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CORID - 1 novembre 1991
RIFORMA DEMOCRATICA
Tanti ne parlano, tu la decidi.

CON I REFERENDUM

I partiti fuori dalle banche

Nel Mezzogiorno solo investimenti produttivi

Abolizione del ministero delle Partecipazioni Statali

Per liberare lo Stato dall'occupazione partitica

FIRMA presso il segretariato comunale della tua città o ai tavoli dei comitati.

COMITATO PER LA RIFORMA DEMOCRATICA

(Presidente: M. S. Giannini)

SOMMARIO: L'opuscolo illustrativo sulle proposte di referendum sulle nomine bancarie (si propone di togliere al Governo il potere di nomina dei vertici delle Casse di Risparmio), sull'intervento straordinario nel mezzogiorno (si propone di limitare l'intervento solo allo sviluppo produttivo) e sul ministero delle partecipazioni statali (si propone di eliminare il Ministero) diffuso dal Comitato per la Riforma Democratica (Presidente Massimo Severo Giannini)

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PERCHE' I REFERENDUM PER LA RIFORMA DEMOCRATICA?

Dal 14 ottobre 1991 si raccolgono le firme per i tre referendum per la riforma democratica. Dopo le elezioni politiche, nella primavera 1992, i cittadini potranno esprimersi su di essi con il voto.

I referendum identificati dal CORID, Comitato per la riforma democratica, presieduto dal professor Massimo Severo Giannini, propongono:

1) di togliere al Governo il potere di nomina dei vertici delle Casse di risparmio, per avviare un processo di democratizzazione e premiare la competenza e la professionalità nel settore del credito.

2) di limitare l'intervento straordinario nel Mezzogiorno solo allo sviluppo produttivo, per una nuova alleanza tra nord e sud, in nome dello sviluppo, dell'occupazione e di pari condizioni di civiltà.

3) di eliminare il Ministero delle Partecipazioni statali, per disboscare la giungla dei Ministeri, sopprimere quelli inutili, responsabilizzare le imprese di proprietà pubblica.

L'iniziativa per la riforma democratica si è così rafforzata e ampliata dai referendum elettorali a quelli contro l'invadenza di questo sistema dei partiti, in modo che i cittadini possano esprimersi non solo sulle regole del gioco, ma anche su importanti questioni di contenuto.

La vita pubblica è diventata ormai insopportabile per la cappa di piombo che è stata posta sulla società, sulle istituzioni, sull'economia. Anche il privato ne soffre: nessuna regola della civile convivenza è più garantita e ogni sfera di autonomia è erosa dal pervasivo dilagare del partitismo. Con esso si è estesa a dismisura anche la giungla dei privilegi, delle ingiustizie, degli affari che coinvolgono direttamente uomini di partito che occupano lo Stato.

Questo sistema dei partiti anche quando appare consapevole dell'insofferenza dei cittadini (e non è frequente), è incapace di recidere le radici delle posizioni di potere che ha edificato. E' necessario l'intervento diretto dei cittadini, con i referendum, per rompere il circolo vizioso di un potere senza controllo e senza legittimazione.

Con questi tre referendum, e con quelli per la riforma del sistema elettorale, si avvia una campagna decisiva per la riforma democratica del paese. Lo strumento referendario dà ai cittadini la possibilità di far sentire la propria voce, in alternativa alle proteste localiste, malavitose o populiste, riconducendo i partiti al ruolo che loro assegna la Costituzione.

Ognuno ha la possibilità di conquistare con le proprie mani un po' di pulizia, di responsabilità e di onestà in più, firmando e facendo firmare i referendum per la riforma democratica.

I TRE QUESITI

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"1) La nomina dei vertici delle banche pubbliche (Casse di risparmio) spetta al Governo centrale: questa la norma da abrogare".

Ogni volta che si tratta di nominare i vertici degli istituti di credito di diritto pubblico, ma più in generale degli enti pubblici, parole come ``grande abbuffata'' o ``vergognosa lottizzazione'' si sprecano, ma tutto continua come prima. I presidenti decaduti degli istituti possono restare in carica per anni purché tutte le nomine siano varate con un unico atto. Questo ``piano regolatore'' delle nomine il Governo deve infatti garantire ai partiti che il principio della lottizzazione è stato rispettato. Spesso si è nominati non perché si dispone delle necessarie capacità e competenze, ma per fedeltà a un partito, ad una corrente.

Questo ritarda il processo di riorganizzazione del credito indispensabile per mettersi alla pari con altri paesi, e ispira ad anomali criteri di discrezionalità politica l'esercizio dell'attività bancaria. Il cittadino normale dispone di un sistema del credito poco efficiente e costoso. L'impresa normale trova nel sistema del credito un handicap alla propria competitività e alla propria crescita. E' perché tutti lo sanno - le banche pubbliche sono dei partiti: l'Italia rimane l'unico paese occidentale in cui le banche pubbliche sono dei partiti.

Con il referendum, le Casse di risparmio saranno liberate da questa soffocante ``pianificazione'' centrale.

"2) La legge n. 64 del 1986, oltre a prevedere incentivi per i settori produttivi nel Mezzogiorno, definisce una pesante struttura burocratica per la continuazione di una politica speciale di opere pubbliche per il sud: a questa sua parte si riferisce la normativa da abrogare".

