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Panebianco Angelo - 14 novembre 1989
L'importanza della causa-obiettivo
Angelo Panebianco

Politologo, opinionista del Corriere della Sera, è stato iscritto al Pr e ha fatto parte, come membro eletto, del Consiglio federale

SOMMARIO: L'autore compie un'analisi sulle opportunità di usare o non usare le tecniche della nonviolenza. La principale condizione del successo della strategia nonviolenta è data dal grado di divisione che il nonviolento sa creare all'interno dello schieramento avversario; e perché questo accada è necessario che la battaglia sia chiara e precisa e la vittoria possibile.

(Notizie Radicali n.248 del 14 novembre 1989)

Alla richiesta di una valutazione sul ruolo che le tecniche della nonviolenza possono svolgere nella lotta politica risponderò con due osservazioni, la prima di carattere generale (sulla nonviolenza in sé), la seconda di carattere più specifico (sull'uso che della nonviolenza ha fatto o fa il Partito radicale nella politica italiana). Sul primo punto dirò che nulla può essere mitizzato da un laico, neanche la nonviolenza. Altrimenti ci si fa battere in laicità persino da Gandhi, il quale era consapevole che la nonviolenza poteva servire al popolo indiano contro la democrazia britannica (il conto, politico e culturale, di sparare su masse inermi rischiava di essere altissimo per qualsiasi governo britannico) ma sarebbe stato uno strumento inservibile contro Hitler e le SS. Ciò che intendo dire è che la valutazione sulla possibilità di usare o non usare le tecniche nonviolente della disobbedienza civile non è una questione di principio ma di opportunità, che richiede, di volta in volta, un'analisi costi/benefi

ci e un esame della situazione in cui ci si trova immersi. Faccio un esempio. Piazza Tien An Men può essere letta come un caso paradigmatico di applicazione di una strategia nonviolenta che ha successo fin quando la configurazione delle forze in campo è di un certo tipo ma che porta alla catastrofe quando la configurazione delle forze cambia. Fin quando la lotta all'interno del Partito comunista cinese resta aperta Tien An Men svolge un ruolo importantissimo, contribuisce simultaneamente a indebolire e a paralizzare il potere totalitario. Quando però cambia la congiuntura politica, quando il gioco delle fazioni all'interno del partito si risolve a danno del segretario aperturista e a favore dei duri, in quello stesso momento la strategia nonviolenta perde qualsiasi valore. L'esito è ormai scontato. Da quel momento in poi l'unica incertezza riguarda solo il numero dei cadaveri che resteranno sul terreno quando verrà dato l'ordine del fuoco a volontà. L'esempio tragico di Tien An Men, o anche i rapporti fra Ga

ndhi e la democrazia britannica, ci aiutano a capire quale è la regola che, anche in situazioni molto meno drammatiche, decreta il successo o l'insuccesso della strategia nonviolenta. Si intende che uso l'espressione "nonviolenza" con riferimento all'uso sistematico delle tecniche della disobbedienza civile e non, semplicemente, dei normali strumenti, non violenti, della lotta politica democratica. La regola può essere così enunciata: la principale condizione del successo è data dal grado di divisioni che il nonviolento sa creare/alimentare all'interno dello schieramento avversario. Se lo schieramento avversario è diviso il nonviolento può sfruttare le divisioni, può giocare, come si diceva un tempo, sulle "contraddizioni" altrui. Se lo schieramento avversario è compatto la nonviolenza (nel senso stretto del termine) è inservibile e porta chi ne fa uso (è il caso del digiuno, ad esempio) al fallimento. Ma perchè lo schieramento avversario si divida occorre, in primo luogo, che la strategia nonviolenta sia po

sta al servizio di una battaglia dai contenuti chiari e precisi, sia finalizzata alla vittoria su un problema specifico e sul quale, almeno astrattamente, la vittoria è possibile. La strategia nonviolenta richiede, per avere successo, che una parte almeno dello schieramento ufficialmente avversario simpatizzi per la causa (l'obiettivo) per cui il nonviolento si batte. Infatti, non si simpatizza per il nonoviolento (non c'è alcun motivo per farlo), si può simpatizzare per la sua causa-obiettivo. E' un fatto che il Partito radicale ha riscosso i suoi maggiori successi nelle fasi in cui ha combattuto battaglie che in Italia sono sempre riuscite ad attivare estese simpatie e a dividere gli "schieramenti" avversari. Ed è un fatto che lo stesso Partito radicale ha visto logorarsi i suoi strumenti d'azione quando si è dedicato a cause-obiettivo diverse (la fame nel mondo, la politica transanazionale), incapaci, per loro natura, di suscitare simpatie (autentiche, non di pura facciata) e di creare divisioni. So bene

che molti radicali non la pensano così. Essi pensano che tutto dipenda, non dalla natura della causa-obbittivo che di volta in volta si sceglie, ma dal fatto che sono venute meno le condizioni di sussistenza di una autentica democrazia in Italia. Non intendo impegnarmi in una discussione, che sarebbe davvero lunga, su questo punto (che cosa è una "democrazia"? In quale luogo della terra è possibile, nel senso forte dell'espressione, "conoscere per deliberare"?). Constato semplicemente l'esistenza di una diversa valutazione che, a sua volta, discende da un diverso giudizio sullo stato della democrazia in Italia. E qui dunque mi fermo. Convinto però che in questo Paese, secondo me molto "democratico" e molto poco liberale, o sono i radicali ad assumersi la difesa dei diritti individuali di libertà oppure non lo fa proprio nessuno.

 
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