di Antonio StangoSOMMARIO: L'invasione cinese, le violazioni dei diritti umani e il genocidio in corso nel Tibet.
(Notizie Radicali n· 55 del 13 marzo 1989)
Vi sono zone nel nostro pianeta in cui i princìpi sui quali dovrebbe fondarsi la convivenza umana sono violati. Vi sono terre dove il semplice esistere come individui o come popoli viene negato; in qualche caso senza che nessuno - se non pochi ostinati ricercatori del vero - ne abbia conoscenza. Il mondo scivola troppo velocemente per vedere le aree non bene illuminate dai riflettori della "grande politica" e dei veicoli di comunicazione internazionale. E c'è una parola, genocidio, della quale ciascuno prova orrore, ma che è ancora la sola che possa descrivere (come ai tempi di Hitler o di Stalin) cosa stia succedendo, seppure in forme diverse, in Amazzonia o nel Sud-Est asiatico, nel Corno d'Africa o nell'europea Romania. Talvolta, per alcune settimane il sipario si leva su questi e altri scenari: è necessario approfittarne subito, e salire con forza sul palcoscenico per inserirsi fra le persone del dramma prima che nuovamente la tenda si chiuda, e che le luci - di un anniversario o di una testimonianza - s
iano respinte.
E' quanto, oggi, siamo chiamati a fare per il Tibet.
Il 10 marzo del 1959 veniva soffocata nel sangue la prima grande rivolta della popolazione tibetana dopo un decennio di durissima occupazione cinese: migliaia i morti, decine di migliaia gli imprigionati. Trent'anni dopo, si spara ancora sulla folla che manifesta per le vie di Lhasa, l'antica capitale di un "Paese delle nevi" vasto quanto l'Europa occidentale e i cui abitanti - oggi quasi una minoranza per le massicce immissioni di coloni cinesi - chiedono sempre con forza il rispetto della propria cultura, della propria lingua, della propria stessa vita. Donne costrette ad abortire e sterilizzate, a loro insaputa, sotto l'effetto dell'anestesia; oltre seimila templi distrutti durante la "rivoluzione culturale", e tuttavia non ricostruiti; l'ottanta per cento delle foreste rase al suolo per trarne legname da esportazione; fabbriche di armi nucleari e depositi di scorie impiantati in un'area nota, un tempo, per la sua mitica bellezza naturale; arresti di massa, torture, uso indiscriminato della pena di morte,
omicidi extragiudiziali perpetrati da agenti di polizia: tutto questo si legge nei rapporti di Amnesty International e nelle testimonianze di centinaia di osservatori, di inviati, di semplici turisti. Le autorità cinesi smentiscono parzialmente, bloccano i visti d'ingresso, ricorrono alla legge marziale, sequestrano rollini fotografici e videocassette; ma ormai la verità si fa strada, le informazioni filtrano.
Il Dalai Lama, massima autorità spirituale del suo popolo e persona di enorme prestigio internazionale, vive dal 1960 a Dharamsala, un villaggio dell'Himalaya indiano, quale capo del governo tibetano in esilio. I suoi seguaci chiedono che possa far ritorno in patria; ed egli compie passo dopo passo un cammino di pace e di ricerca di dialogo anche con il governo di Pechino. Nel 1987 ha rivolto al Congresso degli Stati Uniti, in nome dell'interdipendenza globale che caratterizza il nostro tempo, un appello per la libertà e la pace del Tibet e perché venga favorito un accordo con la Cina. A sostegno delle linee fondamentali del suo piano di pace, esposto anche al Parlamento Europeo, i radicali hanno attuato a Roma il 10 marzo una manifestazione - la prima di questo genere in Italia - davanti all'ambasciata della Repubblica popolare cinese, insieme con l'Associazione Italia-Tibet, l'Associazione internazionale per i diritti dell'Uomo, monaci buddisti, sanyasin ed esponenti del Fuori! e della Lega italiana per i
diritti e la liberazione dei popoli.
Bandiere tibetane, striscioni e cartelli in italiano e in cinese con slogan quali "Libertà per il Tibet", "Basta con la politica di colonizzazione" e "Autogoverno per il popolo tibetano" sono stati esposti con grande disappunto dei rappresentanti diplomatici cinesi, i quali tuttavia hanno accettato di incontrare esponenti del Partito radicale e di ricevere - nello spirito di amicizia e di dialogo da noi proposto - una lettera-appello basata sui cinque punti del piano del Dalai Lama: trasformazione di tutto il tibet in una zona di pace; abbandono da parte del governo di Pechino della politica di colonizzazione; rispetto dei diritti umani e delle libertà diplomatiche; ripristino e protezione dell'ambiente naturale e cessazione da parte della Cina dell'uso del Tibet per la produzione di armi nucleari e come discarica di scorie radioattive; apertura di un'equa trattativa sul futuro assetto del Tibet e sulle relazioni fra il popolo tibetano e quello cinese.
Iniziative parlamentari analoghe verranno prese dagli eletti radicali al parlamento Europeo nonché alla Camera dei Deputati e al Senato italiani, con l'intento di giungere a prese di posizione decise e sostenute da un ampio schieramento di forze politiche. Potrebbe essere - secondo l'espressione di fonti diplomatiche cinesi - un'interferenza negli "affari interni" della Cina. E' invece il tentativo di impostare un lavoro comune, e se sarà possibile insieme con gli stessi governanti di Pechino, per la salvezza non solo di un popolo ma di una parte importante della storia, del presente, delle speranze di vita di tutto il mondo.