di Giovanni NegriSOMMARIO: Non è in crisi la fecondità politica radicale, è in crisi invece la sua organizzazione e il progetto di partito nuovo. E' perciò tempo di scelte che non possono essere più rimosse.
Ancora non sono spenti gli echi e gli sviluppi della politica radicale di questa stagione - dal Congresso di Budapest al voto del 18 giugno - e già urge, incalza il dibattito attorno al nodo che, se irrisolto, condurrà inevitabilmente alla liquidazione del partito, dell'esperienza che ha rappresentato, delle potenzialità e speranze che oggi in sé riassume.
Non vi sono dogmi nè soluzioni taumaturgiche, sicuramente è invece necessaria una grande riflessione e una paziente ricerca delle risposte adeguate a preservare e accrescere il ruolo del Pr, senza peraltro la certezza - come in ogni vero tentativo di trasformazione - di conquistare tali risposte e cogliere l'obiettivo. Per i radicali è iniziato un conto alla rovescia di una manciata di mesi, quanti ormai ci separano dal termine della attuale legislatura italiana (poco importa se otto, venti o alcuni in più). Con lo scadere della presenza radicale istituzionale verranno infatti meno anche quei cespiti finanziari oggi di fatto indispensabili alla attività politica radicale. Quale partito, allora? Quale modello organizzativo? Quali energie umane e quali risorse finanziarie per farlo vivere? Ve n'è la volontà, la forza, la progettualità o di già si accettano ripiegamenti o mezze soluzioni?
Non saremo, temo per l'ennesima volta, aiutati dall'attenzione dei media e dei loro esperti in un dibattito unico, senza precedenti per alcuna forza politica. Non è lamentela ma constatazione: il disinteresse è la sola costante fissa con cui i media hanno accompagnato negli anni le scelte fondamentali della politica radicale e i momenti nei quali la nostra trasparente e proclamata fragilità è divenuta prima consapevolezza di alcuni e poi intelligenza di molti, consentendo sin qui l'originale compiersi della vicenda radicale.
Lo schema tenderà perciò a riproporsi con un disinteressato silenzio e ancor peggio attraverso la superficiale banalità dei soliti radicali con il cappello in mano per scongiurare la solita chiusura del partito. Ma non di questo si tratta, bensì del concretissimo interrogarsi (e interrogare per quanto possibile opinione pubblica, classi dirigenti, partiti o parlamentari, associazioni) sulla effettiva volontà e sulle reali possibilità di dare vita a un partito transnazionale, transpartitico e nonviolento, cioè pienamente, attivamente fondato sulle tre caratteristiche che nei nostri discorsi e documenti abbiamo individuato come indispensabili per la nascita del "partito nuovo", per la riforma della politica, per governare problemi della società del nostro tempo altrimenti irresolubili se non al prezzo del ricorso alla violenza, alla mutilazione di democrazia, di diritto. E per quanto ci riguarda questo interrogarsi può proprio partire, altrettanto concretamente, dalle condizioni e dalle prospettive finanziarie
del Pr così come oggi si presentano: ancorarsi ad esse significa cimentarsi con la realtà, certo drammatica ma non per questo eludibile. A differenza e anzi in speculare contrasto con la disattenzione dei media i fatti, la ragionevolezza e il buon senso dovrebbero condannare a vita un Partito radicale che ha, se non tutti i risultati, quanto meno tutte le carte in regola per meritarsi l'eterna condanna a vivere, a continuare a intuire e prevedere come ben pochi hanno saputo e voluto. Ma a poco vale ostinarsi a ripetere che oggi occorre creare un nuovo diritto della persona, un diritto delle genti contemporanee che o sarà transnazionale o non sarà, alla faccia di ogni rituale commemorazione di valori autenticamente liberali, socialisti, cristiani o di ogni esigenza "verde".
Internazionale nonviolenta dei diritti umani, partito dell'emblema gandhiano innalzato a Pechino e laddove la crisi del socialismo reale produce sangue, partito che nel mondo del secondo millennio alza la bandiera della nuova classe degli affamati oppressa e uccisa dalla moderna cultura della barbarie, intransigenti militanti dei liberi Stati Uniti d'Europa ormai solo edificabili con il concorso pieno e attivo delle primavere dell'est così necessarie agli autunni delle nostre democrazie reali, leghe e associazioni dell' "antiproibizionisti di tutto il mondo uniamoci" per conquistare leggi transnazionali capaci di fronteggiare una criminalità transnazionalmente organizzata, rischiano adesso di essere vuote chimere. E altrettanto chiacchiera, in luogo di parola e progetto, rischia di essere quel transpartito che nella nostra Italia si è affermato il 18 giugno non come furbizia e manovra tattica (tale e tanto è stato in sostanza il massimo del riconoscimento mediatico all'intreccio delle operazioni radicali) be
ne come primo passo della riforma del sistema politico che ora comporta grandi capacità di iniziativa e coordinamento, a maggior ragione dinnanzi al neonato governo, il governaccio del proprio potere eterno, il governaccio del nessun futuro per i problemi, le diseguaglianze, la crescita civile ed europea del paese. Non è insomma in crisi la fecondità, la ricchezza straordinaria della politica radicale: essa è semmai troppa, sovrabbondante, stentata nel tradursi in puntualità e costanza di iniziativa.
E' in crisi, questa sì gravissima, la sua organizzazione, il progetto di partito nuovo, la forma e perciò anche la sostanza dell'essere radicale. E' certo tempo di scelte, un tempo scandito da un conto alla rovescia che già è iniziato e sarebbe suicida ignorare. Ed è attorno a questo nodo, a questo punto di crisi, che dobbiamo aprire una profonda riflessione che ci auguriamo investa personalmente ciascuna compagna e ciascun compagno.