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Marquez Garcia - 5 novembre 1989
Che succede in Colombia?
García Márquez

SOMMARIO: García Márquez racconta come si sta dissanguando il suo paese, la Colombia, strangolato dalla mafia del narcotraffico. L'autore rivela l'esistenza di colloqui e perfino d'ipotesi di accordi fra i narcotrafficanti e il governo boliviano per mettere fine al traffico di droga e al terrorismo. Queste ipotesi furono boicottate e fatte fallire da Ronald Reagan. A partire da questi elementi, García Márquez sostiene che la guerra alla droga scatenata dagli Usa è in realtà l'alibi per legittimare l'intervento militare e il controllo politico nordamericano nei confronti dei paesi dell'america latina.

(El Pais Domingo - 5 novembre 1989)

Agli inizi di ottobre la stampa rivelò improvvisamente uno dei segreti meglio custoditi dalla Colombia: almeno per un anno, rappresentanti autorizzati del governo ebbero conversazioni formali con rappresentanti autorizzati dai trafficanti di droga. L'emissario ufficiale lo negò, quello dei trafficanti lo confermò, e quello del governo finì per ammetterlo senza altre spiegazioni. Alla fine, come sempre succede in questa guerra di grandi misteri, nulla fu chiarito. Però la rivelazione permise di stabilire, una volta di più, fino a che punto la storia di quella guerra tende a ripetersi, da quando è iniziata e lungo tutto il suo percorso, senza tregua e senza trovare sbocchi. Solo che si ripresenta sempre con impeti rinnovati e manifestazioni sempre più drammatiche.

Il primo tentativo di dialogo che trapelò al pubblico fu nel maggio del 1984, quando Pablo Escobar Gaviria, capo del "cártel de Medellín", ebbe un contatto con Alfonso López Nichelsen, in un hotel di Panama, perché trasmettesse una proposta formale al presidente Belisario Betancur, in nome di tutti i gruppi colombiani di trafficanti di droga.

Promettevano di ritirarsi dagli affari, di smantellare le basi di raffinazione e commercializzazione della cocaina, di rimpatriare i loro immensi capitali e d'investirli nell'industria e nel commercio nazionale nel pieno rispetto della legge, e, ancora, di dividere con lo Stato il duro peso del debito estero. In cambio di tutto ciò non aspiravano nemmeno ad una amnistia. Volevano solo essere giudicati in Colombia, senza che fosse applicato il trattato di estradizione con gli Stati Uniti, che iniziava ad attivarsi in quei giorni dopo svariati anni di non applicazione.

L'Amnistia, di moda allora in Colombia, rappresentava il ramoscello d'ulivo che il Presidente Belisario Betancur regalò, sin dal suo primo giorno di governo, ai movimenti armati, alcuni dei quali "vegetavano" sui monti da trent'anni. Non vi era quindi nulla di strano nel fatto che i trafficanti di droga pretendessero di trovare riparo anche loro sotto quello stesso ombrello di perdono e oblio, a maggior ragione nel momento in cui era quasi impossibile dimostrare, a loro carico, alcun reato grave. Perdipiù in un paese dove erano poche le grandi fortune che avrebbero avuto il coraggio di confessare i propri peccati originali.

Fu con un sospiro di sollievo che il Presidente Betancur ricevette quell'offerta, che del resto era perfettamente conseguente alla propria politica di dialogo. Carlos Jiménez Gómez, Procuratore generale della Repubblica, che da più di un anno manteneva conversazioni dirette e confidenziali con i maggiori trafficanti alla ricerca di un accordo onorabile, tornò allora a riunirsi con loro a Panama. Mai fu stabilito se questa volta fosse autorizzato o no dal Presidente. Io credo che lo fosse, e non c'era niente da rimproverargli.

Non poté fare un passo in più. Infatti il giornale El Tiempo, il 4 luglio dello stesso anno, denunciò gli incontri mettendo così in allarme l'opinione pubblica sulla possibilità di accordi. Di conseguenza il Presidente Betancur fu obbligato a fare marcia indietro e perfino a negare pubblicamente di aver avuto alcun rapporto con la vicenda. E il peggio fu che il governo non ebbe - né prima, né durante, né dopo - alcuna alternativa al dialogo con i narcotrafficanti: né una offensiva giudiziaria, né una spedizione punitiva e neppure una politica definita. A sei anni di distanza si vede con chiarezza che quella volta il paese perdette una magnifica occasione per risparmiarsi gran parte degli orrori di cui adesso sta soffrendo.

