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Pelanda Carlo - 10 dicembre 1988
La Jugoslavia e l'Europa
di Carlo Pelanda

SOMMARIO: L'analisi della crisi economica e politica della Jugoslavia. Senza un intervento diretto e forte della Comunità europea la Jugoslavia, così come la Polonia, l'Ungheria e la Turchia, è condannata al sottosviluppo e alla conflittualità.

(Notizie Radicali n· 271 del 10 dicembre 1988 Da El Paìs; Carlo Pelanda è Direttore aggiunto dell'Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia)

Questi sono i dati essenziali della crisi che scuote la Jugoslavia: un'inflazione intorno al 200% (167% nel 1987), diminuzione in termini reali del prodotto interno lordo, un debito con l'estero intorno ai 20.000 milioni di dollari, conflitti etnici aperti (Kosovo), tensioni nazionalistiche in Serbia e Slovenia, disoccupazione crescente (intorno al 25%), emigrazione di cervelli (più di 40.000 negli ultimi quattro anni), strutturale invecchiamento tecnologico del sistema industriale.

Il significato negativo di questi dati può vedersi mitigato da molteplici considerazioni positive: l'economia sommersa mantiene una vitalità assai superiore a quel che risulta dalle statistiche ufficiali, lo sviluppo degli anni sessanta e settanta ha modernizzato strutturalmente le aree più importanti del paese (Slovenia, Croazia, Serbia), una borghesia produttiva di tipo occidentale e già consolidata, le elite emergenti sono capaci, e consapevoli dei problemi attuali e futuri. Tuttavia, questo non serve che a dare ad una Jugoslavia in crisi una stabilità contingente.

Senza mutamenti sostanziali sia interni che di collocazione internazionale, la Jugoslavia corre il rischio di cadere in una situazione di sottosviluppo endemico e di patire un processo di libanizzazione, destabilizzando così la già delicata area balcanica e il processo generale di integrazione europea nel suo movimento verso est.

Cosa deve cambiare in Jugoslavia? Cosa devono fare gli Europei occidentali?

Panorama disastroso

La principale causa interna della crisi economica jugoslava è costituita dal suo ordinamento politico-istituzionale. In termini generali si tratta di un meccanismo estremamente complesso, che pretende di conciliare la logica collettivista dello stato socialista con i connotati di autonomia e decentralizzazione della economia di mercato.

Da un lato - a partire dalla Costituzione del 1953 - la proprietà dei mezzi di produzione in Jugoslavia non è concentrata nelle mani dello stato, ma distribuita come proprietà sociale autogestita; d'altra parte, i vincoli collettivisti e di compensazione propri della proprietà sociale impediscono alle imprese di essere governate dai criteri della ricerca del profitto e del suo reinvestimento.

Inoltre, la dipendenza dalle burocrazie locali del partito oscura ulteriormente questo panorama, rendendolo un vero disastro.

Il modello economico jugoslavo costituisce quindi il risultato del compromesso tra il socialismo e il capitalismo che non consente (ammette) riforme, ma soltanto mutamenti radicali.

Le nuove elite politiche di orientamento tecnocratico in Jugoslavia sono perfettamente consapevoli del fatto che l'unica soluzione ai problemi del paese passa attraverso una riforma del libero mercato e la prospettiva del suo ingresso nella Comunità europea. Di fatto, la nuova riforma economica e la nuova Costituzione che si sta elaborando a Belgrado si orientano esplicitamente in questo senso. Tuttavia, questo sforzo riformista tende a restare vincolato al tentativo di salvare la struttura tradizionale del comunismo jugoslavo, sebbene all'interno della tendenza verso la organizzazione di strutture proprie del libero mercato.

