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Palma Carmelo - 1 febbraio 1989
Crisi e trasformazione
di Carmelo Palma

SOMMARIO: La crisi del Pr - sostiene Carmelo Palma - risiede "esclusivamente nella difficoltà di potere essere partito di governo e di legalità all'interno di confini nazionali ed ideologici (quali quelli delle attuali forme-Stato e forme-partito) che stravolgono e limitano la funzione che il diritto formale deve esercitare nella disciplina delle libertà". Per questo "la trasformazione in senso transnazionale non è l'irriconoscibile trasfigurazione di un'eredità, ma semmai una necessità resa tragica dal conflitto che questa affermazione di primato della politica può provocare contro chi prospera e specula sull'attuale deregulation internazionale (dalla grande industria ai trafficanti di droga)".

(Notizie Radicali n.21 del 1· febbraio 1989)

Esistono due grandi questioni attraverso le quali si può leggere l'attuale crisi del Pr. La prima è data dalla difficoltà di intenderci proprio sul significato della parola crisi; la seconda da quella di capire se esista un'identità radicale - una sorta di necessaria tradizione - che debba essere salvaguardata da possibili cambiamenti.

Queste due questioni sono a tal punto collegate che è difficile che una certa interpretazione della parola crisi (e vedremo quale) possa prescindere da una certa percezione dell'identità radicale. Se l'identità del Pr è un'identità "storica" è infatti possibile richiamarsi a una tradizione di interessi e di "politiche" (ad esempio quella dei diritti di coscienza e di differenza) che deve necessariamente legarsi a una certa forma di partito che le rappresenti, essendo il partito dei diversi e delle diverse coscienze (cioè il partito degli omosessuali, degli obiettori e delle minoranze) già di per sé un elemento di differenza e di frizione nel panorama delle forze politiche tradizionali.

La caratteristica del Pr (così almeno percepita fuori di esso) come di un partito-movimento, la cui istituzionalità è essenzialmente funzionale al riconoscimento e alla rappresentazione delle diversità (sociali, sessuali, morali) è nella coscienza comune la caratteristica avvertita ancora come predominante.

Dall'inizio fino, diciamo, a "radio-parolaccia" il Pr è il partito dei diversi, fino al punto di divenire anche il partito (cioè colui che dà voce e rappresentazione se non diretta rappresentatività) di coloro che sono diversi ed estranei anche alla tradizione radicale e che la usano per chiamarsene subito fuori o per mostrarsene insofferenti (da Toni Negri al Tony di Roma famoso dei fili diretti della radio). Quindi - e forse a ragione - coloro che attualmente si oppongono alla trasformazione in senso transnazionale del partito, sono soprattutto preoccupati che questa trasmutazione finisca per recidere il legame che il Pr ha con una tradizione di iniziative e di "diversità", non perché le abbandoni, ma perché si pone in una condizione transistituzionale nella quale, almeno nel breve periodo, definirle e rappresentarle compiutamente, ad esempio con iniziative legislative, risulterebbe impossibile. Di più; secondo

questa interpretazione, questa trasformazione non sarebbe una risposta ma un sintomo della crisi del partito radicale, cioè della sua incapacità di organizzare e rappresentare le diversità. Dall'altra parte, a sostegno della trasformazione del Pr, interviene una diversa nozione della crisi del partito, ma soprattutto della sua identità, che io personalmente avverto in questi termini: il Pr non è il partito di massa nè un partito popolare, neppure quando rappresenta settori maggioritari della pubblica opinione o esigenze diffusissime o bisogni immediati o, come spesso accade, fasce - ristrette o ampie che siano - fortemente omogenee e univocamente orientate rispetto ad un modello di trasformazione della società. Il Pr è un partito