Adesso esistono motivi per pensare che il sabotaggio del dialogo fu ispirato dagli Stati Uniti, per ragioni che avevano poco a che vedere con il narcotraffico e molto con i deliri anticomunisti del presidente Reagan. L'uomo incaricato di quella missione speciale fu l'ambasciatore Lewis Tambs, stella del gruppo di Santa Fe e della destra militante del reaganismo, che giunse a Bogotá in quei giorni con grande rumore di stampa e con una parola coniata per il caso: "narcoguerrilla".

Nelle sue lunghe circonlocuzioni accademiche, era evidente

che Tambs era contrario a qualsiasi ipotesi di pace negoziata, e cioè alla proposta centrale del governo Betancur. Inoltre l'ambasciatore americano era ossessionato dalla volontà di ottenere la conferma della validità del trattato, sottoscritto dal governo precedente, con il quale si consacrava l'indegna clausola dell'estradizione in Usa di cittadini colombiani.

Con la sua drastica interpretazione del trattato, l'ambasciatore Tambs pretendeva di dimostrare che i narcotrafficanti e i guerriglieri fossero una sola cosa: "narcoguerrilla". Il suo obiettivo era quello d'inviare truppe in Colombia con il pretesto d'imprigionare gli uni e combatter in realtà gli altri. In fin dei conti, presto o tardi, tutti noi colombiani potevamo essere estradabili.

Questa fu l'impressione che ebbi in una colazione con l'ambasciatore Tambs, poco dopo il suo arrivo a Bogotá. Il tempo finì col darmi ragione. In effetti, trasferito all'ambasciata di Costa Rica, Tambs fu un protagonista di primo piano dell'Irangate e aiutò il colonnello Oliver North a costruire un aeroporto clandestino per la "contra" nicaraguense. E peggio ancora, con i soldi del narcotraffico.

Vita da ricchi, abitudini da poveri

Ancora noi colombiani ci chiediamo perché i trafficanti proponessero quell'armistizio e se fossero sinceri. Io credo che lo fossero. E una loro frase pronunciata in quell'epoca con grande magniloquenza lo evidenziava: "preferiamo una tomba in Colombia a una cella negli Stati Uniti". Di certo temevano il trattato di estradizione. Ma questo non era tutto. Credo che la spinta di fondo fosse una ragione di carattere culturale che non si suole prendere in considerazione: i trafficanti, per la loro origine e la loro formazione, non erano pronti a vivere fuori dalla Colombia. I forzieri di Alì Babà non gli servivano a niente in nessun altro posto del mondo, in nessun altro posto potevano sentirsi più sicuri o potevamo meglio esibire la propria ricchezza. Non volevano morire, tantomeno in carcere, e meno ancora con quella favolosa fortuna che avevano accumulato. Volevano invece spendersela da vivi con i loro compari di sempre, parlando nel gergo dei poveri, e mangiando cibi creoli cucinati nei paioli di casa. L'unic

a cosa di cui avevano bisogno - e che li metteva in ansia - era un posto nella società. Inammissibili senz'altro furono i mezzi - ignobili e controproducenti - con i quali vollero reclamare questo posto quando la proposta di dialogo fallì.

Il rifiuto diede loro la possibilità e il tempo di cercare altre alternative di sopravvivenza, mentre il trattato di estradizione finì nel dimenticatoio. Non risparmiarono immaginazione e risorse per trovarle. Già da prima i narcotrafficanti erano di moda. Godevano di completa impunità e di un certo prestigio popolare, per le opere di carità che facevano nei sobborghi dove passarono la propria infanzia di emarginati. Se qualcuno avesse voluto arrestarli poteva farlo fare dal poliziotto dell'angolo. Ma buona parte della società colombiana li vedeva con una curiosità e un interesse che sconfinavano nella compiacenza. Giornalisti, politici, industriali, commercianti e anche semplici curiosi assistevano alla festa permanente della fattoria Nápoles, nei dintorni di Medellín, dove Pablo Escobar aveva un giardino zoologico con delle giraffe e ippopotami veri, importati dall'Africa per il divertimento dei loro invitati. Nell'ingresso della fattoria era collocato, come un monumento nazionale, l'aereo che trasportò ne

gli Stati Uniti il primo carico di cocaina.