L'intervento straordinario nel Mezzogiorno risale al 1950 quando fu istituita la Cassa per il Mezzogiorno. Doveva durare dieci anni. E' stato prorogato di quinquennio in quinquennio, ed ora "dovrebbe" scadere a fine 1993. La Cassa, liquidata nel 1984, è stata di fatto prorogata con l'Agenzia prevista dalla legge del 1986.

Dopo la legge del 1986, ben sei ministri si sono succeduti nell'incarico di sovrintendere all'intervento straordinario: De Vito, Goria, Gaspari, Misasi, Marongiu, Mannino. Nessuno è riuscito a restituirgli un significato.

L'intervento ha due finalità: lo sviluppo produttivo e le infrastrutture. La prima è stata sempre sacrificata, perché nella politica delle infrastrutture si determinano gli intrecci tra partiti e affari. Le infrastrutture senza una strategia di sviluppo, hanno portato alla mostruosità della moltitudine di opere realizzate non perché servissero ai cittadini, ma perché dal loro finanziamento e dalle attività, necessarie per la loro progettazione e costruzione alcuni potessero trarre vantaggi particolari. Nonostante l'intervento straordinario, se non grazie ad esso, il Mezzogiorno ha servizi civili peggiori per quantità e qualità di quelli del resto del paese. Ma ha una criminalità organizzata molto più potente ed influente.

L'intervento straordinario non aiuta il Sud. Contribuisce invece all'arretratezza ed al degrado delle sue strutture amministrative. Reprime le energie positive che vi si manifestano. Favorisce il dilagare e lo strapotere della criminalità. E' questo ciò che l'opinione pubblica del nord e del sud ormai percepisce con chiarezza: che se si vuole lo sviluppo del Mezzogiorno bisogna cambiare.

Con il referendum l'intervento dovrà limitarsi a sostenere la crescita produttiva, in modo che il Mezzogiorno diventi un elemento portante dello sviluppo del paese e della sua positiva partecipazione all'unificazione europea.

"3) Gli enti di gestione delle imprese a partecipazione pubblica (Iri, Eni, Efim) sono sottoposti ad un Ministero delle Partecipazioni statali: è la norma da abrogare".

In Italia da oltre 50 anni sono di proprietà pubblica imprese di diritto privato (società per azioni) che esercitano la propria attività in vari settori dell'industria e dei servizi. E il nostro è l'unico paese europeo occidentale in cui queste imprese fanno capo ad enti pubblici i quali a loro volta fanno capo, ad un Ministero. Il Ministero fu del resto voluto, nel 1956, per rendere più stretto il rapporto tra potere politico e enti. E divenne nel tempo non un Ministero che governasse gli enti, ma uno strumento nelle mani degli enti, i cui vertici erano sempre più espressione di logiche partitocratiche, per condizionare il potere politico.

Così è stato. Il ruolo del Ministero è sempre stato irrilevante: non ha indirizzato né controllato. I presidenti delle aziende e degli enti, i cosiddetti , trattano direttamente con il potere politico di cui sono diretta emanazione. Al Ministro è, eventualmente, consentito di piazzare a sua volta uomini propri negli enti e nelle imprese.

Le imprese a partecipazioni statali, pesantemente infeudate dalla lottizzazione partitica e correntizia, sono diventate sempre più inefficienti. Quando non chiudono i bilanci in perdita, è perché esercitano in concessione qualche lucroso monopolio. Eppure al loro interno vi sono risorse in termini di uomini, di tecniche, ecc. che dovrebbero e potrebbero dare un contributo prezioso al paese.

Con il referendum non si propone la loro privatizzazione, che si risolverebbe o nella cessione ai privati di privilegi pubblici o nell'erogazione di risorse pubbliche ai privati perché le ristrutturino e le rendano competitive, ma l'eliminazione di una sovrastruttura inutile come il Ministero, primo passo per una vera riorganizzazione.

"Post scriptum"

"Agli ultimi due di questi tre referendum, il governo Andreotti ha risposto con proposte apparentemente convergenti. Ha dunque ammesso che il problema esiste. Ma la risposta che ad esso intende dare (sostituire il Ministro del bilancio sia al Ministro per l'intervento straordinario nel Mezzogiorno sia a quello delle Partecipazioni statali), non solo non va nella direzione prevista dai quesiti referendari. Rischia addirittura di rendere il problema più grave".

LE NOMINE BANCARIE

1. "Premessa"

La norma da abrogare è inserita nel Regio Decreto Legge n. 204 del 24 febbraio 1938, e recita: ``La nomina dei due membri dei Consigli di amministrazione delle Casse di risparmio, che assumono rispettivamente l'ufficio di Presidente e di Vice-presidente, è devoluta al Capo del governo, che vi provvede con propri decreti, su proposta del capo dell'ispettorato per la difesa del risparmio e per l'esercizio del credito, sentita la federazione nazionale fascista delle Casse di risparmio. Il Presidente e il Vice-presidente dei Consigli di amministrazione delle Casse di risparmio istituite da associazioni di persone, saranno scelti, a preferenza, tra i soci delle rispettive aziende''. Essendo sparita la federazione nazionale fascista e soppresso l'ispettorato (il suo capo sostituito dal Governatore della Banca d'Italia), la norma è rimasta tuttavia fino ad oggi in vigore: il Ministro del tesoro ha sostituito il capo del governo.

