Maria Grazia Cogliati DezzaPsichiatra, operatrice pubblica tossicodipendenze. CMAS Trieste
SOMMARIO: La proposta di legge governativa è il prodotto di una ideologia semplificatrice e riduttrice. La condotta personale non può essere assoggettata a una sanzione penale. La legge 685. Le ragioni dell'antiproibizionismo. I limiti e le difficoltà dei servizi pubblici e privati di fronte al problema della tossicodipendenza.
(Atti del Convegno "No alla legge governativa sulla droga, repressiva, illiberale, ingiusta", Roma 14 febbraio 1989)
Faccio parte del coordinamento nazionale degli operatori della tossicodipendenza, questi fantomatici operatori che lavorano anche nel pubblico. Spendo solo pochissime parole sulla legge, perché molti hanno già parlato prima di me e sono state ripetute molte cose; comunque, il fatto più importante è quello di arrivare a creare un fronte il più largo possibile contro questa proposta di legge Russo-Jervolino.
In particolare volevo sottolineare due questioni: la prima, che la proposta di legge è stata fatta con un'operazione estremamente semplificatrice e riduttrice, è stata proposta come unica soluzione al problema della tossicodipendenza, come se una proposta di legge potesse affrontare e risolvere il problema della tossicodipendenza.
Questo serve a spostare il problema e a fare dimenticare che i nodi di fondo sono relativi al tipo di vita che oggi si può condurre, al tipo di organizzazione sociale, ed in particolare alla vita di quelle persone che si rivolgono ai servizi pubblici. In questo senso è falso dire che il problema della tossicodipendenza tocca tutti in maniera indistinta, perché non è vero.
L'angolo visuale dei servizi pubblici dà un quadro particolare del problema, ed ancora si può affermare, per quanto il fenomeno sia cambiato nel tempo, che si tratta ancora di un fenomeno di classe: la gente che arriva al servizio pubblico è tutta giovane; il trenta-quaranta per cento non ha conseguito il diploma di scuola media; il settanta per cento è disoccupato, proviene da famiglie disaggregate, inesistenti, con delle patologie pesanti e ha un'appartenenza di classe che in largo modo è quella del proletariato o del sottoproletariato. Si deve quindi affermare che è ancora un fenomeno di classe.
C'è da domandarsi allora se è giusto, da un punto di vista della legge, intervenire su un consumo personale: io credo che la condotta personale, che non lede i diritti degli altri, ma è espressione della sfera di libertà e di autonomia della persona anche quando si risolve in un danno verso se stessi, non deve e non può essere assoggettata a una sanzione penale.
La sanzione penale, che ha sempre un alto costo, deve servire ad evitare i comportamenti che essa punisce. A questo riguardo c'è da chiedersi se le sanzioni si sono dimostrate utili e, senza rifarsi al proibizionismo degli Stati Uniti, basta guardare all'esperienza dei nostri servizi, dove sappiamo quello che succede al tossicodipendente che delinque e che finisce nelle patrie galere.
C'è, quindi, da riaffermare con grande convinzione l'assurdità della proposta di sanzione, della punibilità del tossicodipendente; sappiamo perfettamente che riaffermare questo significa indurre a commettere il reato, significa allargare ancora di più il numero dei tossicodipendenti che oggi sono nelle carceri italiane, e bisogna ricordare che, del numero complessivo dei detenuti in Italia, circa il quaranta per cento sono tossicodipendenti.
Due parole per quanto riguarda la 685, la bistrattata 685 che è stata una buona legge, ma come tante altre buone leggi - per esempio la 180 sui manicomi - ci si è dimenticati di applicarla, tanto è vero che è stato proposto da più parti di arrivare a sanzionare gli enti inadempienti.
Si vende l'idea che la 685 non sia una legge punitiva: non è affatto vero, lo dimostra il fatto che il quaranta per cento dei detenuti in Italia sono tossicodipendenti entrati nelle carceri italiane per reati connessi alla tossicodipendenza. Che la 685 sia una legge non applicata lo dimostrano pochissimi dati riferiti dal Labos: in Italia solo il trenta per cento delle USL ha dei servizi pubblici, questo prevalentemente al nord; per quanto riguarda il rapporto operatori-utenti, al nord esiste un operatore per cinquanta tossicodipendenti, al sud un operatore per sessantasei tossicodipendenti, e per quanto si dica che il problema della tossicodipendenza va ben al di là dall'essere un problema essenzialmente sanitario, in Italia, nei servizi pubblici, laddove esiste un organico, il cinquantadue per cento dei profili professionali è esclusivamente sanitario; laddove esiste un organico, perché in moltissime città i servizi vengono tenuti in piedi da operatori del tutto precari e a Trieste - dove lavoro io - la re
gione ha pensato bene di non proporre assolutamente una pianta organica per questo servizio.
Prima di parlare dei servizi, vorrei dare una risposta all'interrogativo che era stato posto all'inizio, proibizionismo, antiproibizionismo, regolamentazione e legalizzazione dell'eroina. Io credo che ci siano alcuni fatti che giocano a favore di questa proposta, per quanto essa sia di difficile soluzione, e uno di questi è indubbiamente il problema del carcere; il carcere, dove finisce la gran parte dei tossicodipendenti, offre un doppio del problema. Come l'istituzionalizzazione in manicomio poneva il doppio della malattia mentale, così oggi fa il carcere, la carcerizzazione rispetto al tossicodipendente.
Anche per quanto riguarda l'AIDS sappiamo benissimo quelle che sono le direttive dell'organizzazione Mondiale della Sanità per tentare di ridurre l'uso della droga illegale, per cercare di ridurre il numero dei sieropositivi e dei possibili, probabili futuri malati di AIDS.
