Giuliano PontaraOrdinario di Filosofia pratica presso l'Università di Stoccolma, Pontara è uno dei massimi studiosi di Gandhi. Ha curato per Einaudi una delle più ampie e complete antologie gandhiane
SOMMARIO: L'autore distingue tra digiuno di protesta e digiuno politico, specificando che il digiuno politico, ponendosi degli obiettivi la cui realizzazione dipende direttamente dall'interlocutore, costituisce una situazione coercitiva. Inoltre il digiuno politico è irreversibile, è un digiuno a morte. E allora praticando un digiuno politico è importante assicurarsi che presenti tutti i requisiti essenziali di un'azione nonviolenta, usandolo solo come ultima ratio, perché non perda la sua efficacia e non finisca per cadere nel ridicolo.
(Notizie Radicali n.248 del 14 novembre 1989)
Il Mahatma Gandhi, che del digiuno come metodo di lotta politica e nonviolenta (satyagraha) non solo aveva fatto uso in diverse situazioni, ma era anche un autorevole teorico, scrisse in una occasione le seguenti righe: "La maggioranza dei digiuni non sono assolutamente riconducibili all'ambito del satyagraha e sono, come vengono generalmente chiamati, degli scioperi della fame intrapresi senza alcuna preparazione e coscienza". Aggiungeva anche che "se si ripetono troppo spesso, questi scioperi della fame sono destinati a perdere anche la dignità e la efficacia che possono avere e a scadere nel ridicolo." (M.K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, 1973 e susseguenti edizioni, p. 189). Il digiuno, come lo sciopero, il boicottaggio e tanti altri metodi di lotta, può essere impiegato da chiunque, al servizio di qualsiasi causa, per cercare di conseguire qualsiasi fine. Come metodo di lotta il digiuno, in quanto tale, è un metodo di lotta non militare, e basta: non è né un metodo violento né un m
etodo nonviolento, ma può diventare o l'uno o l'altro a seconda di come viene usato.
Parlando del digiuno come metodo di lotta politica è importante tener distinto il digiuno di protesta da quello che per brevità possiamo chiamare il digiuno politico. Il digiuno di protesta è quello intrapreso per richiamare in modo drammatico l'attenzione di determinate persone, o più in generale dell'opinione pubblica, su determinate circostanze o determinati fatti ritenuti del tutto intollerabili. Attraverso le sofferenze cui il digiunatore o i digiunatori volontariamente e pubblicamente si sottopongono essi cercano di esercitare una certa pressione morale, di risvegliare le coscienze, o di renderle consapevoli dei fatti o della situazione che essi intendono denunciare. In quanto non vengono poste delle condizioni che altri debbono accettare affinché il digiuno venga interrotto, il digiuno di protesta non comporta, di regola, alcuna costrizione.
Il digiuno politico è il digiuno intrapreso allo scopo di cercare e di realizzare determinati e precisi obbiettivi la cui realizzazione dipende da altri contro i quali il digiuno quindi è direttamente rivolto. Costoro possono facilmente percepire la situazione creata dal o dai digiunatori come una situazione coercitiva, ossia come una situazione in cui viene loro imposta una scelta tra alternative che sono tutte a valenza negativa: o accondiscendere alle condizioni poste dal o dai digiunatori, oppure assumersi la responsabilità delle loro sofferenze e al limite della loro morte con tutte le conseguenze che ne possono scaturire. Non vi è dubbio che, nonostante le intenzioni di Gandhi, alcuni dei digiuni da lui intrapresi vennero percepiti da coloro contro i quali erano diretti come atti coattivi nei loro confronti; ed è anche vero che in certe situazioni coloro contro i quali Gandhi digiunò cedettero alle condizioni poste da Gandhi non in quanto persuasi della loro giustezza, ma in quanto paventavano le conse
guenze di un ulteriore prolungamento del digiuno del Mahatma.
Una seconda caratteristica del digiuno politico in quanto distinto dal digiuno di protesta, è quella che possiamo chiamare della irreversibilità: per essere massimamente efficace il digiuno politico deve essere un digiuno a morte nel senso che non viene posto in precedenza nessun termine temporale alla sua cessazione, la quale è fatta esclusivamente dipendere dalla accettazione, da parte dell'avversario contro cui esso è rivolto, delle condizioni poste dal o dai digiunatori (alcuni dei digiuni gandhiani furono di questo tipo). Questa caratteristica tende a sua volta ad acuire quella coercitiva.
In quanto e nella misura in cui nel digiuno politico sono presenti queste due caratteristiche della coazione e della irreversibilità, esso si presenta come un metodo di lotta che, almeno nell'ambito di un movimento sedicente nonviolento, deve essere preparato con la più grande attenzione, assicurandosi, sulla base di una chiarissima formulazione della concezione nonviolenta di cui si è fautori, che esso presenti tutti quei requisiti che si ritengono essenziali di ogni azione nonviolenta. In modo particolare bisogna chiarire se per nonviolenza si intende semplicemente ogni metodo di lotta che non sia militare, o comunque esente soltanto da violenza fisica, oppure si intenda qualcosa di più. Occorre anche chiarire se vi siano forme di costrizione compatibili con la concezione nonviolenta che si propugna, ossia forme di costrizione nonviolenta, ed in caso di risposta affermativa stabilire le condizioni cui un digiuno politico deve soddisfare per risultare esente da forme di costrizione violenta.
Da ultimo vorrei sottolineare che, a mio avviso, il digiuno politico, in quanto distinto dal digiuno di protesta, dovrebbe essere usato soltanto come ultima ratio (come infatti fu sempre usato da Gandhi). Ciò, perché o esso si presenta con la caratteristica di irreversibilità cui ho accennato sopra, e allora è una cosa estremamente seria perché ne può andare della vita di chi digiuna e sottopone coloro verso i quali è diretto ad una grandissima responsabilità, oppure non si presenta con la caratteristica della irreversibilità, e allora, se viene usato troppo spesso, può facilmente avverarsi, come metteva in guardia Gandhi, che esso perda sempre di più la sua efficacia e finisca addirittura per cadere nel ridicolo.