di Gustavo ZagrebelskySOMMARIO: "Il topolino chiamato innocentemente 'esternazione' è cresciuto a tal punto da diventare un mostro che scuote dalle fondamenta la nostra Costituzione". Dal momento che il Presidente della Repubblica non è in relazione diretta col popolo, poiché la rappresentanza politica generale è attribuita esclusivamente al Parlamento, l'uso di questo potere al di fuori di quelli formali non può che essere il primo tentativo di trasformazione permanente del sistema costituzionale. Affinché queste dichiarazioni possano apparire legittime, infatti, esse devono apparire strumenti, per quanto attivi, di collaborazione, non di contrapposizione rispetto agli altri organi Costituzionali. In caso contrario, si manifesterebbe quel "dualismo" tra le istituzioni che il Presidente della Repubblica ha il dovere assoluto di evitare.
(Il Corriere Giuridico, n.7/1991)
Il minimo dei poteri presidenziali, il topolino chiamato innocentemente "esternazione", è cresciuto a tal punto da diventare un mostro che scuote dalle fondamenta la nostra Costituzione. Oggi ci chiediamo come abbia potuto prendere piede e crescere e se anche la scienza costituzionalistica, forse troppo prona nel seguire gli andamenti della prassi, talora impropriamente nobilitata sotto la formula della "costituzione materiale", non porti pesanti responsabilità.
Il primo punto da sottolineare è l'importanza della posta in gioco, niente di meno che la perduranza della forma di governo parlamentare.
La Costituzione - è ben noto - non prevede alcun potere presidenziale di esternazione diverso da quelli formali che si esercitano attraverso i messaggi al Parlamento (artt. 74 e 87 cpv.). Al Parlamento, dunque, e non al popolo o alla "Nazione", come è invece in altre Costituzioni (ad es. la Costituzione francese della V Repubblica e, in genere, le costituzioni presidenziali della più diversa natura) e come talora erroneamente, anche da noi, i commentatori di cose costituzionali mostrano di credere.
Questa direzione del potere di messaggio è il punto fondamentale che non deve essere dimenticato. Il Presidente della Repubblica italiana, secondo la logica del sistema parlamentare, non è in relazione diretta con il popolo, con il quale non è legato da alcun rapporto, neanche da un rapporto di rappresentanza meramente istituzionale. Egli è il Capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale (art. 87, primo comma), ma questa è rappresentanza ideale di un valore, l'unità appunto, e non è per nulla una rappresentatività popolare concreta (del popolo come parte maggioritaria). Dai lavori dell'Assemblea costituente a proposito dell'esclusione dell'elezione popolare del presidente della Repubblica (v. soprattutto "Adunanza plenaria" della "Commissione per la Costituzione" del 21 gennaio 1947, in "La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente", vol. VI, 132 ss.), risulta che la preoccupazione dominante - per usare le parole di Umberto Terracini - era di evitare "un'investitura
di carattere diretto, che troppo spesso ha finito per sboccare in una netta contrapposizione del Capo dello Stato con le Assemblee legislative, le quali sono le vere rappresentanti della volontà delle masse popolari". Nella forma di governo prevista dalla Costituzione, non ci possono perciò essere due organi che si richiamano contemporaneamente alla volontà popolare e, in nome di una diversa interpretazione di questa, si contrappongono l'uno all'altro. Il Presidente che si atteggi ad "amico del popolo", contro i cattivi rappresentanti del popolo stesso, non è il Presidente di questa Repubblica.
