di Francesco RutelliSOMMARIO: Partendo dall'analisi delle profonde differenze fra nonviolenza e pacifismo e delle contraddizioni presenti nella sinistra italiana, Francesco Rutelli denuncia i gravi rischi del conflitto militare in corso ed esprime la sua critica nei confronti di chi ha votato per l'intervento militare: "se si preme il bottone in Parlamento a favore della guerra, saranno poi altri a premere - senza chieder consigli - i bottoni dell'escalation bellica"
("L'Unità" 26/1/91)
Un certo numero di persone esclude, per motivi politici e morali, che la guerra possa essere la continuazione della politica. Ritiene che la maturazione della nostra civiltà debba misurarsi innanzitutto sulla base della capacità di risolvere progressivamente i conflitti in modo nonviolento. Molte polemiche e contrapposizioni di questi giorni riguardano il limite entro il quale la guerra potrebbe essere accettata come uno sviluppo della politica in situazioni particolarmente gravi di violenza e violazione del diritto; e la differenza tra pacifismo e nonviolenza.
Qual'è la linea di frontiera tra nonviolenza e pacifismo? La nonviolenza in politica è tradizionalmente estranea alla cultura della sinistra storica; nei decenni passati abbiamo conosciuto piuttosto il pacifismo come strumento politico di un approccio quasi sempre partigiano alla politica internazionale. La nonviolenza è stata considerata ed è rimasta una via utopica, astratta, talvolta rispettabile, ma senz'altro marginale. Negli ultimi anni la nonviolenza si è affacciata autorevolmente nelle posizioni del nuovo corso del PCI; ma le implicazioni teoriche e pratiche di questa novità non sono state sviluppate, limitandosi pressoché solo ad una manifestazione d'interesse verso movimenti e sensibilità (prevalentemente giovanili) diffusi nella società. Non soltanto il PCI è rimasto fermo. L'inadeguatezza di questo confronto ha riguardato in pieno anche le formazioni legate alla nonviolenza d'impronta religiosa, "morale" o politica. Il presupposto da cui io parto è il seguente: una cosa è il rifiuto individuale,
assoluto della violenza, che riguarda la persona e la sua coscienza (lo Stato regola in alcuni casi il diritto all'obiezione; negli altri casi il singolo cittadino si assume l'onere della violazione di leggi in ossequio alle proprie convinzioni morali, dunque accetta di pagarne con la disobbedienza civile il costo giuridico). Altra cosa è la pratica nonviolenta nell'ambito delle decisioni pubbliche, nazionali e internazionali. Quest'ambito coincide con la necessità di affermare regole giuste e di esigerne il rispetto; coincide con una visione del diritto (in quanto creazione di strumenti di garanzia per tutti, necessari innanzitutto per i più deboli) la cui applicazione è affidata a strumenti preventivi, dissuasivi ed anche coercitivi che comportino il minimo possibile di violenza e, anzi, una tendenza di deperimento costante della violenza sia nell'ambito istituzionale, sia in quello sociale.
UN'INSUFFICIENTE DENUNCIA DELLA VIOLENZA
La contraddizione tra pacifismo e nonviolenza nell'ambito della sinistra è rimasta in tutta la sua evidenza, ad esempio, nell'insufficiente denuncia dei metodi violenti propri di alcuni movimenti o settori di "liberazione nazionale" (incluso l'OLP).
Ci si i può e deve sforzare di comprendere condizioni di sofferenza particolari e culture diverse dalla nostra. Ma, se si sceglie una linea nonviolenta, questa non può valere solo per i giorni dispari, oppure a determinate latitudini. In definitiva: il pacifismo "assoluto", per quanto privatamente rispettabile, è una forma di barbarie politica, perché comporta il cedimento automatico di fronte all'invasore di turno; il pacifismo "occasionale" è una legittima scelta di schieramento, caso per caso; l'approccio nonviolento dovrebbe rispondere all'esigenza di salvaguardare il diritto risolvendo i conflitti secondo il minor ricorso possibile alla violenza.
