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Mellini Mauro - 30 novembre 1988
Lettera aperta di Mauro Mellini al Primo segretario del Partito Radicale Sergio Stanzani

SOMMARIO: Mauro Mellini contesta alla classe dirigente del partito radicale di aver rifiutato, dopo il raggiungimento dei diecimila iscritti nel 1987, di darsi obiettivi politici perseguibili in Italia per inseguire invece una improbabile prospettiva trasnazionale che si riduceva alla insensata e costosa ricerca di iscritti fuori d'Italia. Le scelte conseguenti, come quella di non presentarsi più alle elezioni, rappresentano un vero e proprio regalo alla partitocrazia dilagante in Italia. Invita quindi il primo segretario Stanzani a riconoscere gli errori compiuti, a riprendere le antiche battaglie in Italia, a ripristinare il simbolo della rosa nel pugno, a smetterla con il "turismo trasnazionale" e, infine, a tenere un vero congresso in Italia e non a Zagabria.

(Notizie Radicali n· 262 del 30 novembre 1988)

Caro Sergio, le discussioni e le deliberazioni del Consiglio Federale di Gerusalemme costituiscono un'altra pagina di una oramai non breve cronaca di una morte ripetutamente e variamente annunciata. Tanto ripetutamente da essere l'annuncio oramai scontato e non troppo attendibile, salvo per quanti hanno a cuore la vita di questo partito, per i quali la varietà degli annunci oramai sta determinando il convincimento che la morte è voluta e che in un modo o nell'altro sarà procurata.

Io non credo che l'annuncio sia inattendibile, né che la morte sia voluta, così come non credo che la morte sia probabile proprio e soprattutto per le cause denunciate, né credo che non volere la morte del partito sia sufficiente ad escludere che si stia operando in modo da determinarla.

Il mestiere di Cassandra non mi si addice e non credo di averlo mai esercitato. Semmai debbo rimproverarmi di non aver sempre e per intero detto quanto mi avrebbe, tutto sommato, fatto acquistare a buon diritto questa qualifica.

Certo è che a Bologna ho detto, nei pochi minuti in cui è consentito in certi congressi replicare alla chilometriche relazioni dei segretari, tutto o quasi tutto quello che oggi può dirsi alla luce dei risultati sulle scelte insensate fatte in quel congresso, ma - in sostanza - anche su quanto era stato fatto nella seconda tornata del congresso annuale precedente, nel febbraio 1987, e in quello straordinario di aprile.

Perché un errore enorme è stato compiuto dopo il raggiungimento dell'obiettivo di diecimila iscritti, rifiutando, in un congresso passerella privo di qualsiasi progettualità e di dibattito, di dare corpo ed obiettivi ad una forza che andava assumendo proporzioni e significati mai espressi, per porre altre condizioni, questa volta "transnazionali" per non "cessare le attività", quasi a sottolineare che, pur continuando le attività si cominciava a "togliere l'incomodo" sul piano nazionale, confermando poi tale atteggiamento nell'ambiguo congresso preelettorale nel quale si decise di non decidere sulla presentazione alle elezioni a beneficio di una tesi nella polemica tutta contingente e strumentale tra Craxi e De Mita, per andare poi alle elezioni con un fiacco, poco convincente e male accettato progetto di area laica-socialista, destinata a dissolversi all'indomani del voto.

Ho potuto dire, a Bologna, che andare a "cercare iscritti" fuori d'Italia a costi spropositati, spendendo danaro ed energie esclusivamente italiani, quando questi debbono essere acquisiti giorno per giorno con difficoltà già rilevanti e, per di più, ostentando il "superamento" dell'interesse per le cose italiane, era cosa insensata.

Ho potuto dire che, con questa "svolta" transnazionale, con la decisione di non partecipare più alle elezioni con liste di partito e con il simbolo del partito significava offrire gratuitamente, su di un piatto d'argento, alla partitocrazia dilagante e in via di rafforzamento, la nostra scomparsa e il nostro "toglier l'incomodo" con la conseguenza di precluderci anche ogni realistica possibilità di perseguire obiettivi e non utopie sul piano europeo e transnazionale.

Ho potuto dire, a Bologna, che attese e speranza per l'espandersi di una forza politica capace di tradurre in termini di diritto, attraverso la nonviolenza, esigenza specifiche di libertà e di giustizia nel mondo attuale possono esser espresse solo dal Partito radicale almeno ora e qui, e che la sua scomparsa farebbe venir meno tali speranze e frustrerebbe tali attese.

Altre cose ho detto e molte altre avrei potuto dire sulla sciocchezza di distinguere tra cessazione di attività e pura e semplice scomparsa e sull'effetto deleterio di questo ripetere che il partito dovrà cessare la propria attività. Perché non c'è libertà e informazione in Italia, si è detto a Firenze nel 1985. Per fare la lega per il collegio uninominale (ristabilendo così condizioni di libertà etc) si è detto all'assemblea di Roma nell'estate del 1986. Se fossero mancati 10.000 iscritti per l'86 e 5.000 per l'87 entro una determinata data, si è detto a Roma al congresso del 1987. Se non si fossero trovate alcune migliaia di iscrizioni all'estero, si è detto al congresso di febbraio sempre a Roma. Per non dire che la non presentazione alle elezioni, equivalente della cessazione delle attività, è stata deliberata al congresso dell'aprile del 1987 per il caso che Cossiga avesse sciolto le Camere malgrado un Governo avesse avuto la maggioranza.

