SOMMARIO: Ennio Di Francesco racconta, in un capitolo del suo libro "Il Commissario", l'episodio dell'arresto di Marco Pannella che fumò uno "spinello", nel corso di una conferenza stampa che si svolse nella sede del Pr nel luglio del 1975, per sollecitare la modifica della legislazione vigente sulla droga. Il commissario Di Francesco, dopo aver proceduto all'arresto di Pannella, gli inviò un telegramma in carcere per esprimergli, come cittadino, "stima e ammirazione".
(da "Un Commissario" di Ennio Di Francesco, Marietti editore, novembre 1990)
Un uomo chiamato Pannella
Nel quadro di questa febbrile attività investigativa, si verificò l'episodio Pannella.
La mattina del primo luglio, Masone mi convocò nel suo ufficio. Era molto seccato e mi incaricò di intervenire presso l'hotel Minerva dove quel "rompiscatole" di un radicale ne avrebbe combinata una delle sue.
Il Questore, il Comandante del Gruppo Carabinieri e il Procuratore della Repubblica avevano ricevuto un telegramma con il quale Pannella avvertiva che quel pomeriggio avrebbe commesso in quelI'hotel un reato riguardante la droga. »Intervenite --concludeva -- altrimenti vi denuncerò per ommssione d'atti d'ufficio Lo stesso telegramma era stato inviato ai direttoti di autorevoli testate.
Masone aveva interpellato prima di me colleghi di altre sezioni che avevano evitato l'incarico. I funzionari di polizia avrebbero forse pteferito affrontate il peggior criminale piuttosto che quell'imprevedibile politico, il quale sembrava godere nel provocarli e nel metterli in ridicolo. Come responsabile della Narcotici dovetti dunque occuparmene io.
Nel pomeriggio mi recai sul luogo, dove numerosi giornalisti e fotografi erano convenuti per l'inatteso spettacolo. Dal direttore seppi che Pannella aveva affittato la sala conferenze per un "incontro culturale". Mostrandogli il telegramma che parlava chiaramente di commissione di reato e, ricordandogli che era titolare di una licenza di polizia, lo diffidai dal concedere la sala per una tale finalità dichiarata. Il poveretto non sapeva che pesci prendere. Gli chiesi di invitare Pannella nel suo ufficio: lo avrei informato io stesso.
Questi arrivò dopo poco. Era la prima volta che lo incontravo: alto, dinoccolato, il viso scavato, con occhi chiari e penetranti. Gli feci notare che stava abusando della buona fede del direttore, il quale sarebbe incorso in sanzioni amministrative ora che sapeva il vero uso per il quale era stata affittata la sala. Pannella ascoltò con attenzione e quindi, dopo essersi consultato con l'avvocato De Cataldo che l'aveva seguito, informò gli spettatori che la "cerimonia" era rinviata. Si allontanò tra la delusione generale, lanciandomi un sorriso sornione. In Questura si congratularono per la soluzione del caso, ma la soddisfazione fu di breve durata.
La stessa sera giunse un telegramma analogo al primo che riproponeva la situazione per l'indomani: questa volta nei locali del partito radicale, in via di Torre Argentina.
Il mattino dopo, acoompagnato da un brigadiere, bussai alla porta della sede. Venne ad aprirmi Gianfranco Spadaccia in cuor mio speravo che tutto fosse di nuovo rinviato per la mancanza, come tenni a precisare, di un formale mandato giudiziario. Invece venni invitato a entrare con un'ospitalità teatrale e introdotto nell'ampio salone gremito di giornalisti e fotoreporter. In fondo, seduto dietro il tavolo della presidenza il carismatico Pannella con accanto personaggi noti: Loris Fortuna, De Cataldo, Cicciomessere, Mellini.
Appena entrato, un silenzio calò sulla sala e tutti si girarono verso di noi. Poi echeggiarono fischi, pernacchie e una voce femminile gridò »bravo sbirro! . Loris Fortuna invitò alla calma e cominciò a parlare. Per oltre un'ora si susseguirono gli interventi sul tema dell'assurdità della legge antidroga che invece di colpire i trafficanti si accaniva contro i tossicomani. Dentro di me annuivo, condivendo pienamente quelle considerazioni.