La norma del 1938 si iscrive nella complessa riforma della legislazione sul credito realizzata dal regime fascista negli anni 1930. Come tutta la legislazione bancaria dell'epoca, discende da una concezione dei rapporti tra Stato e sistema del credito, in cui allo Stato centrale è attribuito un ruolo cruciale per il funzionamento del sistema creditizio.

Questa legislazione, recepita dall'Assemblea costituente e quindi dalla Carta costituzionale (art. 41 e ss.), ha resistito fino a pochissimi anni or sono, quando un processo di riforma è stato avviato per favorire l'ammodernamento del settore. Se il sistema delle regole è così rimasto invariato, le sue conseguenze pratiche sono mutate nel corso degli anni. In particolare, sono mutate a causa della scomparsa di un ceto tecnocratico come tale relativamente indipendente dal potere politico, e dell'affermarsi in sua sostituzione della pratica di cooptare per le posizioni di controllo di istituzioni economiche uomini - non importa se provvisti delle necessarie competenze tecniche - selezionati dai partiti o nell'ambito dei partiti dalle correnti.

2. "Nomine e lottizzazione"

Ogni volta che si tratta di nominare i vertici degli istituti di credito di diritto pubblico, ma più in generale degli enti pubblici, parole come ``grande abbuffata'' o ``vergognosa lottizzazione'' si sprecano, ma tutto continua come prima. A volte i presidenti decaduti degli istituti restano in carica per periodi anche lunghi, perché tutte le nomine siano varate con un unico atto. Questo ``piano regolatore'' delle nomine deve infatti garantire i partiti che il principio della lottizzazione è stato rispettato. Basta che un partito della maggioranza non sia d'accordo, che il ``piano'' faticosamente costruito si blocca e resta congelato per mesi e mesi, con conseguenze negative per la gestione degli istituti e degli enti, i cui presidenti sono "in prorogatio".

I nominati lo sono, in casi purtroppo non rari, non perché dispongano delle necessarie capacità e competenze, ma perché fedeli a un partito o ad una corrente di partito o ad un singolo politico. Sono insomma uomini di qualcuno e come tali dovranno comportarsi per ottenere l'incarico. Tanto più saranno fedeli a questo ruolo e tanto più sapranno derivarne maggior potere per il padrino che ad esso li ha eletti, tanto più rilevante sarà per loro la possibilità di passare da presidenze di istituti ed enti di minor prestigio verso collocazioni più significative ed influenti.

Anche il politico emergente, concorrente fastidioso del notabile, può essere accontentato con una presidenza. Così come una presidenza non potrà essere negata a chi, per fedeltà a un capo, si sia impegnato in una battaglia rischiosa e sfortunata tra fazioni. La gamma dei presidenti è ricca di esempi di ogni più fantasiosa tipologia, e pochi sono quelli che possono vantare le competenze essenziali per assolvere al loro ruolo.

Le Casse di risparmio sono istituzioni di grande prestigio e potere nelle singole realtà locali, o addirittura a scala nazionale. Hanno un ruolo molto significativo nella raccolta del risparmio. Non è raro che svolgano funzioni (ad esempio, di tesoreria) per conto di pubbliche amministrazioni, gestendo così flussi rilevanti di risorse pubbliche. Detenerne il controllo attraverso uomini fidati è dunque disporre di uno strumento di grande rilievo per a vantaggio proprio e dei propri amici il rapporto politica-economia.

Contro questa pratica di lottizzazione, il parlamento ha cercato negli anni settanta di introdurre alcuni vincoli e di identificare requisiti di merito cui i candidati dovessero corrispondere. Affidando alle commissioni parlamentari il compito di vegliare affinché questi criteri fossero rispettati, si è finito però con il vanificare l'innovazione introdotta. Il garantiva l'appoggio di tutte le forze della maggioranza anche a livello parlamentare.

La direttiva Cee sulle nomine del 1977 è stata recepita solo nel 1985, e lo è stata in termini tali da non modificare nella sostanza il corso delle cose. Ha trovato così ulteriore conferma la convinzione che per combattere la lottizzazione e le sue deleterie conseguenze, bisogna in primo luogo togliere di mezzo il suo presupposto - il potere di nomina da parte del Governo - lasciando agli organi statutari degli istituti di credito di stabilire le procedure per l'elezione dei loro vertici, in sostanziale autonomia.

3. "Lottizzazione e riorganizzazione del settore del credito"

In base alla legge 30 luglio 1990, n. 218 (cosiddetta ), gli istituti di credito di diritto pubblico possono essere trasformati in società per azioni di diritto privato. Questa normativa è stata introdotta per: (a) aumentare il grado di efficienza del sistema del credito, ritenuto del tutto insufficiente anche in vista del processo di unificazione monetaria europea; (b) permettere la patrimonializzazione del sistema bancario, consentendo fusioni e concentrazioni tali da fare acquisire alle banche le dimensioni necessarie a sostenere l'internazionalizzazione.

