loro'.

Se ci interessiamo dei 'nostri' problemi dall'altra parte della cortina di ferro, che è molto permeabile alle lezioni sull'azione nonviolenta, dobbiamo affrontare la seguente domanda: è immaginabile che, se uno o più paesi cercassero di portare avanti cambiamenti radicali nella loro economia e nella loro difesa, ci sarebbero interventi militari simili anche all'interno dell'Alleanza occidentale?

Per un tedesco lo spunto per tale domanda è la prospettiva di un governo di coalizione tra Socialdemocratici e Verdi. Una tale coalizione esiste già in Assia e, sebbene non abbia molte probabilità di andare al governo a Bonn a livello federale, questa rappresenta una possibilità sempre presente nel futuro più o meno prossimo. I Verdi sono fautori della difesa popolare nonviolenta; i Socialdemocratici mostrano qualche inclinazione verso la difesa difensiva. Ipotizziamo un cambiamento al governo in Germania e una coalizione rosso-verde che cerchi di modificare l'economia in senso più consono ai requisiti ecologici e ai bisogni dei poveri nel paese e nel Terzo Mondo e di costruire un sistema di difesa senza componenti nucleari e senza capacità offensive. In questo caso ci sarebbero dei conservatori in Germania, e probabilmente nei vari governi dell'Alleanza occidentale, che sarebbero realmente sconvolti da tali pericolosi esperimenti. Secondo me esisterebbe un reale pericolo di pressioni economiche e militari c

ontro un tale governo di riformatori in Germania e se gli eventi volgessero dal male al peggio ci potrebbe addirittura essere la minaccia di un colpo di Stato o di un intervento militare da parte degli alleati della NATO. In Grecia ci fu un colpo di stato nel 1967 immediatamente prima di una prevista vittoria elettorale dell'Unione del Centro di Papandreou padre, ben noto per il suo criticismo verso la NATO. Forse i conservatori tedeschi si comporterebbero più democraticamente e non sarebbe di certo facile esercitare una pressione militare su un governo legittimo, tuttavia i tedeschi sostenitori della difesa popolare nonviolenta hanno seguito con una certa apprensione l'azione terrorista del governo francese contro il 'Rainbow Warrior' in Nuova Zelanda (38) e la promozione di un intervento militare in Nicaragua da parte del governo americano.

Un governo di riformatori potrebbe trovarsi di fronte a tutti i tipi di interventi violenti nel processo democratico già nella fase iniziale di un processo innovativo. Sorge la richiesta di una strategia di difesa popolare nonviolenta che abbia buone probabilità di successo, anche nel caso in cui le strutture militari interne e degli alleati siano ancora in piedi e la maggioranza delle persone che simpatizzano per le riforme abbiano avuto molto poco tempo di prepararsi alla resistenza nonviolenta.

Includere il colpo di Stato e l'intervento di alleati militari nel novero dei probabili nemici non significa escludere i nemici tradizionali, cioè il Patto di Varsavia. Ma, considerando il processo di trasformazione, non è molto probabile che esso interverrebbe all'inizio di tale processo. Per il Patto di Varsavia la tentazione di intervenire sarebbe massima nel momento in cui il disarmo fosse stato completato ed i fautori di questo processo all'interno del Patto stesso iniziassero a richiedere riforme simili. Un progresso del disarmo e una ristrutturazione dell'economia in accordo a requisiti ecologici e giustizia sociale attuato in alcuni paesi occidentali porrebbe di sicuro l'apparato governativo dei paesi dell'est di fronte ad una critica interna simile contro la crescita industriale e militare indiscriminata del Comecon e del Patto di Varsavia. Ciò potrebbe indurre i governi comunisti a minacciare i paesi vicini chiedendo loro di smettere di incoraggiare questa opposizione interna. Possibili malintesi s

ulle possibilità di un governo democratico di influenzare il buon senso di giornalisti e gruppi di solidarietà potrebbero portare a un intervento militare su larga scala o a dei conflitti di confine minori oppure ad atti violenti di interferenza.