L'intervento di Mellini terminò e prese la parola Marco Pannella. L'attenzione di tutti raggiunse il massimo, si attendeva la fatidica "ora del crimine". Dopo circa mezz'ora di arringa, tirò fuori dalla tasca una sigaretta che acccese, quindi annunciò drammaticamente, rivolgendosi a me: <(Questo è uno spinello di marijuana! Invito il rappresentante della legge ad arrestarmi".
Il capitano Mazzotta del Nucleo Antidroga dei Carabinieri, giunto nel frattempo, scattò verso Pannella con quell'intenzione, mentre la gente in sala scandiva il suo disappunto con slogan contro di noi. Pregai con decisione l'ufficiale di lasciarmi dirigere l'operazione. Dal microfono chiesi il silenzio alla sala: mi feci consegnare da Pannella il "corpo del reato", lo misi con calma in una busta, la chiusi apponendo la firma sul retro e domandai al leader stupito che facesse altrettanto: non avevo mai arrestato nessuno con leggerezza e non avrei certo iniziato allora. Il fatto che in quella sigaretta ci fosse della marijuana era da appurare e ciò proprio per amor di giustizia Pannella, se voleva, era libero di venire con noi.
Si consultò concitatamente con i suoi legali e mi seguì mentre uscivo tra fischi e insulti.
Arrivammo in Questura a bordo della mia auto. Lo feci accomodare nel mio ufficio, in attesa dell'esito dell'analisi sulla sigaretta. Nel frattempo, lo pregai di leggere il testo di un intervento sul problema droga che pochi giorni prima avevo svolto a un convegno presso il circolo RAI, organizzato dall'allora vicepresidente Orsello .
In fondo dicevamo la stessa cosa: la legge andava cambiata. Intanto era ripreso il febbrile ritmo di lavoro di sempre: il telefono squillava ripetutamente, gli uomini entravano e uscivano per l'indagine in corso sui marsigliesi. Ciò sotto lo sguardo sorpreso delI'involontario spettatore.
Quindi giunse l'esito del test: positivo. Dopo essermi consultato con Masone dovetti applicare quell'articolo capestro: Marco Pannella era in arresto. Uscimmo tra una piccola fol]a di fotografi e giornalisti mentre uno di questi gridava con acredine: »Di Francesco, pcrché non mette i ferri a questo delinquente? .
Prima di entrare nell'auto di servizio, Pannella, serio in volto, si voltò dicendomi: »arrivederci, commissario, oggi ho imparato qualcosa .
Quindi la volante partì sgommando verso Regina Coeli.
La sera mi trattenni in afficio per riordinare i risultati dell'indagine sui marsigliesi. Tuttavia mi era impossihile non pensare a quell'uomo che era finito in carcere per avere affermato delle verità importanti per tutti quei giovani caduti nella trappola della droga. Dietro le sbarre la vita gli sarebbe stata resa ancor più dura da quelli contro cui voleva una lotta più decisa: i trafficanti.
D'impulso scrissi il telegramma: »Se come funzionario ho dovuto applicare una legge anacronistica e iniqua, come cittadino mirante a una società più giusta e umana, non posso non esprimerti stima e ammirazione . Destinatario: personale Marco Pannella -- Regina Coeli -- via della Lungara Roma.
Reato di telegramma
Il mattino successivo proseguì normalmente. Il pomeriggio invece trovai la guardia Moracci ad attendermi, bianco in volto, sulla porta dell'ufficio. Senza una parola, mi mostró l'ultima edizione del »Momento Sera . Un articolo in prima pagina titolava: »Il commissario che ha arrestato Pannella gli esprime solidarietà , con una foto scattata in quell'occasione. Il sangue mi si gelò nelle vene, non avevo pensato a una simile eventualità.
Sulla scrivania mi aspettava una "riservata personale". Nel fonogramma in copia si annunciava: »E stato redatto rapporto alla Procura della Repubblica di Roma riscontrandosi elementi di reato nel comportamento del dottor Di Francesco. Con effetto immediato si dispone che il citato funzionario cessi dal servizio presso la Squadra Mobile, in attesa delle decisioni adottate dal Ministero dell'Interno , firmato Ugo Macera, Questore di Roma.