Io credo che il problema sia ben più difficile di questo: in fin dei conti è anche la questione che si pone rispetto al metadone. Rispetto al metadone vengono giocate delle campagne assolute, sia dalla destra che dalla sinistra: dalla destra si assiste a una situazione per cui nei servizi pubblici si toglie il metadone perché si dice che il metadone inquina il servizio, inquina il rapporto terapeutico con il soggetto tossicodipendente, e si proclama che finalmente, tolto il metadone, finisce l'aggressività dei soggetti tossicodipendenti in quel servizio, ma ci si dimentica anche di dire che così si toglie l'aggressività, così il servizio si vuota di tossicodipendenti.
Allo stesso modo, però da altre parti, si dice che occorre togliere il metadone perché il metadone viene ritenuto un sedativo, qualcosa che addormenta la gente, non gli permette di reagire, non gli permette di combattere e di avere consapevolezza delle contraddizioni in mezzo alle quali vive.
Certamente il metadone è un palliativo, però credo che occorra avere una posizione equilibrata fra le due: non è giusto demonizzare il metadone, come non è giusto enfatizzare il suo significato, perché comunque il problema non è la sostanza stupefacente, illegale o legale che può essere data, ma il problema è la vita di questi ragazzi che si rivolgono al servizio. Chi sono?
Si parlava prima di soggetti, di persone che hanno dei bisogni diversi gli uni dagli altri, ai cui bisogni occorre tentare di dare una risposta articolando delle risposte il più diversificate possibili, il più complessive possibile.
Diceva prima Lamberti che dalla droga si esce da soli, dopo un certo iter, ed è vero, ma è anche vero che se esistono dei servizi pubblici, l'obiettivo che si dovrebbero proporre è quello di stimolare questo processo di fuoriuscita da questo dramma.
Vorrei dire alcune cose sui servizi pubblici, così come sui servizi privati, proprio perché troppo spesso si fa di tutt'erba un fascio: esistono servizi pubblici e servizi pubblici, esistono servizi privati e servizi privati.
Il ministro Donat Cattin ha detto dei servizi pubblici che sono vuoti e sfasciati, e credo che abbia perfettamente ragione, semplicemente si è dimenticato di dire quali e quante risorse mancano a questi servizi per funzionare, quali esigui bilanci regionali esistono per poterli far funzionare, quali piante organiche, quali strumenti.
Per non fare, però, il muro del pianto dell'operatore, è evidente per noi che non è solo un problema di risorse che non permette al servizio di crescere, di funzionare e di dare delle risposte adeguate, ma è anche qualcos'altro che non funziona; questo qualcos'altro ci sembra di poterlo ravvedere in interventi che si fanno estremamente riduttivi e tecnici: si sceglie un metodo di intervento, una tecnica di intervento esclusiva, come se potesse risolvere tutti i problemi diversificati che si hanno davanti. E' evidente che in quella risposta così ristretta può entrare soltanto una fetta limitatissima di questioni, una fetta limitatissima di soggetti.
Per i servizi privati: anche qui c'è differenza enorme da servizio a servizio. E non voglio riferirmi soltanto ai camerini di contenzione o alle catene di Muccioli, ma anche a quei tantissimi servizi privati in Italia che non solo fanno una selezione lunghissima, estenuante, accuratissima, ma propongono degli interventi di omologazione pesantissima, di annullamento pesantissimo dell'individualità dei soggetti, delle istanze soggettive; propongono delle regole precise, dure, rigide alle quali o il soggetto si assoggetta, o ne viene immediatamente espulso.
Diceva qualcuno che dopo questi iter selettivi e dopo questi ingressi in questa comunità, molte persone vengono trasformate in sacchi, tutti vuoti e tutti uguali, e ritengo che questa sia la situazione di parte del privato oggi in Italia.
Grazie al cielo, così come per i servizi pubblici che non sono tutti vuoti e sfasciati e non sono tutti limitati e appollaiati su delle tecniche riduttive di intervento, altrettanto c'è da dire per dei servizi privati che si muovono nella logica di emancipazione del soggetto che fa riferimento al servizio privato.
Quello che volevo dire è che è falsa, è ormai fuori luogo la contrapposizione tra servizio pubblico e servizio privato: bisogna chiedere al pubblico di aprire una relazione privata al proprio interno, cioè di introdurre elementi come il sentimento, il coinvolgimento, la passione e di aprire una relazione pubblica e sociale nel privato, cioè di chiedere al privato di occuparsi non solo di quell'individuo che reclude nelle proprie mura, ma anche di quella fetta di territorio che ha dato vita a quell'individuo, cioè di una rete sociale, anche se piccola.
Un filo conduttore unico tra pubblico e privato è il discorso della deistituzionalizzazione, cioè il discorso della trasformazione istituzionale, che riguarda sia il pubblico, sia il privato, sia un servizio di una enorme città, sia quello di una piccola comunità per sei-sette persone.
Qui ce ne sarebbe da dire: che cosa significa la deistituzionalizzazione, che cosa significa risposte alternative, come le cooperative, i laboratori, l'attivazione del tempo libero eccetera.
Non ne parlo e finisco, dicendo che al di là di opposizioni faziose che non rispondono né ad una pratica, né ad un'ideologia reale, occorre operare un'alleanza, una sinergia enorme oggi fra pubblico e privato; un'alleanza e una sinergia che, legata al particolare momento storico che stiamo vivendo, deve trovare il più ampio fronte possibile, non solo tra pubblico e privato, ma anche rispetto ad altre forze politiche, sociali e culturali.