essenzialmente estraneo alla nozione premoderna della politica, che individua nei partiti i garanti ed i rappresentanti di certi interessi diffusi, anziché di certi altri (i partiti insomma rappresentanti più che i partiti governanti). Che i partiti si siano trasformati in una sorta di sindacalismo politico assolutamente autoreferente - cioè legato esclusivamente alle esigenze e volto totalmente alla gratificazione della propria base, sia essa un clero, una lobby, una classe o una morale - è vieppiù vero quanto più il "complicarsi" e l'integrarsi dei meccanismi di produzione del profitto e del benessere (cioè di costruzione della ricchezza e della felicità) ha per sempre spazzato via l'ipotesi - che però è il termine classico delle politiche premoderne - di una completa affermazione di una parte (cioè di una classe, di un fronte morale o di un fronte di interessi) sulle altre. Tutto ciò ha reso di fatto inservibili anche quelle teleologie storiche e quelle morali che predicavano la necessità di una radicale

egemonia di una parte sull'altra, spesso a compimento della "logica" e "giusta" affermazione di un blocco sociale sull'altro. Su questo non ci sono dubbi: i partiti sindacali e clericali (anche in senso laico e non solo della sinistra) di oggi sono gli epigoni dei partiti costruiti e pensati come coscienza, garanzia e pienezza istituzionale e politica di un qualche soggetto sociale. Il Pr è invece - e questa è la definizione positiva - il partito del governo (e non il partito di una parte) ed il partito della legalità, intendendo per governo la caratteristica funzionale della politica non alla difesa di certi interessi ma alla disciplina della loro dialettica, e per legalità il sistema di garanzie che assicura, attraverso lo strumento istituzionale e legislativo, la regola e la forma di questa dialettica concorrenziale, e non la statualizzazione di una qualche "verità" o di un qualche interesse; niente a che fare dunque con i "partiti dello Stato" che intendono lo Stato come un soggetto principe (ma certo no

n in senso machiavelliano) o un meta-soggetto sociale da parte del quale si legittimano e si avallano (e non semplicemente si regolano) i comportamenti. La crisi del Pr risiede quindi esclusivamente nella difficoltà di potere essere partito di governo e di legalità all'interno di confini nazionali ed ideologici (quali quelli delle attuali forme-Stato e forme-partito) che stravolgono e limitano la funzione che il diritto formale deve esercitare nella disciplina delle libertà. In altre parole la crisi del Pr è una crisi non nella definizione di una politica (cioè di un'iniziativa coinvolgente) ma nella stessa politica, cioè nello stesso ambito entro cui le politiche possono vantare margini di applicabilità e criteri di verificabilità (cioè forza di governo). Se si accoglie questa definizione meramente funzionalistica della politica si devono, però, trarre due conseguenze:

A) La tradizione politica del Pr non sarà più tanto (se mai è stata) una tradizione di lotta e di soggetti rappresentati, ma di modi e forme di politica e di prerogative di governo (una tradizione assai più metodologica che storica). Il primato della politica è essenzialmente dato dalla sua specifica caratterizzazione di funzione di governo, e non di soggetto storico (su cui si riversino interessi più o meno diffusi). Quindi l'eredità che il partito deve rivendicare non è quella delle singole lotte, ma quella più propriamente istituzionale che lo ha portato ad intendersi come il partito della legalità e della garanzia costituzionale. In questo senso la trasformazione in senso transnazionale non è l'irriconoscibile trasfigurazione di un'eredità, ma semmai una necessità resa tragica dal conflitto che questa affermazione di primato della politica può provocare contro chi prospera e specula sull'attuale deregulation internazionale (dalla grande industria ai trafficanti di droga).

B) Il Pr deve essere un partito che sappia realizzare ciò che si prefigge per non scadere su di un piano di testimonianza politica, che è ciò che attualmente realizzano, anche se in una forma macabra e redditizia, gli attuali partiti del non-governo, e che è ciò a cui noi maggiormente addebitiamo l'eclissi della politica (cioè il suo scadimento da forza di governo a forma di rappresentazione).

 
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