Seguito dallo sguardo accorato dei miei uomini, schizzai nell'ufficio di Masone che, allargando le braccia, mi suggerì di andare direttamente dal Questore. Dopo un'ora d'attesa questi mi ricevette.
Il suo viso già grintoso per il caratteristico naso aquilino appariva questa volta apocalittico. Mi investì subito: avevo gettato discredito sull'Amministrazione inviando quell'assurdo telegramma al "mangiapoliziotti radicale". Lo interruppi: avrei risposto di quel che avevo fatto, ma era più importante che potessi continuare l'indagine sui marsigliesi, poiché entrava ora nella fase più delicata. Lo stesso Masone, subito convocato, confermò che nessuno era in grado così all'improvviso di continuare quel complesso lavoro investigativo. Inoltre il sostituto procuratore Cannata aveva indetto per l'indomani una riunione per fare il punto sulla situazione alla luce del rapporto presentatogli.
Da scaltro e appassionato poliziotto, Macera rinviò temporaneamente la decisione: nel frattempo avrebbe sentito il Ministero.
L'indomani, proprio mentre ero in procinto di recarmi a tale riunione, venni convocato d'urgenza dal vicequestore vicario. Ad attendermi c'era anche ]'ispettore generale Romanelli che mi annunciò con un sorriso sarcastico che doveva occuparsi ancora di me per un'inchiesta disciplinare. Cominciò freddamente a interrogarmi verbalizzando: come mi chiamavo, che funzione svolgevo, se conoscevo da prima Pannella, il motivo di quel telegramma, se ero cosciente della gravità del fatto. Declinai le generalità, ma chiesi che fosse anche scritto che si stava intralciando un'attività di polizia giudiziaria in pieno svolgimento, visto che il Sostituito procuratore della Repubblica, in quello stesso momento, mi stava aspettando. Dopo un attimo di perplessità, I'inquisitore schizzò nell'ufficio adiacente tornando dopo poco con Macera al fianco. Come un condannato li seguii fino alla stanza del Capo della Mobile. Il giudice Cannata, che sedeva per l'occasione alla scrivania di Masone, attorniato dai funzionari, gli andò inc
ontro per stringergli la mano elogiando il nostro lavoro investigativo.
Macera, imbarazzatissimo, lo interruppe bruscamente. Il Magistrato confuso, dopo aver guardato Masone che con strani gesti del viso tentava di comunicargli qualcosa, affermò la necessità della mia collaborazione, almeno per l'esecuzione di alcuni provvedimenti giudiziari che avrebbe firmato di lì a poco. Macera si congedò dandomi ancora ventiquattr'ore di tempo: poi avrei dovuto di nuovo incontrare Romanelli. Il giudice Cannata, fatto il punto della situazione, dispose una serie di operazioni da eseguire con urgenza.
Alla mia sezione toccarono tre perquisizioni domiciliari e alcuni ordini di cattura.
Alle quattro del mattino successivo, ancora al buio, uscimmo per quello che doveva essere l'ultimo mio servizio in quel caso.
I miei uomini, consapevoli dell'importanza del momento, erano anch'essi tesi e preoccupati. Formammo tre squadre e ciascuna andò all'indirizzo assegnatole: i tempi strettissimi imposti dal "pasticciaccio Pannella" ci faceva dubitare del buon esito dell'operazione. Due squadre, compresa la mia, tornarono deluse: le perquisizioni avevano dato esito negativo. Qualche ora dopo quando la terza rientrò, accompagnando alcune persone in manette, vidi il maresciallo Liberatore correre su per le scale gridando: »Dottor Di Francesco, ce l'abbiamo fatta! . Alzava al cielo come un trofeo due grosse bottiglie di vetro piene di polvere marroncina.
Si trattava di oltre un chilo di eroina, il più grosso quantitativo sequestrato a Roma in quei tempi. Altro che lotta ai tossicomani, avevamo osato mettere il dito nel cuore del clan dei marsigliesi e dei loro legami romani!
Subito si aggiunse infatti un altro colpo di scena. Il bravo appuntato Lo Giudice, dopo averne esaminato il documento, iniziò a scrutare intensamente uno dei fermati che cercava di confondersi tra gli altri. Poi, emettendo un grido strozzato, lo sollevò di peso: »Ma che Mario Javarone, tu sei Loria! . In effetti si trattava del ricercato Mario Loria, il "vivandiere" della feroce banda Cimino che aveva assassinato qualche anno prima, in via Gatteschi a Roma, i fratelli gioiellieri Menegazzo.