Fermare e sconfiggere Saddam Hussein senza provocare conseguenze peggiori del male sarebbe stato, è ancora possibile? Ecco una cruciale verifica per le posizioni nonviolente. Noi sappiamo che Saddam Hussein è stato costruito pezzo dopo pezzo attraverso una politica dissennata di forniture militari e di tecnologie avanzate; egli avrebbe potuto essere pazientemente smontato attraverso un'applicazione intransigente e progressiva dell'embargo. Dopo l'indispensabile schieramento in agosto di forze militari per impedire che Saddam divorasse anche Arabia Saudita ed Emirati (assicurato dagli USA, che avrebbero dovuto essere rilevati da forze dell'ONU) il punto di svolta, prima ancora che l'ultimatum e lo scatenamento della guerra, è stato l'incremento a 500.000 unità della forza armata nel Golfo; dalla possibilità di risoluzione del conflitto, attraverso l'embargo, attraverso la valorizzazione crescente del ruolo dell'ONU e di una felice ed efficace strada di azione nonviolenta integrata da crescenti misure coercit
ive non belliche), si è imboccata la via senza ritorno.
Il giudizio sulla guerra, secondo una lettura specificamente nonviolenta, non può che essere legato ad un'analisi degli obiettivi e delle conseguenze di questo evento; al cospetto dell'allucinante sfida di Saddam, essa è più o meno costosa, è più o meno efficace? A me pare che la guerra porti inaccettabili conseguenze umane (le decine di migliaia di vittime, l'accrescersi inevitabile della barbarie), politiche (l'approfondirsi di un fossato di incomunicabilità, intolleranza, odio, che va invece al più presto colmato tra Occidente e vasti settori del modo arabo) di diritto (il mantenimento della compattezza della coalizione comporta dei prezzi quali il regalo del Libano alla Siria, la sordina ai processi di Tien An Men in corso in Cina, il via libera alla repressione violenta dell'esercito sovietico nei paesi baltici), di struttura economico-finanziaria (si chiude a tempo indefinito la breve stagione in cui potevamo ragionare di "dividendi della pace", e si registra una nuova formidabile ripresa del complesso
militare-industriale).
IL RISCHIO DI UN MASSACRO TOTALE
Siamo o no consapevoli, dopo l'inizio "chirurgico" dei bombardamenti e la mancata diserzione in massa dei militari iracheni, che oggi ci si sta avviando ad un confronto distruttivo senza alternative, che potrebbe concludersi con un massacro totale?
E' vano sostenere, come si fa da qualche parte, una coerenza tra posizioni nonviolente e consenso alla guerra, proprio perché la dinamica del conflitto è assolutamente fuori controllo. Se si preme il bottone in Parlamento a favore della guerra, saranno poi altri a premere - senza chieder consigli - i bottoni dell'escalation bellica.
Torna il problema di prima: la nonviolenza non è un argomento per i giorni festivi, terminati i quali le decisioni "vere" spettano alla realpolitik. Nella lotta politica, si registrano le vittorie e le sconfitte. E non è un visionario o un irresponsabile chi riafferma le proprie ragioni sconfitte, se concorre a preparare un domani diverso. Chi pretende che la propria impalcatura teorica resti in piedi mentre ne sono crollati i presupposti, compie invece un esercizio di presunzione (è il caso di alcuni esponenti radicali che contrappongono la "nonviolenza del coraggio", favorevole a questa guerra, alla "codardia" di chi la rifiuta). Nonviolenza e diritto possono essere la via maestra dell'Occidente democratico negli anni a venire. Non lo sono oggi, e dunque la fondamentale massima gandhiana ("l'umanità deve liberarsi dalla violenza solo per mezzo della nonviolenza") resta come un riferimento ideale, inadeguato di fronte alle grandi tragedie della storia. Ma proprio dentro una tragedia come questa possono form
arsi (anche grazie al rifiuto fermo e razionale della guerra) la cultura e la consapevolezza diffusa necessarie per un avvenire diverso.