Del resto, mancando ogni legame obiettivo, regolato e, potremmo dire, "calcolato" tra il Presidente della Repubblica e il popolo, la rappresentanza del secondo che il primo volesse in fatto assumere su di sé non sarebbe che di tipo mistico e demagogico e con ciò fondamentalmente contrario all'aspirazione essenziale del costituzionalismo di rendere esplicite e certe le regole dei comportamenti e dei rapporti costituzionali. E, dal punto di vista del diritto costituzionale positivo, sarebbe un tentativo di sovversione della forma di governo delineata dalla Costituzione, nel punto essenziale del suo carattere monista, cioè nella rappresentanza politica generale attribuita esclusivamente al Parlamento. Un simile tentativo di stabilire un rapporto di consonanza attiva e concreta tra il presidente e il popolo si muoverebbe inizialmente in un'ambigua concorrenza "dualista" su chi interpreta meglio la nascosta volontà popolare ma, poi, sarebbe destinato a sfociare nella contrapposizione di due legittimazioni, entram
be popolari e potenzialmente totali, l'una distruttiva dell'altra. E' quanto si realizza quando il Presidente - dimenticando di essere, egli stesso, il più sottile distillato della logica parlamentare - interviene per delegittimare le forze presenti in parlamento agli occhi della pubblica opinione. Una simile contrapposizione non può che essere il primo tentativo di trasformazione permanente del sistema costituzionale, in contrasto con la forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione.
Seguendo le ragioni ora indicate, la mancata previsione di un potere come quello di esternazione "libera" e indirizzata al popolo o alla Nazione non può essere considerata una semplice dimenticanza, un'inavvertita lacuna della Costituzione cui si possa supplire per via di prassi e consuetudini integrative della Costituzione. L'esternazione, infatti, potrebbe essere proprio il tentativo di creare ciò che il sistema parlamentare non ammette: il tentativo di stabilire un rapporto diretto tra il Presidente della Repubblica e il popolo, cioè l'apertura di un canale di rappresentanza diretta e personalizzata, non mediata dal pluralismo politico presente in Parlamento.
Per questa via, si affaccerebbe la tentazione per il Presidente di far valere una sua legittimazione antagonista a quella parlamentare che metterebbe in opera l'intera gamma dei poteri presidenziali. Infatti, i poteri formalmente riconosciutigli potrebbero essere piegati ad uso improprio. Da poteri di equilibrio costituzionale, interno alla forma di governo parlamentare, si potrebbero trasformare in poteri di attivazione dell'intervento popolare diretto contro gli istituti della rappresentanza, al di là o contro "le forme e i limiti" di cui parla l'art. 1 della Costituzione, entro i quali la sovranità deve esercitarsi. Lo scioglimento anticipato delle Camere, la nomina del governo, lo stesso messaggio formale alle Camere, per esempio, accompagnati da "esternazioni" che delegittimano le forme della democrazia parlamentare, potrebbero in effetti divenire strumenti eversivi della Costituzione, rivolti a contrapporre il cosiddetto "paese reale" al "paese legale" e far emergere come centro di potere supremo propr
io quello presidenziale. Sarebbe una deriva costituzionale storicamente ben nota, per descrivere la quale in termini giuridici non c'è categoria giuridica più precisa che quella dello "sviamento" di potere, alla fine della quale si troverebbe la consumazione del reato di attentato alla Costituzione.
Questa è la conclusione rigorosa, ancorata sullo schema voluto dalla Costituzione e sostenuta dai commentatori più preoccupati di preservare il rapporto di rappresentanza politica esclusiva del Parlamento e di impedire la nascita di "due governi", composto l'uno dai ministri sostenuti dalla maggioranza parlamentare, e l'altro dal Capo dello Stato "con i suoi cosiddetti consiglieri" e fondata presuntivamente su un consenso popolare immediato (così C.Esposito, "Capo dello Stato - Controfirma ministeriale", Milano, 1962, 94, al quale si deve anche la critica più stringente delle concezioni "libere" dei poteri presidenziali che andavano affermandosi a partire dalla presidenza Gronchi). Nello stesso senso, per ricordare una posizione assunta recentemente, si è espresso con rigore il deputato O. L. Scalfaro alla Camera, nel dibattito che ha accompagnato la formazione dell'attuale governo (17 aprile 1991): "Quando la Carta costituzionale ha voluto dar voce al Presidente della Repubblica, ha previsto il diritto di m
essaggio alle Camere. Il colloquio diretto del Capo dello Stato con il popolo non è previsto. Si può dire che non vi è norma che lo impedisca o lo condanni, ma non è previsto, soprattutto perché è un colloquio che finirebbe per passare sopra il Parlamento, con il quale invece è costituzionale il colloquio del messaggio."