Mentre tutta la sezione esultava, Masone mi prese da parte, si congratulò e mi comunicò con garbo di sbrigarmi a redigere i verbali: dovevo considerarmi esautorato dall'indagine.
Cercai di contestare quell'ordine: I'operazione era appena all'inizio, il telefono del bar era ancora sotto controllo e proprio in quel momento di allarme per la banda avrebbe potuto fornire elementi utili. Alzò gli occhi al cielo: l'ordine veniva dall'alto ed era perentorio. Quella stessa mattina, il vicequestore D'Alessandro, dirigente della Divisione di polizia giudiziaria, aveva trasmesso alla Procura della Repubblica il rapporto di denuncia a mio carico per "reato di telegramma".
Stilati i verbali di arresto e sequestro, diedi le ultime disposizioni agli uomini della mia sezione e lasciai la Questura da un'uscita secondaria. Di fronte all'ingresso principale infatti un gruppo di giovani manifestava con vistosi cartelli. Ne riuscii a leggere uno che diceva: »Di Francesco è colpevole di pensare! . I radicali cercavano di alleggerire i miei guai: Spadaccia con una lettera al Questore sosteneva che il telegramma era stato pubblicato per errore.
Nel pomeriggio, Macera e Masone tennero una conferenza sulI'operazione contro i marsigliesi illustrandone con soddisfazione i risultati.
Alle domande di Silvana Mazzocchi de »La Stampa e di altri giornalisti che chiedevano dove fosse il commissario Di Francesco e se avesse parrecipato a quel servizio, venne risposto evasivamente che era impegnato in altri incarichi.
In effetti, mi trovavo con l'ispettore Romanelli per rispondere di nuovo alle sue domande incalzanti. Alla fine mi avtebbero comunicato il nuovo incarico: polizia amministrativa.
Il mattino successivo, mi recai di buon'ora nel mio ex ufficio della Narcotici, per effettuare il trasferimento nella nuova stanza. Avevo iniziato a raccogliere i miei libri quando il telefono squillò. L'agente alla sala intercettazioni mi informò con voce concitata che un uomo, esprimendosi in francese, aveva appena telefonaro al bar controllato: era appena giunlo da Marsiglia con "quelle cose" e avrebbe di lì a poco lasciato l'hotel Principe, dove aveva preso alloggio, per recarsi lì.
Mi precipitai nell'ufficio di Masone, ma né lui né gli altri funzionari erano ancora arrivati. Era necessario agire celermente al fine di intercettare il marsigliese prima del suo arrivo a bar.
Un rapido accertamento all'hotel, portò la conferma: era appena giunto un francese, aveva preso una camera e da pochi istanti si era allontanato a bordo di un taxi, un tipo tarchiato, pochi capelli, baffi alla mongola, jeans e giacca di pelle. Comunicai gli elementi alla sala operativa affinché le volanti di zona intercettassero quel taxi e controllassero con attenzione la persona che era sicuramente armata e trasportava qualcosa di compromettente.
Quindi uscii con una radiomobile guidata dall'appuntato Lo Giudice. Poco dopo, la radio di bordo comunicò che l'auto segnalata era stata bloccata nei pressi di Centocelle. Giunti sul luogo, il capo della volante mi informò che dal controllo non era emerso nulla di irregolare. Era molto strano. Interrogai il conducente del taxi per sapere se durante il tragitto l'uomo si fosse sbarazzato di qualcosa o avesse incontrato qualcuno. Appresi che aveva un borsone deposto nel bagagliaio: nessuno l'aveva controllato. Appena uno degli agenti fece per aprirlo, il francese cercò di fuggire, subito placcato dal vigoroso Lo Giudice. Da quel sacco spuntarono un mitra Sten, tre pistole, munizioni, parrucche e nastri adesivi. Chiesi via radio che informassero il Capo della Mobile, quindi tornammo fieri di quel risultato.