Incoraggiati dal beneplacito di tanti e dall'indifferenza della giustizia, non si accontentarono della ricchezza, ma vollero anche il potere. Escobar era stato eletto come subentrante alla Camera dei rappresentanti e promoveva dei seminari sui diritti umani. Carlos Lehder, che gestiva discoteche giovanili senza preoccuparsi delle perdite, eresse una statua di John Lennon per perpetuare la sua memoria nella sibaritica città di Armenia. Organizzò inoltre un movimento politico e fondò un giornale di estrema destra, nazionalista, stampato con inchiostro verde in omaggio all'"erba". Si recava con la sua scorta di "pistoleros" al Congresso e, ridendo a crepapelle, appoggiava i piedi sulla balaustra.

Jorge Luis Ochoa, del "cártel de Medellín", e Gilberto Rodríguez Orejuela, del "cártel de Cali", che adesso sono nemici a morte, si muovevano comodamente per mezzo mondo comprando cavalli di razza e cercando dei partner europei per i loro affari legali. Tutti e due furono fermati in Spagna, estradati in Colombia, e una volta lì, liberati. Con circostanze così favorevoli, nessuno dei loro amici politici fece loro il favore di avvertirli che gli attentati personali, oltre ad essere dei crimini atroci, erano anche un errore politico che li avrebbe trascinati alla rovina.

Un atto di vendetta

Il primo grosso assassinio fu quello del ministro della giustizia, Rodrigo Lara Bonilla, dell'aprile 1984. Purtroppo Betancur non fu abile in quella occasione. Assediato dalle accuse pubbliche di passività, e forse a causa della sua commozione personale, ricorse per la prima volta al trattato di estradizione che lui stesso ripudiava e che forse ripudia tutt'ora in cuor suo. Lo fece senza dubbio per mancanza di uno strumento legale più temibile e più immediato, senza pensare che la gestione del trattato, da quel momento in poi, non sarebbe stato più una questione di principio bensì sarebbe diventato un atto di vendetta.

Il cerchio infernale non si fece attendere. Carlos Lehder, catturato sembra grazie ad una delazione interna, sconta negli Stati Uniti una stravagante condanna all'ergastolo, più di 135 anni. Circa 20 colombiani e tre stranieri residenti in Colombia sono stati estradati alla fine di ottobre. I trafficanti non hanno negato la loro "partecipazione intellettuale" alla morte di un numero ormai imprecisabile di persone, tranne che per quella del ministro Lara Bonilla che fu l'origine della guerra contro l'opinione pubblica. Almeno 800 membri della "Unión Patriótica", compreso anche il loro candidato alla presidenza, Jaime Pardo Leal, sono stati vittime di una feroce campagna di sterminio. L'assassinio dell'indimenticabile Guillermo Cano, direttore del giornale "El Espectador", è stato per me una tragedia personale che non ho potuto superare. Non sono neppure riuscito a sopportare il successivo accanimento contro il suo giornale nel quale ho vissuto tanti anni come reporter e al quale sono riconoscente.

Giudici e magistrati, i cui modesti stipendi bastavano a malapena per vivere ma non per educare i loro figli, si trovarono con un dilemma senza alternative: o si vendevano o venivano ammazzati. La cosa più ammirevole e straziante è che più di quaranta, insieme a tanti giornalisti e funzionari, scelsero la morte.