Né, d'altra parte, potrebbe invocarsi a questo proposito l'art. 21 della Costituzione (sulla questione, T. Martines, "Il potere di esternazione del Presidente della Repubblica", in AA.VV., "La figura e il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano", Milano, 1985, 141 ss.). Questo articolo riguarda la libertà di manifestazione del pensiero delle persone private non dei funzionari pubblici, in quanto tali. Sotto questo profilo, la posizione del Presidente della Repubblica non è diversa da quella propria di qualunque altro soggetto investito di cariche pubbliche (come i giudici, i ministri, i pubblici funzionari in genere) ai quali ineriscono particolari doveri di riserbo. Né sarebbe proponibile una distinzione tra persona fisica privata e titolare dell'organo, tutte le volte in cui le dichiarazioni siano rese in una sede pubblica o siano destinate ad essere rese pubbliche. In questo caso, trincerarsi dietro la distinzione tra uomo pubblico e uomo privato apparirebbe un artificio
insostenibile. E a maggior ragione non si potrebbe ragionare per distinguere, sotto questo aspetto, il Presidente della repubblica quando agisce nell'esercizio delle sue funzioni o fuori di esse. In nessuno di questi casi il riferimento all'art. 21 della Costituzione indipendentemente dalla considerazione dei doveri costituzionali che riguardano il presidente, potrebbe essere accettabile. Contrariamente a quello che le argomentazioni che precedono potrebbero indurre a ritenere, non si tratta affatto di condannare il Presidente della Repubblica - in quanto Presidente della Repubblica e come persona privata - al silenzio in pubblico. Vi sono casi, infatti, in cui il riferimento "a contrariis" alla previsione del solo messaggio formale non può valere.
Si possono indicare in primo luogo le "dichiarazioni definibili come accessorie". A questo proposito, valgono per il Presidente della Repubblica considerazione non dissimili da quelle che riguardano qualunque altro organo pubblico. Nessuno ha mai dubitato dell'esistenza di un potere di esternazione, se così lo si vuol definire, del Parlamento, del Governo, del Consiglio superiore della magistratura e perfino dei giudici, quando esso assuma un carattere funzionale all'esercizio delle loro funzioni. Dunque non come potere in sé, autonomamente fondato e indirizzabile a fini liberi, ma come potere che accede ad altri poteri.
E' anzi possibile ritenere che, in questa visione, non si tratti propriamente di un "potere" in senso stretto. Dal suo esercizio non deriva infatti alcuna soggezione di altri soggetti diversa da quella scaturente dal potere (questo sì in senso proprio) principale, cui l'esternazione accede. E in certi casi, addirittura, all'opposto del potere, sembra corretto parlare di dovere.
L'ipotesi più ovvia è costituita dalle pubbliche dichiarazioni rivolte a chiarire il significato e le ragioni degli atti propri. Questo "potere di chiarimento", se non proprio di motivazione (che farebbe pensare piuttosto a un dovere giuridicamente rilevante), è da ritenersi implicito nell'esercizio di funzioni che si svolgono in pubblico, come è proprio della democrazia. Ed infatti tutti se lo sono pacificamente riconosciuto, siano essi organi politici, come il Parlamento e il Governo, o organi di garanzia, come la Corte costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura, o organi giurisdizionali. per chi crede in questa categoria, si può ritenere che questo "potere di chiarimento" sia funzionalmente collegato alla "responsabilità politica diffusa" alla quale tutti gli organi costituzionali, secondo una nota dottrina (G. U. Rescigno, "La responsabilità politica", Milano, 1967) soggiacciono. In ogni caso, si può vedere qui una conseguenza del diritto di conoscere proprio della democrazia, cui corris
ponderebbe, più che il potere, il dovere di rendere intellegibile la propria azione: oppure, più limitatamente, un potere di chiarimento rivolto ad evitare fraintendimenti circa le conseguenze di certi atti che spetta ad altri di trarre (tipici, in questo senso, gli interventi di puntualizzazione della portata delle decisioni della Corte Costituzionale.