Ma la soddisfazione per l'operazione fu di breve durata. All'ingresso venni infatti verbalmente aggredito dal vicecapo della Mobile Cioppa, incaricato di continuare l'indagine: il mio compito in quegli uffici era finito, dovevo andarmene! I suoi uomini presero in consegna il francese e il sacco con le armi.
Mi allontanai da quegli uffici, dopo aver completato i verbali mentre il collega ordinava platealmente al piantone di chiudere la porta del mio ex ufficio e di dargli la chiave.
Non solo io dovevo sparire, ma anche quell'indagine doveva essere smantellata. Così la sera stessa una decina di poliziotti fecero irruzione nel bar di via dei Gerani. La grande operazione si concluse con una sanzione amministrativa al titolare per la sua non presenza fisica nell esercizio. Fu interrotto il controllo telefonico e vennero ritirati gli uomini dall'appartamento utilizzato come punto d'osservazione.
Si può immaginare la rabbia con cui avrei appreso qualche giorno dopo che tra le ultime pellicole sviluppate si poteva riconoscere, in un gruppo dinanzi al bar, Jacques Berenguer, il marsigliese ricercato per l'omicidio dell'agente Marchisella.
Chissà forse quell'indagine avrebbe potuto portare lontano: quel bar era una vera e propria base del connubio malavitoso romano-marsigliese.
Lo stesso sequestro di Amedeo Ortolani avrebbe successivamente mostrato contorni non proprio limpidi: si parlò di un regolamento di conti maturato in ambienti fino allora inesplorati, forse per colpire il padre Umberto, uomo d'affari legato alla Loggia P2. Anche il nome del funzionario della Mobile che così precipitosamente aveva ordinato l'irruzione nel bar di via dei Gerani sarebbe emerso nel quadro dell'inchiesta su questa particolare "confraternita".
Nei giorni successivi a quel trasferimento, quasi tutti i commenti erano a mio favore: quel che avevo fatto era ritenuto valido e coraggioso e la reazione dell'Amministrazione sproporzionata e ingiustamente repressiva. D'altro canto i risultati ottenuti erano una riprova di buona fede ed impegno professionale.
L'episodio Pannella accese inoltre un vero e proprio dibattito nelI'opinione pubblica: fino a che punto un funzionario dello Stato può criticare una legge che è chiamato ad applicare? Mai si era verificato che un commissario di polizia, generalmente considerato acritico esecutore, esprimesse un proprio parere, per di più diverso da quello dominante ed ortodosso. Questo fatto aveva messo in crisi l'Amministrazione: di qui il suo livore repressivo.
Di fronte a la reazione dell'opinione pubblica il vertice ministeriale tentò poi di dare una giustificazione addirittura "morale". Quel trasferimento, così si arrivò a dire, era stato disposto affinché »il funzionario non fosse in conflitto con la sua coscienza . Si dimenticava che io il mio conflitto, bene o male, lo avevo risolto e che il vero pericolo sarebbe se proprio l'Amministrazione divenisse interprete delle coscienze dei suoi funzionari.
lnsigni giuristi e filosofi del diritto, da Guido Calogero a Stefano Rodotà, da Paolo Barile a Giuseppe Branca, sostennero non solo la legittimità, ma il diritto di un pubblico ufficiale a criticare la Iegge, purché l'applicasse correttamente. Un simile comportamento doveva essere considerato come un contributo costruttivo e non già passibile di sanzioni amministrative e lantomeno penali. Il dilemma era insito nell'animo del fuzionario stesso che si trovava ad eseguire una norma che sentiva ingiusta.
Questa tesi trovò conferma giudiziaria nella sentenza con la quale il giudice Santacroce avrebbe archiviato la denuncia contro di me da parte dell'Amministrazione.
Ricevetti testimonianze di solidarietà sia da autorevoli personaggi del mondo politico e sindacale che da madri e giovani toccati direttamente dal dramma della droga.
Sergio Bozolo quel giovane che anni addietro avevo aiutato ad attraversare il "buco nero" dell'eroina, mi scrisse da Genova una lettera contenente questa bellissima frase di cui non credo d'essere degno: »Se un giorno verrà che la giustizia siederà sul banco degli imputati, sarai tu e quelli come te a formare la Suprema Corte .
Decine di funzionari di polizia sottoscrissero un documento pubblicato su »Ordine Pubblico con il quale esprimevano piena solidarietà nei miei confronti e sdegno verso l'Amministrazione.
