di Caterina CaravaggiSOMMARIO: La società di oggi non reagisce più alle provocazioni radicali - afferma Caterina Caravaggi - per la mancanza o per la distorsione dell'informazione. Sono anche cambiati i radicali e le stesse possibilità di militanza nel Pr. La scelta transnazionale è giusta e valida, ma destinata al fallimento finche il Pr non riuscirà ad affermarsi come grande forza politica transpartitica.
(Notizie Radicali n.21 del 1· febbraio 1989)
Si guarda al Consiglio Federale di Trieste-Bohinj come al momento di presa di consapevolezza del cambiamento che dobbiamo affrontare.
Marco Pannella sedici anni fa, nella prefazione al libro di Andrea Valcarenghi "Underground a pugno chiuso" diceva: "Abbiamo durato, rifiutando di sopravvivere". Ed effettivamente l'unica cosa che noi potremmo fare ora, rifiutando "la rottura di continuità" con questo Partito radicale, è proprio sopravvivere.
Tutti quindi sembrano aver preso atto della necessità di un altro Partito radicale, di un'altra forma di organizzazione che sicuramente non sarà un partito (nell'accezione negativa che ormai il termine ha nella coscienza della gente) e che, a mio parere, non dovrebbe nemmeno più dirsi "radicale".
Il Partito radicale è il partito delle marce, dei sit-in, dei digiuni, del carcere, dei tribunali, è il partito del divorzio, del voto ai diciottenni, dell'obiezione di coscienza, dell'aborto e di tutte quelle occasioni in cui, con il consenso delle maggioranze, abbiamo superato il cosiddetto "divorzio tra il potere e la ragionevolezza".
Ora due cose sono avvenute nel corso degli ultimi anni. La prima è che la società di oggi non è più quella di quindici anni fa, non reagisce più come allora alle nostre provocazioni, da un lato perché la gente non ha più la possibilità di esserne raggiunta a causa della disinformazione operata dai mass-media che non solo censurano le iniziative radicali, ma deformano l'immagine stessa del partito radicale, dall'altro perché le stesse persone a cui ci rivolgiamo sono meno impreparate e quindi non reagiscono più come una volta ai nostri metodi.
Ce ne accorgiamo noi stessi quando incontriamo difficoltà a raccogliere 50.000 firme (e non le raccogliamo) per la Proposta di Legge sugli Stati Uniti d'Europa, quando alla marcia antiproibizionista del 23 dicembre scorso portiamo "solo" un migliaio di persone, noi che in altri tempi, così in pochi, siamo riusciti a fare cose immense. Ce ne accorgiamo tutti, credo, quando usciamo, ancora, per le strade, nelle piazze con i tavoli, quando le persone passano e non solo non si fermano, ma non guardano più cosa vogliamo sapere e far sapere: "Sono i soliti radicali..."
La seconda cosa che è cambiata negli ultimi anni siamo noi. Noi stessi non siamo più quelli di quindici anni fa, e non possiamo più esserlo. All'inizio dell'anno scorso sono venuta a Roma per "lavorare" a tempo pieno al partito. Non credo, e molti compagni me lo confermano, che il Partito radicale che ho vissuto quest'anno in via di Torre Argentina 18 sia sempre stato così.
Quindi qualcosa è già cambiato, o sta cambiando. Dobbiamo solo prenderne atto. Così come in seguito alla presa di coscienza di questo cambiamento della società italiana e del suo modo o della sua possibilità di accogliere le nostre iniziative, l'anno scorso a Bologna abbiamo fatto la scelta del transnazionale. L'unica scelta che potevamo fare, anche se per questo non meno valida e motivata di quanto avrebbe potuto esserlo una vera scelta, ossia un optare tra due o più possibilità. In quel caso non c'erano altre possibilità. Sapevamo che da un lato in Italia non avremmo potuto ottenere molte risposte per la condizione in cui è stata messa l'identità radicale, e che d'altro canto le risposte solo italiane non erano più, come per noi non lo erano mai state, sufficienti alla soluzione delle questioni di oggi. Ma con la scelta di obiettivi transnazionali non si è ancora realizzata la creazione di un'organizzazione realmente transnazionale; forse perché non si è sottolineato che proprio di creazione si trattava e
non di semplice (a quanto pare non così semplice) adattamento di vecchie strutture a nuove realtà.
E l'ostacolo maggiore alla transnazionalità reale di questo Partito radicale è che non è riuscito ad essere contemporaneamente transpartito. Non possiamo sperare di costruire qualcosa se non siamo almeno in venti, trentamila a farne parte, ma non possiamo neanche pensare che chi non si è iscritto finora lo faccia senza esitazione adesso solo perché diciamo di essere transnazionali. Siamo sì transnazionali, chi lo mette in dubbio, ma non siamo un transpartito anche se abbiamo posto le basi per divenirlo. Il fatto è che ora come ora siamo sempre i radicali, il Partito radicale della memoria storica. Noi ora andiamo dicendo che bisogna essere socialisti, comunisti, liberali, democratici "anche radicali", ma dovremmo poter essere "anche radicali" anche nel partito transnazionale che vogliamo costruire. Il partito-transpartito non radicale, ma - tra gli altri - di coloro che sono anche radicali.
Mi auguro che al Congresso qualcosa cambi. Nel marzo dell'87 al XXXII Congresso la questione era: "Salvare il partito? Salvarne le speranze, salvarne le ragioni." Ora abbiamo la risposta. Muoia il partito radicale, vivano le speranze, vivano le ragioni.