3.2. Pericoli multipli e opzioni molteplici

Il tentativo di identificare i pericoli incombenti e i possibili nemici sposta la discussione sulle possibilità di realizzare la difesa popolare nonviolenta. Non è più un problema di 'pura' o 'mista', ma di trovare una risposta specifica ad una domanda specifica. Se è imminente un colpo di Stato, possono essere prese misure militari e civili per impedirlo, ma è abbastanza ovvio e storicamente provato che la difesa popolare nonviolenta può essere decisiva. Nel caso di intervento da parte di truppe alleate è ancora più probabile che la resistenza nonviolenta giochi il ruolo di fattore dissuasivo, poiché l'esercito potrebbe essere psicologicamente o politicamente mal disposto a combattere l'aggressore. Sebbene non sia del tutto impossibile una resistenza militare nel caso di colpo di Stato o di intervento da parte degli alleati, sembra esserci una plausibile preferenza per la difesa popolare nonviolenta. E' difficile, comunque, individuare abbastanza esplicitamente i pericoli poiché durante i preparativi per la

difesa popolare nonviolenta ci saranno conservatori che sosterranno di essere una opposizione democratica costituzionale o alleati che si definiranno amici su posizioni critiche. E' difficile speculare su un colpo di Stato o su una aggressione da parte di truppe alleate senza identificare cavallo e cavaliere, ma d'altra parte qualunque identificazione ufficiale simile susciterebbe accesi dibattiti interni o irritazioni diplomatiche.

Probabilmente si verrebbero a creare meno problemi interni e diplomatici se la ragione ufficiale dei preparativi per la difesa popolare nonviolenta fosse quella di integrare la difesa militare difensiva. Sebbene la resistenza nonviolenta assuma delle caratteristiche particolari a seconda che sia rivolta contro un colpo di Stato o contro una invasione straniera, c'è tuttavia un'ampia area comune nelle infrastrutture della resistenza ad entrambi i tipi di minaccia. Se il governo e la maggioranza della popolazione sono preparate per la resistenza nonviolenta come 'complemento' alla difesa militare contro il nemico tradizionale, di fatto sono anche pronti per la resistenza nonviolenta come 'opzione indipendente' contro qualunque tipo di pericolo incombente.

Questa può sembrare una buona soluzione, ma la situazione è complicata dall'interesse dei riformatori di evitare che, presentando la preparazione della difesa popolare nonviolenta come se fosse un opportuno supplemento alla deterrenza militare, si rafforzino le percezioni di anticomunismo. Ci sono, dunque, buone ragioni per sviluppare la difesa popolare nonviolenta mantenendosi ufficialmente abbastanza sul vago riguardo ai possibili nemici contro cui utilizzarla. L'identificazione dei possibili nemici, pur necessaria, potrebbe essere delegata al dibattito pubblico e i cittadini di loro iniziativa potrebbero occuparsi della preparazione contro minacce specifiche. Tuttavia questa soluzione non completamente soddisfacente, sia come sviluppo della difesa popolare nonviolenta che come opzione multivalente, necessita del supporto ufficiale a livello di finanziamenti e di informazione.

In Germania nell'ambito del dibattito sulla preparazione e la messa in atto della difesa popolare nonviolenta è stata proposta durante un convegno di Verdi a Bonn - 16 giugno 1984 - la creazione di una 'Bundesamt fuer zivilen Widerstand' (Agenzia federale per la resistenza civile) parallela al ministero della Difesa (39). Questa agenzia avrebbe lo scopo di chiarificare i concetti e discutere le possibilità della resistenza nonviolenta con strutture governative e con associazioni politiche e sociali. I risultati di questi esami preliminari dovrebbero portare ad esercitazioni specifiche di resistenza nonviolenta, per esempio nel mantenimento delle comunicazioni in tempo di crisi.