La legge n. 218 è stata parzialmente attuata. Solo alcuni istituti si sono avvalsi della facoltà di trasformarsi in spa, e lo hanno fatto o per realizzare rivalutazioni aziendali in esenzione fiscale o per incassare i fondi messi a disposizione dal bilancio pubblico. In genere, i vertici degli istituti - e gli stessi partiti - si sono manifestati contrari a operazioni come le concentrazioni e fusioni che evidentemente riducono il numero dei posti da lottizzare.

La legge n. 218 prevede che la maggioranza del capitale (il 51%) debba restare in mano pubblica ed anche questa disposizione è stata utilizzata per progettare e realizzare ristrutturazioni in base ad interessi esclusivamente partitici. E' così che la Fondazione Cassa di risparmio di Roma, che è proprietaria della società omonima, ha potuto acquisire il controllo di un colosso, perché ad essa sono stati conferiti, sostanzialmente gratis, il Banco di Roma ed il Banco di S. Spirito (precedentemente dell'Iri). Peggiore rischia di essere l'esito dell'intesa tra l'Imi e una cordata di Casse di risparmio guidata dalla CARIPLO (Cassa delle provincie lombarde).

Il rapporto tra politica partitica e credito, da un lato, spinge a concentrazioni programmate per accrescere non la competitività dell'impresa ma il potere del partito, della corrente, del capocorrente. Dall'altro, lascia la gran parte delle banche pubbliche in uno stato di debolezza che il processo di unificazione europea non fara che aggravare.

Infine, contribuisce a tenere il settore del credito italiano al riparo della concorrenza internazionale, consolidandone l'inefficienza con costi per l'intera collettività.

4. "Dopo il referendum"

L'abolizione della norma che riserva al Governo le nomine dei presidenti e vicepresidenti delle Casse di risparmio, va nella direzione di restituire il potere di nomina agli organi collegiali. La del potere di nomina in tante sedi decentrate non solo impedisce la predisposizione dal centro del delle nomine, ma assegna anche ai vertici degli istituti maggiore autonomia e maggiori responsabilità nell'adottare le decisioni necessarie per ammodernarsi, ristrutturarsi, concentrarsi e specializzarsi, in modo da raggiungere maggiori livelli di efficienza.

Nelle sedi decentrate, vi è spesso un'articolazione civile e politica più ricca e multiforme di quella del centro, articolazione che il controllo centrale ha contribuito finora ad emarginare e conculcare.

Infine, il decentramento delle nomine pone fine alla scandalosa pratica della proroga di fatto di vertici scaduti anche da un consistente lasso di tempo, permettendo che il vertice degli istituti sia sempre nella pienezza dei suoi poteri.

L'INTERVENTO STRAORDINARIO NEL MEZZOGIORNO

1. "Premessa"

La legge che ri-regola l'intervento straordinario nel Mezzogiorno è la legge 1· marzo 1986, n. 64, varata dopo un lungo e complesso iter parlamentare.

Le norme contenute nella legge n. 64 sono suddivise in due Titoli, il Titolo I ``Obiettivi ed organizzazione del nuovo intervento straordinario nel Mezzogiorno'' ed il Titolo II ``Disposizioni agevolative per le attività produttive e norme finanziarie''.

Il Titolo I comprende norme di completamento della disciplina già definita da leggi precedenti, in particolare la legge n. 651 del 1983; norme che definiscono la struttura che sovrintende agli interventi e tentano di garantirne il coordinamento con l'azione ordinaria dello Stato; alcune norme particolari. Il quadro definito dal Titolo I è quello che governa la politica delle opere pubbliche finanziate dall'intervento straordinario.

Il Titolo II comprende alcuni articoli iniziali (dall'articolo 9 all'articolo 15) che ridefiniscono il sistema degli incentivi e delle agevolazioni alle attività produttive e poi tre articoli finali che fanno riferimento al personale dell'Ufficio speciale per la ricostruzione post-terremoto (art. 16), ad una miriade di norme di vario contenuto - dalla proroga a fine 1993 del Testo Unico del 1978, ad autorizzazioni a contrarre mutui all'estero, alla disciplina delle riserve di investimenti o forniture, ecc. - (art. 17), alle disposizioni finanziarie (art. 18) che hanno ormai esaurito la loro validità essendo stati i fondi interamente impegnati.

Il quesito referendario propone la cancellazione del Titolo I e degli ultimi tre articoli della legge n. 64.

2. "La vicenda fallimentare della legge n. 64"

L'intervento straordinario nel Mezzogiorno è stato istituito, con la Cassa per il Mezzogiorno, nel 1950. Doveva durare dieci anni. E' stato prorogato molte volte ed esteso per coprire sempre nuove esigenze e settori. La Cassa per il Mezzogiorno è stata liquidata nel 1984 ma con la legge n. 64 del 1986 la si è, in pratica, ricostituita sotto il nome di Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno. Con la legge n. 64 l'intervento dovrebbe avere scadenza a fine 1993.

La legge n. 64 del 1986 non ha trovato coerente attuazione. Anzi non ha in pratica trovato attuazione, sebbene i 120 mila miliardi stanziati siano stati interamente impegnati. Sei ministri - De Vito, Goria, Gaspari, Misasi, Marongiu, Mannino - si sono succeduti, dall'approvazione della legge 64 (marzo 1986) ad oggi, sulla poltrona del ministro per gli interventi straordinari, e nessuno è riuscito ad imprimere agli interventi un segno positivo.