Si distinguono, in questa categoria, le dichiarazioni rivolte a evidenziare il fondamento giuridico delle proprie decisioni. Qui, più che spiegare o motivare, si tratta talora del tentativo di armarsi con argomenti di diritto costituzionale per rendersi invincibile, cioè per sottrarsi ad ogni contestazione. Sebbene si sia qui su un terreno dove valgono essenzialmente variabili valutazioni di opportunità, si deve dire che l'eccesso di "giustificazionismo giuridico" può apparire, oltre che un segno di debolezza, anche una fastidiosa sindrome da "libera docenza" (S. Tosi, in "Il resto del Carlino", 19 dicembre 1985), inopportuna anche perché così il Presidente si espone ulteriormente a critiche di ordine diverso da quello propriamente politico. E ciò è tanto più vero per le questioni controverse o controvertibili, a proposito delle quali vale la saggia prudenza di Einaudi ("Di alcune usanze non protocollari attinenti alla presidenza della Repubblica italiana", in "Scritti economici, storici e civili", Milano, 1
973, 742) il quale ricorda la sua cautela per "non arrecare alcun pregiudizio all'insegnamento che l'esperienza avrebbe in proposito potuto offrire col trascorrere del tempo". E in ogni caso, l'attardarsi da parte del Presidente della Repubblica sull'interpretazione della Costituzione suscita un senso di disagio in un contesto democratico dove l'interpretazione costituzionale deve essere un processo aperto, che coinvolge un grande numero di soggetti, e non può essere monopolizzata da qualcuno in particolare, meno che mai dai vertici costituzionali. Essi sono "sotto", non "sopra" l'interpretazione costituzionale e, per questo, non sono abilitati a proporne alcuna con la forza che deriva dalla loro posizione istituzionale.
Al di là delle ipotesi ora considerate di "dichiarazioni accessorie", si può parlare di "dichiarazioni strumentali" alla realizzazione dei compiti presidenziali. Qui, l'ampiezza del potere presidenziale dipende evidentemente, a sua volta, dalla concezione che si abbia del ruolo del presidente, un "ruolo" che non si esaurisce necessariamente in specifici poteri formali. Viene qui in considerazione la capacità espansiva di formule come "rappresentante dell'unità nazionale", "capo dello Stato" o di altre che, pur senza risultare dal testo della Costituzione si sono ritenute espressive dei suoi compiti in generale, come "garante della Costituzione" (S. Galeotti, "La posizione costituzionale del presidente della Repubblica", Milano, 1949) o organo di attivo "equilibrio costituzionale" (G. Guarino, "Il Presidente della Repubblica italiana" in "Riv. trim. dir. pubbl., 1951, 903 ss.) o, infine, come titolare di un proprio potere di "indirizzo politico-costituzionale" (P. Barile, "I poteri del presidente della Repubb
lica", in "Riv.trim.dir.pubbl., 1958, 295 ss.) che utilizza a pieno i tre classici poteri di cui parlava W. Bagehot: "the right to be consulted, the right to encourage the righe to warn", in "The English Constitution", London, rist. ed. 1972, 67, ai quali è divenuto addirittura un luogo comune un po' banale richiamarsi. Su queste diverse configurazioni del "ruolo" presidenziale, come è noto, l'accordo non esiste, né mai probabilmente esisterà. Ogni Presidente, anche in relazione alla situazione politico-costituzionale generale, ha proposto una sua interpretazione. Ciascuna di queste interpretazioni comporta una diversa configurazione dei poteri di esternazione, con una tendenza all'espansione in tutti i casi in cui al presidente si riconosca un ruolo attivo. Dalle pure dichiarazioni di circostanza e di cortesia o dalle innocue allocuzioni che sono ormai entrate a far parte della consuetudine, in cui il Presidente parla in nome dei buoni sentimenti della nazione (messaggi augurali, di partecipazione ai lutti
pubblici e privati altrui, ecc.) si può passare a dichiarazioni più impegnate, come talora è avvenuto nei messaggi di fine anno o nei messaggi di insediamento.