Poi a Bologna, nel gennaio 1988 è stato deciso, se non di cessare le attività, di farne altre, improbabili, almeno senza il supporto di una politica italiana e di una presenza istituzionale all'estero, di cambiare il simbolo (poi scelto in quella orribile porcheria che pare sia costata la bazzecola di 30 milioni!) di non fare più elezioni etc etc.

Ora gli iscritti all'estero, come era prevedibile, non sono stati "trovati" se non in qualche amatore di cose italiane e in qualche compagno di peregrinazioni turistico-politiche dei "cercatori" etc.

La transnazionalità del Consiglio Federale non è più seria del modo in cui esso è stato eletto, a Congresso praticamente chiuso, e le sue sessioni in varie città transalpine e transmarine hanno significato solo spreco insensato di soldi degli iscritti italiani.

Malgrado tutto ciò un numero esiguo ma tuttavia incredibile di persone si iscrive al partito perché vuole la giustizia giusta, la responsabilità dei giudici, la fine del proibizionismo assassino della droga, la difesa dei diritti umani, la lotta alla corruzione, quella al Concordato, quella contro il "gorbaciovismo" e la "perestrojka" nostrani etc etc. Da quando si è deciso di non partecipare più alle elezioni, ci siamo presentati alle elezioni comunali a Catania, a Trieste e altrove. E per supplire alla mancanza del simbolo radicale, Marco si è dovuto presentare dovunque e si sono spesi centinaia di milioni per far sapere che c'eravamo anche se sembrava, e doveva sembrare, che non ci fossimo.

Ci lamentiamo della mancanza d'informazione sulle nostre attività, che sono poi essenzialmente quelle parlamentari. Ma facciamo chiamare i nostri gruppi parlamentari "federalisti europei", così quel poco che passa confonde le idee a chi ascolta i notiziari Rai.

Ci lamentiamo della mancanza di fondi, cronica per un partito che non ruba e organizziamo riunioni del Consiglio federale in giro per l'Europa e dintorni, che, a torto o a ragione, vengono dalla stragrande maggioranza dei "potenziali contribuenti e iscritti radicali" considerati sprechi inutili e inconcepibili.

Ora, caro Sergio, dovresti restare in carica a condizione che intervenga il miracolo o per gestire la chiusura. Magari secondo il parere, costato salato, di illustri giuristi che si sono cimentati con l'"elegante" questione del partito che cessa, non si scioglie, scompare, ma può riapparire, è, non fa, chiude e non chiude, salvo che etc etc.

Sarebbe molto più chiaro ed onesto dire che abbiamo sbagliato. Dico "abbiamo" anche se avrei più di un titolo per dire "avete". E fare altro anziché rimuginare questa equivoca e disonesta chiusura delle attività. Perché è disonesto il dilemma tra impossibile e nulla, tra progetti irrealizzabili e fallimento, come se quella fattibilità fosse un metro degradante e inquinante.

E sarebbe giusto e onesto soprattutto verso gli iscritti, quelli che malgrado tutto si sono reiscritti, cambiare spartito, e, almeno, un qualcuno dei suonatori. Riprendere il simbolo, quello noto e decente, riprendere senza ipocrisie e contorcimenti le nostre battaglie, qui dove siamo e dove ci sono i nostri compagni, smetterla con il turismo transnazionale, e il "transnazionale" come alibi e fuga dalla realtà, fare un congresso vero qui e non a Zagabria, dove la conferma della scelta transnazionale, con qualche centinaio di milioni, riuscirebbe in maggioranza tra centoventi congressisti se tutto va bene. Ridare al gruppo parlamentare il nome che gli spetta: radicale.

Chiamare i compagni, quelli dei diecimila e gli altri che non se la sono intesa di reiscriversi per avallare una chiusura con l'alibi del transnazionale.

Intanto, per quel che riguarda l'immediato, ti scongiuro di non spingere fino all'irrimediabile la commedia del congresso da farsi-non farsi a Zagabria.

Un congresso si fa per consentire agli iscritti di pronunziarsi sulle scelte essenziali del partito, non per rendere irreversibili e immodificabili quelle comunque fatte, né per ottenere altro, magari un po' di cronaca (che poi sarebbe poco consolante definire "censurata" etc) di un divieto più o meno formale. E tutto ciò spendendo somme enormi per un partito che è all'asciutto, con il risultato di rendere impossibile un congresso vero, in cui deliberazioni e scelte abbiano un significato e una legittimazione.

Con la prospettiva di un'effettiva possibilità di cambiamento credo sia possibile una campagna di iscrizioni e un impegno per promuoverla.

Questo è quanto resta da fare, prima che sia troppo tardi. Se no dovrei anch'io ricredermi e convincermi che c'è solo la volontà di ottenere la morte di questo partito, con buona pace dei progetti transnazionali, transpartitici, europei, etc etc.

 
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