Giancarlo Loquenzi, direttore di Radio RadicaleSOMMARIO: Radio radicale è in crisi, non solo perché lo è il partito, ma anche perché è stata intrappolata dalla legge sull'editoria. Così Radio Radicale è divenuta ostaggio di un meccanismo burocratico che può soffocarla semplicemente rinviando l'erogazione dei fondi dovuti.
(Notizie Radicali n· 21 del 1· febbraio 1989)
In molte occasioni ci siamo trovate a dover porre mano alla macchina da scrivere per raccontare i momenti di crisi che Radio Radicale ha attraversato nei suoi oltre dieci anni di vita. Si è trattato di momenti in cui era necessario lasciare per un istante o per un mese il microfono e trovare altre forme per raccontare, appunto, quello che di volta in volta accadeva. Nonostante sia accaduto molte volte e dovremmo ormai averci fatto l'abitudine a lanciare allarmi per la sorte di Radio Radicale, questa volta raccontare è più arduo, meno scorrevole. Non perché il caso sia più grave o più urgente di altri che pure abbiamo affrontato in passato, ma perché questa volta è in gioco qualcosa di più dell'esistenza di Radio Radicale: si tratta della sua natura e della sua storia. Ci troviamo infatti a dover lanciare un allarme accorato perché ritardano ad arrivare i soldi della legge sull'editoria: un ritardo che rischia, nel giro di non più di due mesi, di strangolare Radio Radicale. Ci troviamo quindi a dover protesta
re perché non arrivano dei soldi che non volevamo e che pure abbiamo dovuto accettare per non chiudere subito, due anni fa. Lo ricorderete, durante l'estate 1986, la campagna che poi diede vita a quella che chiamammo "radio parolaccia" ci portò ad essere inseriti come organo di partito in un comma della legge sull'editoria che in quei giorni si stava discutendo in Parlamento. In quell'occasione avevamo tentato di aprire un mercato, soprattutto con le istituzioni, di concludere dei contratti, stabilire delle convenzioni perché fossero pagati i servizi che rendevamo e non altro; ma questo non fu possibile; era fuori dalla logica dei partiti a cui spettava di decidere e così trovarono una gabbietta in cui rinchiuderci, un comma della legge sull'editoria. Noi accettammo, si trattava di due miliardi l'anno, quasi la metà del bilancio della radio. Accettammo perché sapevamo che nella sostanza quei soldi non ci avrebbero cambiato, quella dizione "organo di partito" che eravamo costretti a mettere sulla carta intest
ata non avrebbe in verità cambiato i nostri reali rapporti con il Partito radicale, in fondo sapevamo, quei soldi, di poterli restituire in informazione ai cittadini. Il ritardo di oggi però mette in luce la contraddizione in cui siamo caduti: siamo ostaggio di un meccanismo burocratico, che può ritardare all'infinito l'erogazione di quei fondi, o può graziosamente consentirlo, magari all'ultimo minuto. Stiamo giocando a un gioco che non controlliamo e che può travolgerci. Ci siamo resi conto in questi due anni di applicazione perversa della legge sull'editoria che essa è uno strumento perfetto per finanziare con soldi pubblici i grandi gruppi editoriali e tenere perennemente sulla corda l'editoria debole, quella radiofonica in particolare. Allora che fare? I telegrammi a Misasi, sul cui tavolo giace da mesi la nostra pratica? Forse. Per chiedere che venga applicata una legge della Repubblica. Ricorrere alla magistratura? Anche, ma con quali speranze e quali tempi? L'unica risposta inequivoca resta, credo, l
'iscrizione al Partito radicale, in un momento in cui ancora una volta la vicenda della radio diventa emblematica e anticipatrice delle stesse riflessioni che il partito, in questi mesi, sta conducendo. L'alternativa è rassegnarci a essere tutti, ogni giorno, un po'' meno liberi.