In una riunione del Comitato Nazionale per la riforma, Rinaldo Scheda, a nome di tutti, assicurò la disponibilità a una manifestazione pubblica di protesta. Rifiutai commosso quell'offerta: l'episodio Pannella era un fatto che riguardava me personalmente e non ritenevo opportuno che il Movimento vi fosse coinvolto.
Sotto la spinta dell'opinione pubblica richiamata in maniera così eclatante ma anche così diretta, dal leader radicale, al drammatico problema della droga, l'apparato parlamentare accelerò i tempi di discussione dei vari disegni legislativi da anni fermi a Montecitorio e nel dicembre del '75 approvò la nuova legge.
Essa rappresentava certamcnte un coraggioso passo avanti ne] tentativo di affrontare globalmente la sempre più grave problematica.
Tuttavia, proprio sotto il profilo del]a chiarezza giuridica nel rapporto educazionale giovane droga, introduceva elementi di contraddizione. Se scompariva infatti quello spietato articolo che sanzionava il carcere obbligatorio per tutti, senza distinzione tra tossicomani e trafficanti, nella nuova normativa si rinunciava a ogni reazione sanzionatoria e dissuasiva dello Stato nei confronti dei consumatori, legittimando quasi una sorta di diritto a drogarsi.
Alcuni mesi dopo, a seguito della tragica vicenda di un giovane tossicomane, Maurizio Menegotto, stroncato dall'eroina, avrei scritto in un articolo su »Tempo illustrato anche le seguenti considerazioni: »La legge 22 dicembre 1975, n. 685, pur accogliendo alcune istanze non più dilazionabili, mostra per altri versi tutta la sua improvvisazione, incompetenza ed equivocità. Dal cieco carcere all'ipocrisia permissiva! Basti pensare all'assurdità dell'articolo 80 secondo cui non è punibile chi illecitamente acquista e detiene modiche quantità di droga per uso personale. Nessuna distinzione, insomma, tra droghe, nessuna remora all'uso, nessuna definizione di "modica quantità". Cioè eroina come caramelle! In compenso è fatta salva ]a possibilità di curarsi in ospedali o centri inadeguati. Ma che importa?
Tanto i figli dei ricclni vanno a curarsi in Svizzera. E proprio i caso di dire: i trafficanti ringraziano! .
Non per nulla il provocatorio titolo che avevo dato a quell'articolo era: »Tossicomani, ora crepate legalmente...! .
I nostri Iegislatori si sarebbero accorti solo anni dopo del circolo perverso che si stava favorendo.
Sotto il profilo dell'azione di polizia si ponevano, fortunatamente, le basi normative per realizzare un nuovo sistema di lotta più severa e professionale contro i trafficanti. Fu previsto infatti un Servizio Centrale Antidroga, interforze, per la lotta al crimine organizzato con competenza su tutto il territorio e con proiezioni internazionali. Se anche in milionesima parte, la mia disavventura aveva potuto contribuire a ciò, benedetto quel telegramma!
Nell'atmosfera già pesante di quei giorni un fatto molto grave mi amareggiò ancor di più.
Da alcuni quotidiani appresi che una lettera in francese contenente minacce nei miei confronti era stata spedita da Marsiglia dal fratello di uno degli arrestati. Il 25 luglio, »Momento Sera ne pubblicava in prima pagina un religioso suggerimcnto: »Commissario, comincia a pregare Dio . Nessuno dei responsabili dell'Amministrazione, così preoccupati e zelanti per altre questioni, aveva ritenuto opportuno avvisarmi personalmente.
Ma spesso la grandezza d'animo è inversamente proporzionale al grado. Vennero a trovarmi nel nuovo ufficio le guardie Moracci, Costantino, I'appuntato Gentile e altri della mia ex sezione: si offrivano di fare turni per scortarmi e vigilare la mia ahitazione. Commosso da quel pensiero, ringraziai rifiutando decisamente. Ciò non impedì loro, a mia insaputa, di stazionare con una certa frequenza sotto l'edificio in cui abitavo, per dare l'impressione di una qualche vigilanza
Questo comportamento non sfuggiva all'occhio vigile e preoccupato della signora Giulia, la vecchia cara portinaia.