Anche per queste ragioni, la necessità di una revisione profonda delle linee ispiratrici dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, è stata in questi anni riconosciuta da gran parte dello schieramento politico presente in Parlamento, e non è tema da ascrivere soltanto alle forze di opposizione o ad alcune di queste. Analogamente diffuso e non di parte è il riconoscimento che le linee ispiratrici della legge n. 64/1986, sono state in larga misura negate dalla sua attuazione concreta.

I difetti che nell'impianto della legge sono emersi, risalgono a molteplici cause. Da un lato, le ambizioni di cui la legge si faceva interprete, erano eccessive rispetto alle capacità di attuazione delle Regioni e degli Enti locali, come attestano le difficoltà insite nei comportamenti delle Regioni e degli Enti locali, del resto insufficientemente stimolati dallo stato centrale a riacquisire capacità di proposta, progettazione e selezione dei fabbisogni prioritari. Dall'altro, alcuni nuovi indirizzi in essa contenuti, erano il risultato di un'interpretazione troppo ottimistica dei processi in atto nel Mezzogiorno, e rispecchiavano l'illusione che il Mezzogiorno potesse approdare ad uno sviluppo post-industriale, quando non aveva ancora attuato le complesse trasformazioni che consentono il passaggio alla società industriale. Infine, altre innovazioni introdotte si sarebbero arenate per il manifestarsi di resistenze ed inerzie negli apparati centrali dello Stato: basti ricordare le spinte conservative della

ex-Cassa per il Mezzogiorno trasformata in Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno, la mancata attuazione del comma 18 dell'articolo 17 della legge relativo alla soppressione della Segreteria del Ministro, la mancata emanazione dei decreti di riordino degli enti cosiddetti collegati (art. 6), la mancata utilizzazione delle norme recate dagli articoli 2, 7 ed 8, ecc.

A testimoniare la profondità della crisi di impostazione dell'intervento straordinario stanno, del resto, sia le incerte vicende della cosiddetta programmazione degli interventi introdotta dalla legge n. 651/1983 e ribadita dalla legge n. 64, sia la continua riproposizione di formule astratte (dalle ai ) per nascondere la mancanza di idee circa le modalità della promozione dello sviluppo produttivo e la residua specificità dell'intervento straordinario in campi diversi da questo, sia i ritardi talvolta incomprensibili dell'attuazione degli interventi, sia le incongruenze e gli sprechi denunciati anche dalla Corte dei conti della Comunità europea. Non è difficile riconoscere che le contraddizioni già evidenti nel 1971, all'atto dell'approvazione della legge n. 853, quanto al ruolo dell'intervento straordinario dopo l'istituzione delle Regioni, così come quelle presenti dalle origini e relative alle relazioni tra intervento ordinario e straordinario, si sono approfondite

ed hanno dato luogo ad esiti via via più perversi nell'ultimo scorcio di tempo.

Norme di pregio, ai fini dell'organizzazione dell'intervento straordinario e del suo coordinamento con l'intervento ordinario, come quelle contenute negli articoli 2 e 7 della legge n. 64 non sono state applicate, perché l'amministrazione ordinaria non è stata indotta o costretta a darsi modalità di funzionamento che lo permettessero (è il caso dell'art. 2), o perché alle procedure previste (l'accordo di programma di cui all'articolo 7) si è cercato di sostituirne altre, le cosiddette , più vicine a quelle sperimentate con la legislazione speciale dei terremoti e dei mondiali di calcio. Analoga sorte ha subito l'articolo 8 che intendeva imporre agli istituti di credito parità di condizioni per i clienti, indipendentemente dallo loro dislocazione geografica. L'intervento straordinario nel suo effettivo funzionamento ha ormai perciò assai poco in comune con quanto è scritto nella legge n. 64.

Gli stanziamenti recati dalla legge n 64, pari a 120 mila miliardi, sono stati destinati per 30 mila miliardi alla copertura degli sgravi contributivi per le imprese aventi sede nelle aree meridionali, per circa 19 mila miliardi ai completamenti di opere già avviate, e per altri 9 mila miliardi stornati per il finanziamento di interventi incardinati in altre leggi. I 62 mila miliardi che restavano disponibili per gli interventi in opere o di agevolazione all'attività produttiva, risultano tutti impegnati, ma per una quota non trascurabile (oltre 58 mila, stando al bilancio pluriennale dello Stato), non ancora erogati: un sistema inefficiente!

3. "Trasferimento a vantaggio del Mezzogiorno e intervento straordinario"

Il trasferimento veicolato dalla finanza pubblica a vantaggio del Mezzogiorno non si esaurisce nell'intervento straordinario. Dai dati disponibili (al 1987), si deduce, confrontando entrate e spese, che lo Stato riceve dal Mezzogiorno il 23,4% del suo reddito fiscale e parafiscale, e gli destina il 33% della spesa corrente ed il 44% della spesa di conto capitale. La ridistribuzione è dunque massiccia, superiore alle importazioni nette che appaiono dalla regionalizzazione dei conti nazionali perché il Mezzogiorno è anche esportatore netto di capitali privati. Ma i canali attraverso i quali essa passa, sono molteplici ed il suo finanziamento non è stato assicurato tanto dal nord, quanto soprattutto dall'emissione di debito pubblico.