Ricapitolando, sembra che sebbene gli Jugoslavi sappiano quel che c'è da cambiare, la nuova leadership del dopo Tito non ha la forza sufficiente per governare un cambiamento tanto radicale quanto è necessario per la situazione di emergenza che il paese attraversa. Questa forza può venire soltanto dall'esterno. E' l'Europa che deve esigere dalla Jugoslavia che chiarisca i termini di una futura cooptazione. Di fatto, la Jugoslavia potrebbe entrare in Europa solo se:

-Abbandona l'ambiguità del meccanismo dell'autogestione e purifica la proprietà privata o l'autonomia delle imprese.

-Abbandona la rappresentanza per nazioni a livello federale e istituzionalizza la rappresentanza proporzionale (cioè un Parlamento composto da una Camera degli eletti su base proporzionale e un Senato che rappresenti soprattutto le nazioni, garantendo così l'equilibrio).

-Abbandona il sistema a partito unico, in favore del pluralismo politico.

-Garantisce di fatto i diritti e le libertà civili.

Da parte sua, la Comunità europea potrebbe disporre un piano straordinario in grado di appoggiare economicamente la transizione della Jugoslavia verso la democrazia. Ciononostante, questo cambiamento non potrà essere del tutto traumatico: il sistema attuale non è difeso soltanto dalla burocrazia del Partito comunista (complicata dal separatismo burocratico delle autonomie nazionali), ma anche dagli operai che preferiscono il "poco, ma sicuro" al "meglio, ma incerto" e dai cittadini delle repubbliche meridionali sottosviluppate, assuefatti a un regime assistenziale della minima sussistenza. Gli aiuti a questa categoria sociale non vanno abbandonati, ma vanno orientati verso il progetto del cambiamento. Il volume delle risorse necessarie per compiere questo passo in termini di un nuovo Piano Marshall (che la Jugoslavia d'altra parte rifiutò nel 1947) è tale che è alla portata soltanto dell'intera Europa.

Ma può l'Europa occidentale compiere questi passi politici ed economici?

Proporre alla Jugoslavia questo tipo di aiuti, con la prospettiva di un'ammissione nella comunità europea, significa lanciare un messaggio implicito a Mosca e a Washington, per il quale l'Europa assume la natura di soggetto politico internazionale forte; significa, concretamente, che la stessa Europa si sente capace di superare Yalta e prepararsi alla grande unificazione.

Oggi come oggi è difficile valutare se gli europei sono già disposti a compiere questo salto. I paesi della Comunità sono concentrati sui problemi di modernizzazione delle loro strutture interne in vista del 1992 e ancora sembra un po' fantascientifico pensare a una Europa politica.

Tuttavia, l'ampliamento della Comunità europea dovrà assumere necessariamente un profilo politico più alto. La prossima ammissione dell'Austria, per esempio, significa di fatto la fine della neutralità imposta a questo paese ai tempi di Yalta. Gli attuali rapporti economici della Comunità con paesi come l'Ungheria, la Polonia, la Repubblica democratica tedesca, la Turchia, già costituiscono di fatto una pre-incorporazione nel regime economico politico europeo.

Ingresso "naturale" nella Comunità

Il punto più delicato di tutto questo processo è che nessuno di questi -e degli altri- paesi europei è disposto a modificare unilateralmente la propria struttura politica ed economica per poter essere ammesso naturalmente nella Comunità (come accadrà invece, in cinque o sette anni, con la Svezia, la Norvegia e, chissà, Finlandia e Svizzera). Questi paesi legati al sottosviluppo e allo statalismo comunista hanno bisogno, senza alcun dubbio, di ricevere un impulso diretto, un necessario interscambio, garanzia di serio appoggio economico come di difesa politica. Insomma, hanno bisogno che l'Europa faccia loro un'offerta politica.

La Jugoslavia costituisce il primo banco di prova per questa nuova responsabilità dell'Europa: senza un intervento diretto e forte, l'Est e il Sudest saranno condannati al sottosviluppo e alla conflittualità. Ma questo costituirebbe anche un esperimento per un futuro non molto lontano in cui il nemico di ieri, l'impero sovietico, in decadenza, si trasformerà nella nuova Russia, che dovrà formare parte dell'Europa del futuro.

 
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