In ogni caso, affinché queste dichiarazioni possano apparire legittime, e non incorrere nel divieto derivante dal carattere parlamentare monista di cui si diceva all'inizio, esse devono apparire strumenti, per quanto attivi, di collaborazione, non di contrapposizione rispetto agli altri organi Costituzionali. In caso contrario, si manifesterebbe quel "dualismo" tra le istituzioni che il Presidente della Repubblica ha il dovere assoluto di evitare. E, inoltre, la collaborazione di cui si parla ha a che vedere con la tutela di interessi obiettivi e non partigiani, come sono quelli commessi alla cura del Presidente, quale che ne sia la concezione del ruolo. Entro questi limiti, si può realisticamente ritenere che, rispetto al potere di messaggio formale previsto dalla Costituzione, l'esternazione libera rappresenti un minus e non un aliud e, in questi stretti termini, possa ritenersi ricompreso nel sistema costituzionale. Così impostata, la questione, dall'alternativa netta: ammissibilità-inammissibilità, si sp
osta sul terreno delicatissimo del "modo di esercizio" dei poteri in questione e quindi dell'eventuale responsabilità del Presidente della Repubblica per il loro uso concreto.
In generale, può stabilirsi la regola che le esternazioni presidenziali debbano coinvolgere preventivamente il Governo in tutti i casi che si sono detti accessori all'esercizio di poteri in cui esiste una compartecipazione del Governo stesso che si esprime attraverso la controriforma. La misura di questo coinvolgimento potrà variare a seconda della natura dell'atto, cioè a seconda che esso debba imputarsi sostanzialmente alla volontà presidenziale o governativa. Così, a seconda dei casi, il Presidente potrà limitarsi ad informare preventivamente il Governo delle sue dichiarazioni, in altri dovrà trattarsi di un accordo sostanziale, e in altri casi il Presidente potrebbe ridursi a portavoce di punti di vista del Governo, se questi non ritiene di esprimersi direttamente. Nella misura di questa compartecipazione, poi, potrebbe attivarsi la responsabilità del Governo rispetto alle dichiarazioni presidenziali.
Ma naturalmente è l'esternazione strumentale al ruolo proprio del presidente a porre i maggiori problemi. Qui il Governo può legittimamente considerarsi estraneo e il Presidente della Repubblica è coperto dall'irresponsabilità. Irresponsabilità, però, che - secondo l'art. 90 della Costituzione - vale fino a tanto che l'esercizio di tali poteri sia contenuto nei limiti propri. Al di fuori, nei casi più gravi (in particolare, quando l'esternazione si configuri come una delegittimazione della forma di governo prevista dalla Costituzione) potranno attivarsi le responsabilità costituzionali del Presidente della Repubblica. Al di qua di tale limite, ove il Presidente, invece, violi "soltanto" il suo dovere assoluto di imparzialità e di non compromissione partigiana nelle vicende politiche in corso, la garanzia dell'irresponsabilità assoluta non potrà più essere invocata: egli avrà agito come Presidente della Repubblica, ma fuori dei limiti delle sue funzioni. L'art. 90 della Costituzione non "copre" questa ipotesi
.
La prima conseguenza è che, nei casi in cui il Presidente violi il dovere di estraneità alle questioni politiche partigiane, nessun ostacolo si oppone ad una discussione parlamentare ove le posizioni presidenziali siano sottoposte a sindacato, quantomeno nella forma del sindacato sulla posizione del Governo in ordine a fatti di così grave rilievo come gli orientamenti manifestati dal Presidente e sulle iniziative che il Governo intenda prendere in proposito. In questo senso è la prevalente dottrina (A. Manzella, "Interrogazione e interpellanza", in "Enc.dir. XXII", 1972, 417; G. Amato, "L'ispezione politica del Parlamento", Milano 1968, 45-47; E. Cheli, "Tendenze evolutive nel ruolo e nei poteri del Capo dello Stato", in AA.VV., "La figura e il ruolo del presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, Milano, 1985, 105; G. U. Rescigno, "Il presidente della Repubblica (art. 83-87)", in "Commentario della Costituzione" a cura di G. Branca, Bologna, 1978, 196 ss; G. D'Orazio, "Orientamenti pres
idenziali per un superior Consiglio della magistratura", in "Quaderni costituzionali", 1990, n.2, 305).