Nell'intrecciarsi dei molteplici canali della ridistribuzione, gli obiettivi equitativi o pretesi tali, hanno via via travolto o marginalizzato quelli di superamento del divario nell'attività produttiva. Ad un numero continuamente crescente di problemi si è voluto dare risposta in una logica egualitaria: per assicurare livelli omogenei di benessere non bastavano le politiche redistributive di sostegno al reddito dei bisognosi, ma occorreva garantire standard di edilizia pubblica, di strade carrozzabili, di reti acquedottistiche, ecc.

I trasferimenti di reddito veicolati dalla finanza pubblica hanno così finito con il perdere ogni connessione con lo sviluppo, pur acquisendo un peso crescente in loco: peso economico-sociale perché troppi se non tutti appaiono convinti che il Mezzogiorno non potrebbe sopravvivere (in senso letterale) senza questi trasferimenti, e peso politico perché il ruolo fondamentale della politica nel sud si identifica ormai con la gestione di questi flussi di risorse ed il dibattito politico sul Mezzogiorno coincide (meglio coinciderebbe non fosse per la criminalità organizzata) con quello sull'entità e sulle destinazioni di questi trasferimenti. Nonostante i trasferimenti, il Mezzogiorno ha tassi di disoccupazione che sono oltre il doppio di quelli del resto del paese? "quindi" occorrono maggiori trasferimenti. Nonostante i trasferimenti, il Mezzogiorno ha servizi civili e sociali in quantità e qualità inferiori agli standard? "quindi" occorrono maggiori trasferimenti. E si potrebbe continuare.

Dice Fiorella Padoa Schioppa nel suo volume "L'economia sotto tutela": ``con poche incertezze potremmo sostenere che la manovra pubblica nel Mezzogiorno è criticabile per almeno quattro ordini di motivi: perché è troppo sbilanciata a favore del sostegno della domanda piuttosto che del potenziamento dell'offerta meridionale; perché l'accumulazione pubblica rischia di promuovere, insieme allo sviluppo delle infrastrutture, anche quello dell'economia criminale; perché le agevolazioni finanziarie alle imprese private, pur di entità non irrisoria, sono di ridotta efficacia a causa del loro tenue legame con la realizzazione degli investimenti reali effettivi e con la crescita del valore aggiunto; perché, infine, l'azione pubblica eccede nella regolamentazione, aggravando gli squilibri nel mercato del lavoro''.

Per questo, se il Mezzogiorno è dipendente dal debito e alla fine dal resto del paese (che garantisce quel debito) per la determinazione del suo reddito disponibile, questa sua dipendenza ha assunto connotazioni politiche pervasive inquietanti. Al di là del fatto che la popolazione meridionale non possa eventualmente, senza scendere al di sotto di livelli minimali di benessere, fare a meno di un sussidio pubblico che del resto arriva solo ad alcuni, non necessariamente i più bisognosi, e il sistema politico meridionale che non può fare a meno della ridistribuzione, perché da essa, in modo pressoché esclusivo, è legittimato.

La questione così individuata è già rilevante. Lo diventa evidentemente di più se la disponibilità alla prosecuzione di questa politica da parte di coloro che finanziano o ritengono di finanziare il trasferimento (o in ogni caso subiscono le conseguenze delle manovre di finanza pubblica giustificate dal livello del debito) si attenua o addirittura dà luogo a fenomeni di rivolta. Ed è proprio questo che sta accadendo da quando i sintomi di insofferenza nei confronti sia della dipendenza meridionale sia delle ripercussioni del dissesto della finanza pubblica si sono tradotti in protesta, in modo appariscente e largamente imprevisto. Al cittadino italiano del nord e del sud appaiono sempre più ovvie interdipendenze forti tra ridistribuzione e dilagare in queste regioni di fenomeni di criminalità e devianza che talvolta raggiungono livelli parossistici.

Tra i problemi che l'Italia si trova a fronteggiare in questo difficile momento storico, quello della ridefinizione delle relazioni di solidarietà tra abitanti delle varie regioni è dunque certamente tra i più sentiti. Tutti i modelli della ridistribuzione (da quello di natura etnica a vantaggio delle regioni a statuto speciale a quello di natura sociale definito dal welfare, a quello meridionalistico) sono in crisi. Le conseguenze della crisi assumono però nel caso della ridistribuzione nord-sud, proprio a causa della sua peculiare connotazione, valenze più inquietanti e più incerte modalità di evoluzione. E sempre più la situazione si deteriorerà a meno che la ridistribuzione non venga riportata nell'alveo di principi comprensibili e potenzialmente condivisibili, eliminando le sue ricadute più evidenti a vantaggio della corruzione e della criminalità organizzata. Per soddisfare questi requisiti, occorrono, rispetto allo stato delle cose, riforme radicali non solo dell'intervento straordinario, ma della pre

senza complessiva dello stato al sud.