Quello che risulta più incomprensibile è che i trafficanti non smisero mai, neppure nel corso della carneficina, di ricercare strade per il dialogo. E' ormai impossibile stabilire il numero di tentativi pubblici e segreti. Per ciò che io so, alla fine del 1985 ho incontrato in Messico un emissario di Pablo Escobar, che voleva ribadire al governo colombiano la proposta di Panama, ma con una modifica spettacolare: avrebbero lasciato da parte la questione del trattato di estradizione, che era stata sempre il problema centrale, rinviandola ad un momento successivo all'accordo. Fu un tentativo che fallì come tutti gli altri. Comunque la Corte suprema di giustizia dichiarò incostituzionale il trattato pochi mesi più tardi, ma il furore della carneficina non diminuì. Non è strampalato pensare, tuttavia, che questo accanimento obbedisse a gravi ragioni che non sono mai state rivelate al paese da nessuna delle parti coinvolte nel confitto.

Penso che non sia stato tenuto in conto fino a qual punto la situazione politica e sociale rappresentava un terreno di cultura propizio e provvidenziale per la cultura del narcotraffico, in una Colombia grande e sventurata, con vari secoli di feudalesimo rupestre, 30 anni di guerriglia senza fine e tutta una storia di governi senza popolo. Nel 1979, quando il generale Omar Torrijos visitò gli allevamenti di bestiame del Sinú, nei Caraibi colombiani, si sorprese per la quantità di civili armati che scortavano gli allevatori. Ricordò che così era iniziato anche nel Salvador, quando era tenente. Lo disse in tempo al presidente colombiano di allora Julio César Türbay. Quest'ultimo rispose, attraverso il suo ministro della difesa, con una frase lapidaria: "in Colombia c'è pace sociale". Ebbene: chi non si sbagliò fu Torrijos. A poche leghe dalle prospere fattorie che lui visitò - nel tratto centrale del mio leggendario fiume Magdalena - stava già avanzando un processo di disgregazione sociale che sarebbe culminat

a nel corso di pochi anni con la creazione di un impero parastatale sotto gli auspici del narcotraffico.

Il modo con cui cominciò è storicamente risaputo. Negli anni sessanta, le Fuerzas Armadas Revolucionarias Colombianas (FARC) che sono il braccio secolare del partito comunista, avevano impiantato nel Magdalena Medio diversi fronti di guerriglia, con l'intenzione espressa di difendere i contadini inermi dai latifondisti insaziabili. Ma i propositi originali del FARC degenerarono quando incominciarono a finanziare la loro guerra attraverso i rapimenti, i ricatti e le estorsioni degli allevatori.

Questi, esasperati per la persistenza della violenza, armarono degli eserciti privati legittimati addirittura dal governo come gruppi di autodifesa. "Inizialmente era tutta una campagna per la liquidazione fisica del comunismo", scrisse un giornalista che visitò la regione sei anni fa. "Ma dopo attaccarono i ladri di bestiame nella campagna, i rapinatori dei paesi e perfino i mendicanti e gli omosessuali". Gli allevatori sopravvissuti furono rovinati e minacciati dalle bande di malviventi che loro stessi avevano armato.

Stato dentro lo stato

Furono gli stessi allevatori ridotti in povertà a mettersi in contatto con i narcotrafficanti che erano ansiosi di nuove cause su cui investire le loro immense ricchezze. Da quell'alleanza nacque quello che oggi è il Magdalena Medio: un vasto impero di 50.000 chilometri quadrati, due volte più grande di El Salvador e molto più armato di quello che conobbe il generale Torrijos nella sua giovinezza. Tutto ciò accadde nel corso di diversi anni, a meno di trecento chilometri dal palazzo dei presidenti e a uno sputo della guarnigione militare, e divenne pubblico solo pochi mesi fa quando un disertore raccontò la storia completa.

I narcotrafficanti portarono i soldi, la tecnica e il loro indiscutibile talento imprenditoriale. La violenza artigianale diventò scientifica, con dei messianismi paramilitari e scuole di sbirri gestite da mercenari pagati con l'oro a Londra e a Tel Aviv. Almeno per uno di questi mercenari, sembra che ne fosse informata la propria ambasciata di Bogotà: l'israeliano Yair Klein, famoso dal 1973, quando il suo commando liberò in meno di due secondi un aereo sequestrato nell'aeroporto di Lod. Da quella scuola uscirono gli adolescenti criminali reclutati nei quartieri miserabili delle città che in questi anni hanno seminato il terrore e la morte nel paese. Tuttavia, a causa di uno scherzo dialettico irreparabile, quello che le FARC concepirono come una rivoluzione, finì per esserlo in realtà, ma al contrario: un mondo a parte, non più con i suoi servizi primari di sicurezza ma con corpi legittimi di polizia al comando di sindaci e consiglieri comunali eletti dal popolo. I piani sociali di edilizia, salute ed educ