Naturalmente, la soluzione ora indicata non supera tutti i problemi. Infatti, l'esistenza di una responsabilità presidenziale presuppone che si sia d'accordo nel ritenere che egli abbia agito fuori dell'esercizio delle sue funzioni: ma per stabilire questo, è inevitabilmente necessario entrar nel merito delle sue dichiarazioni. E', insomma, il gatto che si morde la coda. Per tagliar corto, in un'occasione recente, di fronte ad alcune interpellanze parlamentari, il Governo ha deciso di non dover rispondere al Parlamento. Ma questa è stata un'imposizione della prepotenza, inammissibile perché ha sottratto alle Camere un loro indiscutibile diritto. Devono invece valere le normali prerogative parlamentari, da esercitarsi con tutte le cautele del caso, sotto la conduzione imparziale della presidenza delle due Camere ed eventualmente, come extrema ratio, ove non si attivassero forme di risoluzione convenzionale dei contrasti, sotto il controllo assicurato dalla Corte costituzionale come giudice dei conflitti tra i
poteri dello Stato.
D'altra parte, la possibilità di una discussione parlamentare dei contenuti delle esternazioni presidenziali (non necessariamente sotto il profilo della responsabilità) non può negarsi, non appena si tenga conto del fatto che tali esternazioni sono legittime in quanto forme minori dei messaggi formali alle Camere (mentre, come appello diretto al popolo, questo sì, in ipotesi, sottratto a controllo e discussione parlamentare, sarebbero del tutto inammissibili) e che i messaggi formali sono proprio destinati ad attivare conseguenze in sede parlamentare. Il messaggio, in Italia, non è come il diktat che vale in altri ordinamenti di tipo presidenziale, in cui esso, in nome del popolo, si abbatte come una scure sul Parlamento e questo non può far altro che sottostare passivamente.
L'articolo 90 della Costituzione ci dice che il Presidente della Repubblica, fuori dell'esercizio delle sue funzioni risponde dei suoi atti come qualunque privato cittadino. Di fronte ad "esternazioni" assolutamente anomale, sia nella forma (interviste informali, telefonate, lettere private o discorsi a tu per tu del cui contenuto sia autorizzata la diffusione, perfino l'indiscrezione di personaggi autorizzati, o non autorizzati, ma bene informati, del Quirinale) sia nel contenuto (affermazioni rivolte a gettare il discredito su singole persone, insinuazioni, cose ambiguamente dette e non dette, eccetera) si deve ritenere che sussista la piena responsabilità di fronte ai giudici della Repubblica, di fronte ai quali la querela per diffamazione o l'azione per risarcimento dei danni morali non sarebbero improponibili. I giudici semplicemente e pregiudizialmente dovrebbero decidere il confine della irresponsabilità presidenziale, secondo l'art. 90 della Costituzione, anche in questo caso sotto il controllo final
e eventuale della Corte costituzionale, in sede di conflitto di attribuzioni.
Non si può negare che le riflessioni di questo editoriale siano state promosse da quel monstrum che si è manifestato nei tempi recenti, di cui si parlava all'inizio. Abbiamo voluto tuttavia restare sul piano del "dover essere" della Costituzione, senza scendere all'esame dei singoli casi pratici che formano l'"essere" della Costituzione. Ma se qualcuno vorrà fare questo passo ulteriore, per scendere dalla teoria astratta alle sue applicazioni pratiche, non gli sarà certamente difficile