La conclusione di queste riflessioni sembra essere che c'è ancora molta strada da fare perché la difesa popolare nonviolenta divenga un complemento alla Difesa o una opzione oppure una alternativa radicale completa, ma gli studi specifici sulla resistenza nonviolenta come difesa nazionale ci hanno dato una sorprendente lezione: in tempi di cambiamenti sociali essa emerge spesso, abbastanza inaspettatamente, come una necessità.

NOTE

1. Bollettino EKD (numero speciale), 'The Preservation, Promotion and Renewal of Peace. A Memorandum of the Evangelical Church in Germany', Frankfurt, 1981, pp. 27-28.

2. La sorprendente innovazione è che appartengono a 'Living without Weapons' non solo membri delle classiche Chiese della Pace, ma anche membri delle chiese pubblicamente istituzionalizzate. Il tipo di argomentazione, nell'insieme, non è quello tradizionale. I membri della direzione di 'Living without Weapons' si rendono conto del fatto che non bastano le testimonianze individuali e che c'è bisogno di una ricerca sulle opzioni politiche. Sebbene gli sforzi corrispondenti siano ancora poco sviluppati, vale la pena menzionare che questa campagna, e quella simile di 'Fellowship of Reconciliation', è 'favorevole alla resistenza nonviolenta come difesa nazionale'.

3. Bollettino EKD, cit., p. 29.

4. T. Ebert, "Die Praxeologie des Gradualismus. Moeglichkeiten und Grenzen 'westlicher' Abruestungsstrategien", 1971, in T. Ebert, 'Soziale Verteidigung. Historische Erfahrungen und Grundzuege der Strategie', Waldkirch, 1981, pp. 120-142.

5. Cfr. C.E. Osgood, "Reciprocal Initiative", 'The Liberal Papers', J. Roosevelt (a cura di), New York, 1960.

6. Bollettino EKD, cit., p. 30.

7. Cfr. C.F. von Weizsaecker (a cura di), 'Die Praxis der defensiven Verteidigung', Hameln, 1984.

8. Una chiara trattazione dell'approccio filosofico e teologico all'etica si può trovare in K. Barth, 'Ethik I. Vorlesung Muenster Sommersemester 1928, wiederholt in Bonn, Sommersemester 1930. Herausgegeben von Dietrich Braun', Zuerich, 1973, pp. 30-73.

9. S. King-Hall, 'Defence in the Nuclear Age', London, 1958.

10. C.F. von Weizsaecker (a cura di), 'Kriegsfolgen und Kriegsverhuetung', 1971.

11. A. Roberts (a cura di), 'The Strategy of Civilian Defence', London, 1966.

12. G. Sharp, 'The Politics of Nonviolent Action', 3 volumi, Boston, 1973.

13. R. Niemann, "Bibliographie zur Sozialen Verteidigung", in T. Ebert (a cura di), 'Demokratische Sicherheitspolitik', Muenchen, 1974, pp. 198-231 (contiene una bibliografia sulla difesa popolare nonviolenta).

14. 'Gewaltfreie Aktion'. Vierteljahreshefte fuer Frieden und Gerechtigkeit, Halker Zeile 162, 1000 Berlin 49.

15. 'Alternatives Nonviolentes'. Revue trimestrielle, 16, rue Pau Appel, 42000 Saint-Etienne, France.

16. 'Non-violence Politique'. Mensuel du Mouvement pour une Alternative Non-violente (MAN), 20, rue du Devident 45200 Montargis.

17. 'Azione Nonviolenta'. Rivista bimestrale del Movimento Nonviolento affiliato alla War Resisters' International, C.P. 713, 36100 Vicenza.

18. G. Sharp, 'Making Europe Unconquerable. The Potential of Civilian-based Deterrence and Defence', London, 1985.

19. Cfr. G. von Glahn, 'The Occupation of Enemy Territory. A Commentary on the Law and Practice of Belligerent Occupation', Minneapolis, 1957.

20. Cfr. W. Warmbrunn, 'The Dutch under German Occupation 1940-45', Stanford-London, 1963, pp. 113-118.

21. Cfr. R. R. Baxter, "The Duty of Obedience to the Belligerent Occupant", in 'British Yearbook of International Law', 1950, n. 27, Oxford University Press, 1951, pp. 235-266; G. von Glahn, 'op. cit.', pp. 45-80 e 132-138.