azione sembrano essere stati concepiti come una sfida al governo centrale. I loro intrepidi dirigenti, compiaciuti di loro stessi, crearono un partito politico di destra, di estrema destra, che cercò di ottenere, poco tempo fa, il riconoscimento legale. Il loro emblema è il mirino telescopico del fucile.

Quando il resto dei colombiani, io fra questi, aprì gli occhi su questa realtà scoraggiante era ormai troppo tardi. Lo stato dentro lo stato non si era accontentato delle praterie fertili e dei tramonti strazianti del Magdalena, ma dilagava e si mimetizzava negli angoli meno immaginabili della nazione. Un osservatore acuto delle nostre realtà ha detto che tutta la società colombiana è drogata. Non tanto per la dipendenza dalla cocaina - che appunto non è allarmante in Colombia - quanto da una droga molto più perversa: il denaro facile. L'industria, il commercio, le banche, la politica, la stampa, gli sport, le scienze e le arti, lo Stato stesso, tutti gli organi pubblici e privati sono coinvolti in qualche modo - forse con poche eccezioni, forse senza saperlo e perfino in buona fede - in una matassa d'interessi creati che ormai nessuno può dipanare. E' incredibile: 1.700 ufficiali dell'esercito e della polizia stessa furono processati, condannati e destituiti in tre anni per rapporti con il narcotraffico; 25

politici figurano in una lista di beneficiari del narcotraffico pubblicata dagli Stati Uniti; copie degli atti confidenziali del Consiglio di Sicurezza furono trovate nella valigetta di un trafficante; le telefonate personali di alti funzionari pubblici sono ascoltate lì dove non si deve, e in alcune perquisizioni domiciliari sono stati trovati nomi di connazionali insigni coinvolti in affari sporchi.

E' una piovra silenziosa e inafferrabile che non si vede da nessuna parte anche se è dovunque, che in tutto s'infiltra e tutto contagia, molto al di là dei nostri confini. Forse persino lo stesso governo ignora fino a che punto questi guadagni innaturali lo hanno aiutato ad alleggerire le tensioni sociali. I più cauti stimano gli investimenti inconfessabili in mille milioni di dollari all'anno. Ma potrebbero essere facilmente cinque volte più grandi. Secondo i calcoli della stampa, i tre capi principali della droga in Colombia hanno più di tremila milioni di dollari ciascuno. Non è concepibile che una capacità monetaria di questa dimensione si accontentasse della passione effimera delle cose materiali, senza penetrare negli oscuri meandri della coscienza e della volontà degli uomini. Tuttavia, l'ossessione freudiana dei trafficanti sembra essere la acquisizione di terre, terre, terre, terre e ancora più terre. Poco tempo fa celebrarono con una strepitosa festa l'acquisto dell'ettaro numero 180.000. Come se s

tessero cercando di comprare la mappa intera, con i suoi condor e i suoi fiumi, il giallo del suo oro e il blu dei suoi mari per far sì che nessuno potesse cacciarli da dove vogliono stare. Nel bel mezzo di questa realtà delirante si era innalzata come una speranza remota la voce del candidato presidenziale Luis Carlos Gálan invocando ancora una volta una redenzione nella quale nessuno crede più. Il suo assassinio quasi rituale, nella piazza pubblica e fra diciotto guardie del corpo, aveva messo il governo colombiano finalmente davanti alla sua tremenda responsabilità storica. La reazione del Presidente Virgilio Barco, anche se tardiva e imprevedibile, non poteva essere più energica.