Se pure, infatti, il sussistere di una disparità di condizioni di partenza giustificava, in principio, una ridistribuzione da nord a sud, nessuna ridistribuzione può giustificarsi in forma permanente, come avevano intuito coloro che cercarono di coniugarla con l'azione per lo sviluppo. Se poi la ridistribuzione ha finito addirittura con il contribuire a mantenere differenziate le condizioni di partenza, o ad accrescere il divario, allora si è in presenza di un circolo vizioso. Ed il circolo vizioso può essere interrotto in due modi: perché la ridistribuzione si riduce o perché se ne ribaltano le finalizzazioni sì da far coincidere - come tanto spesso ma tanto acriticamente si ripete - lo sviluppo del Mezzogiorno con lo sviluppo del paese. E' la seconda la rottura da auspicare.

I limiti della situazione che si è determinata sono, dunque, evidenti non solo sotto il profilo dell'inefficacia dell'intervento straordinario rispetto all'obiettivo che lo legittima, che resta lo sviluppo del Mezzogiorno, ma anche sotto il profilo della tenuta delle regole basilari della nostra democrazia. Lo sviluppo richiede investimenti capaci di espandere il sistema produttivo meridionale e di qualificarlo, in modo che esso diventi il riferimento fondamentale della crescita del terziario - che invece segue un profilo in gran parte assistenzial-clientelare - e dell'adeguamento dell'attrezzatura del territorio: opere, ma soprattutto "organizzazione di servizi" efficienti. La legge n. 64 nella sua pratica attuazione non ha fornito alcun contributo importante in questa direzione.

Da questi argomenti, pur sinteticamente enunciati, risulterebbe che la legge n. 64 va cambiata, e presto. Ma risulterebbe anche che il cambiamento non può essere, come quello che la stessa legge n. 64 ha rappresentato rispetto alla situazione precedente, un cambiamento di involucro soltanto.

4. "Il problema dello sviluppo industriale"

Lo sviluppo produttivo - dell'industria manifatturiera in primo luogo - è la sola strada che può sanare nel medio periodo il drammatico squilibrio del mercato del lavoro meridionale. Convergono in questa diagnosi e terapia non solo prestigiosi economisti, ma la Banca d'Italia, la Svimez, tutte le fonti dotate di autorevolezza. E' in connessione con questo obiettivo che possono trovare impulso la riqualificazione delle politiche ordinarie: la politica dell'istruzione e della formazione professionale, quella delle telecomunicazioni e delle reti di trasporto, ecc. E' con esso che si erige una barriera vera al dilagare della egemonia criminale.

Ma occorre l'intervento straordinario per l'industrializzazione? Per l'industrializzazione occorrono trasferimenti finanziari diretti a contenere i costi dell'investimento ma anche interventi in loco di varia natura intesi a eliminare o riequilibrare gli svantaggi (le cosiddette diseconomie esterne) associati alla localizzazione nelle aree meridionali, che dal punto di vista del mercato del lavoro sarebbero localizzazioni ottimali per i nuovi impianti. Occorre che gli incentivi e le agevolazioni abbiano una configurazione semplificata e siano corrisposti in modo automatico, dopo un controllo ex-ante sulla legittimità della richiesta e fatti salvi pertinenti controlli ex-post e un sistema di sanzioni che ne scoraggi l'uso improprio. Alla seconda tipologia di interventi viene così affidato il compito di riequilibrare le sorti delle aree in cui le diseconomie esterne (in ragione dell'attrezzatura del territorio, della qualità della forza lavoro, della presenza della criminalità, ecc.) sono più rilevanti.

Non è, invece, positivo che le diseconomie esterne continuino a trovare compensazione indiscriminata in un differenziale dei costi del lavoro assicurato dagli sgravi contributivi riservati alle imprese aventi sede nel Mezzogiorno. La fiscalizzazione addizionale di cui godono le imprese operanti nel Mezzogiorno comporta oneri finanziari molto elevati (circa 9 mila miliardi per il 1991) e non ottiene risultati significativi in termini di maggiore occupazione. La sua giustificazione è per di più debole anche quando ne sono destinatarie imprese esposte alla concorrenza, come le imprese manifatturiere: se la fiscalizzazione corrisponde ad un differenziale di produttività del lavoro, è debole perché mantiene in vita imprese inefficienti; se corrisponde a diseconomie esterne, è debole perché riduce l'incentivo a combatterle e a contenerne l'impatto. Le misure di fiscalizzazione dovrebbero perciò essere riservate solo ai settori produttivi esposti alla concorrenza, e gradualmente ridotte fino al loro definitivo supe

ramento.

Distinguere le imprese esposte alla concorrenza da quelle che operano per un mercato senza competizione (come nel caso in cui la domanda sia pubblica) è, del resto, cruciale anche con riferimento agli incentivi ed agevolazioni finanziarie. Non si avrà sviluppo produttivo senza una sostanziale crescita di imprese competitive, mentre le agevolazioni fornite alle imprese che stanno su mercati protetti, non faranno che accrescere le sacche di privilegio e favorire comportamenti inefficienti. Per questo beneficiarie degli interventi devono essere soprattutto, se non in via esclusiva, le attività manifatturiere. E per queste norme come quelle che comportano riserve di domanda (per le forniture ad esempio) sono controproducenti e non solo obsolete.