22. Sul comportamento dei funzionari olandesi cfr. W. Warmbrunn, 'op. cit.', pp. 123-127.

23. Cfr. A. Naess, "Non-Military Defence and Foreign Policy", in A. Roberts 'et alii', 'Civilian Defence', London, Peace News, 1964, pp. 41-43.

24. Cfr. S. King-Hall, 'op. cit.'

25. Cfr. J. W. Hughan, 'Pacifism and Invasion', New York, War Resisters League, 1942; brani in M. Q. Sibley (a cura di), 'The Quiet Battle. Writings on the Theory and Practice of Non-violent Resistance', New York, 1963, pp. 317-322.

26. Cfr. S. King-Hall, 'op. cit.', pp. 198-204.

27. W. Warmbrun, 'op. cit.', pp. 121-122.

28. Sui preparativi amministrativi e tecnici per l'occupazione dell'Olanda, cfr. il diario di guerra del commissario Hellmich del Heeresgruppe B del 19/10/1939 - 20/5/1940, K. Kwiet (a cura di), "Vorbereitung und Aufloesung der deutschen Militaerverwaltung in den Niederlanden", in 'Militaergeschichtliche Mitteilungen', Freiburg, 1969, pp. 121-153.

29. Cfr. W. Warmbrunn, 'op. cit.', p. 35.

30. D.J. Goodspeed, 'The Conspirators: A Study of the Coup d'Etat', McMillan, London, 1962, p. 134.

31. D. J. Goodspeed, 'op. cit.', p. 130.

32. Cfr. W.R. Miller, 'Non-violence. A Christian Interpretation', New York, 1964, pp. 306-313.

33. Nel 1943, il dottor Best, commissario in Danimarca, proibì ai nazionalsocialisti danesi di impadronirsi del governo, poiché Frits Clausen, il duce della DNSAP, era circondato da collaboratori completamente insignificanti e in parte incompetenti.

34. S. King-Hall, 'op. cit.', p. 198-199.

35. A questo punto Brecht interruppe bruscamente la conversazione e lasciò la Cancelleria. A. Brecht, 'Aus naechster Naehe. Lebenserinnerungen 1884-1927', Stuttgart, 1966, pp. 303-304.

36. "Il trattenimento in servizio di un gran numero di funzionari locali e regionali da parte delle autorità occupanti è stata una politica caratteristica di quasi tutte le occupazioni militari di questo secolo. Tale pratica risultò dalla presa d'atto che, se i funzionari migliori continuavano a prestare servizio sotto la supervisione dell'occupante, si evitava un grande spreco di manodopera e si poteva ottenere una maggiore efficienza". G. von Glahn, 'op. cit.', p. 132.

37. Una fedele e dettagliata descrizione di queste posizioni - che sostengono i vantaggi della difesa popolare nonviolenta come complemento - è stata fatta da L. Bergfeldt (Department of Peace and Conflict Research, Uppsala University) alla conferenza di Strasburgo su 'Civilian Defence Strategies' nel novembre del 1985, 'The Road to Realization - Civilian Defence as a Complement?'

38. Il 10 luglio del 1987, nel porto di Auckland, una bomba affondava il 'Raimbow Warrior', ammiraglia della flotta dell'organizzazione ecologista 'Greenpeace', uccidendo un fotografo portoghese che si trovava a bordo. La nave era nel Pacifico con lo scopo di dimostrare contro gli esperimenti nucleari nella Polinesia francese. La polizia neozelandese arrestava immediatamente due cittadini francesi, poi rivelatisi agenti del governo di Parigi e riconosciuti colpevoli dell'affondamento dopo regolare processo (nota del curatore).

39. Cfr. T. Ebert "Der Einstieg in die Soziale Verteidigung", in 'Gewaltfreie Aktion', Berlin, 61/62, 1984, pp. 70-83.

 
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