La sua prima misura, come già fece Betancur, fu di ripristinare il trattato incostituzionale di estradizione attraverso i poteri straordinari dello Stato d'assedio. I trafficanti sembravano presi di sorpresa da una determinazione che non credevano possibile in un uomo di tanta prudenza. L'occupazione imprevista dei palazzi e delle fattorie, dei loro laboratori clandestini, degli aerei fantasma, degli yacht che trasportavano la droga, degli archivi segreti, fu un colpo mortale dal quale non si riprenderanno molto facilmente, e che senza dubbio si rifletterà nella produzione e nel commercio della droga. Tuttavia i loro peggior nemici sono proprio i loro metodi che finiranno per rivoltargli contro la nazione intera.

Forse l'aspetto più sorprendente dei colombiani è la loro sconvolgente capacità d'abituarsi a tutto, alla buona e alla cattiva sorte, con una capacità di riprendersi che sconfina nel sovrannaturale. Alcuni, forse i più saggi, nemmeno sembrano essere coscienti di vivere in uno dei paesi più pericolosi del mondo. E' comprensibile: in mezzo alla paura la vita continua, e forse diventa ancor più preziosa quando bisogna sopravvivere quotidianamente. La stessa domenica del funerale di Luis Carlos Galán, la cui morte ha commosso veramente la nazione, le folle impazzite di gioia scendevano in piazza per festeggiare la vittoria della squadra nazionale di calcio sulla squadra dell'Equador.

La guerra sarà lunga

Ma il terrorismo urbano è una componente rara nella cultura centenaria della violenza colombiana. Le bombe lanciate fra la folla che uccidono innocenti, le minacce telefoniche che superano qualsiasi altro turbamento della vita quotidiana, finiranno per unificare tutti, amici e nemici, contro il destino invisibile. Perfino le peggiori morti hanno un'etica che il terrorismo non ha. Forse si può imparare a vivere con la paura di quello che è accaduto, ma nessuno riesce ad imparare a vivere con l'incertezza di quello che può accadere: che una esplosione possa spezzare i corpi dei figli a scuola, o una sventagliata di mitra possa falciarti all'uscita del cinema o che possano saltare in aria le bancarelle dei fruttivendoli o si possa disintegrare l'aereo in pieno volo o si possa avvelenare tutta la famiglia con l'acqua del rubinetto. NO: nella così lunga epopea delle follie umane il terrorismo non ha mai vinto né potrà mai vincere una guerra.

Da parte sua il presidente Virgilio Barco, con il suo difficile destino di navigatore solitario, sicuramente sa già che la guerra che si prevedeva fulminante sarà invece l'impresa più difficile e rischiosa dei suoi anni. Tra l'altro perché il suo nemico multicefalo si tiene informato dall'interno del potere attraverso confidenti fantasma che hanno delle orecchie con cui tutto ascoltano e occhi con cui tutto vedono. Ma soprattutto perché le risorse di cui il governo dispone non sono all'altezza delle dimensioni del nemico. Gli Stati Uniti accusavano la Colombia di negligenza nella lotta contro il narcotraffico mentre nelle strade delle città americane circolava da allora più droga che nelle nostre strade, mentre nelle loro liste di complici nascondevano i nomi dei loro connazionali che così rimanevano impuniti. E devono essere in tanti, in un paese che l'anno scorso ha consumato 270 tonnellate di cocaina. Tuttavia, nel momento della verità, l'aiuto che stanno prestando alla Colombia nella situazione attuale d

i emergenza non è neppure confrontabile con l'aiuto, ufficiale e non, che avevano ricevuto i contras del Nicaragua nell'arco di 8 anni: 2.000 milioni di dollari. Ed è molto probabile che l'aiuto alla Colombia superi questa cifra mentre il presidente Barcos si ostina - come farà fino alla fine - a non permettere alle truppe nordamericane di entrare nel paese anche solo per annientare il narcotraffico.

Tutto questo fa pensare che la guerra sarà lunga, rovinosa e senza avvenire. E il peggio è che non ci sono alternative. A meno che non si verifichi un felice imprevisto: una di quelle stranezze illuminate che tante volte hanno salvato l'America latina dal disastro finale. Se non è il dialogo può essere qualunque altra cosa a patto che non costi la vita a nessuno. A meno che prima che finisca l'interminabile guerra, non finisca di morire il paese.

Questo è, per disgrazia, l'unico presagio incoraggiante che mi viene in mente per non finire questo articolo con una conclusione catastrofica.

 
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