La presenza di consistenti differenziazioni tra le diverse aree meridionali, rende necessario mettere a punto una strategia cui l'intervento di sviluppo debba uniformarsi. Nei fatti in questi anni (ma anche negli anni a venire stando alle più recenti proposte di investimenti avanzate dalle imprese) l'industrializzazione ha mostrato una marcata tendenza a concentrarsi nelle aree in cui le diseconomie esterne sono più contenute, escludendo del tutto le aree in cui esse sono molto rilevanti. Per contrastare questa linea di tendenza, oltre alla revisione nel tempo dell'area a cui le agevolazioni sono riservate, appaiono essenziali più delle agevolazioni differenziate (che contrastano con l'obiettivo della loro erogazione automatica), azioni ad hoc per rimuovere o contenere le radici delle diseconomie esterne più significative.

Se l'intervento di industrializzazione consiste fondamentalmente di incentivi che incidono in modo automatico sul costo dell'investimento, la struttura che lo governa, deve assumersi la responsabilità dei controlli ex-ante ed ex-post, ed assolvere a compiti di indirizzo e coordinamento con gli interventi di altre strutture pubbliche (la scuola, l'apparato di sicurezza, la formazione professionale, la SIP, ecc.). Per far questo non occorre un gigante burocratico, ma una struttura snella e dotata delle necessarie professionalità (struttura che non ha in sostanza punti di contatto né con ciò che fu la Cassa per il Mezzogiorno, né con ciò che attualmente è l'Agenzia di cui all'art. 4 della legge n. 64).

Può questa struttura coincidere con il Dipartimento istituito dall'art. 3 della legge n. 64 presso la Presidenza del consiglio? in linea di principio sì, ma con una sua ridefinizione che in ragione dei nuovi compiti gli attribuisca le corrispondenti professionalità. E' necessario comunque un unico centro di responsabilità, invece dei troppi ora presenti, che hanno come unica giustificazione quella della lottizzazione tra partiti e correnti.

La ripuntualizzazione dell'intervento a fini di sviluppo produttivo è urgente, non solo perché alcuni importanti progetti sono stati recentemente presentati da imprese nazionali ed internazionali e le stesse piccole imprese manifatturiere del sud attraversano una fase di particolare vivacità, ma ancor più perché le trasformazioni in atto nel settore manifatturiero in Italia e in Europa, potrebbero favorire una forte ripresa del processo di industrializzazione del Mezzogiorno, se gli strumenti fossero adeguati. Fasi come l'attuale non possono essere prolungate a piacere: se le condizioni non sono favorevoli nel momento dato, le imprese compiranno altre scelte di localizzazione (le grandi) o rinunceranno ai loro progetti di espansione e ammodernamento (le piccole).

5. "Gli interventi infrastrutturali"

E le opere pubbliche? A distanza di vent'anni dal 1970, anno di istituzione delle regioni a statuto ordinario, non si è ancora riusciti a restituire un ruolo all'intervento straordinario, nell'articolazione delle competenze tra Stato e regioni. E' anzi emerso con sempre maggiore chiarezza che, se si vuole che il Mezzogiorno disponga davvero di un'attrezzatura del territorio adeguata, bisogna escludere la politica delle opere pubbliche dal campo dell'intervento straordinario.

Perché? Si distinguano le opere di interesse nazionale e sovraregionale da quelle locali. Per le prime è facile dimostrare che la presenza dell'intervento straordinario non ha impedito l'accumularsi di ritardi e carenze, specie sul fronte dell'attrezzatura fine, ma al limite l'ha favorito. Le cose avrebbero potuto andare diversamente se gli obiettivi di potenziamento e riqualificazione ed i fondi corrispondenti fossero stati assegnati alle aziende ed agli enti competenti per materia (SIP, Ferrovie, ENEL, ecc.), impegnandoli a presentare progetti puntuali e a realizzarli compiutamente e tempestivamente. Il Mezzogiorno non è, come sostiene anche un recente studio della Confindustria, omogeneamente arretrato sotto questo profilo: di strade ne ha più di quante gliene occorrano, eppure si continuano a costruire strade (v. Corte dei conti Cee). Anzi gli interventi più vari, dal punto di vista della intitolazione formale, si risolvono spesso nella realizzazione di nuovi chilometri di viadotti con spreco di risorse

finanziarie e spesso ingiurie gravi all'ambiente.

Le attrezzature primarie devono essere perciò realizzate sotto la responsabilità degli enti ad esse preposte, senza l'intermediazione pletorica e fuorviante dell'intervento straordinario.

Per le opere locali, le due regioni a statuto speciale hanno, qualora il dettato costituzionale sia rispettato, fondi molto consistenti: l'incidenza pro capite è molto più elevata della media italiana e della media del centronord. L'intervento straordinario, cumulandosi con questi trasferimenti, incentiva lo spreco. Per le altre, si deve pensare ad un maggior equilibrio del trasferimento ordinario, sia pure acquisendo garanzie circa le modalità di selezione e di effettiva realizzazione delle opere. Non ha senso che si continui a provvedere anche tramite l'intervento straordinario.

E' vero che vi sono categorie di interventi che non rientrano in queste due tipologie, e che in particolare vi sono attrezzature primarie per cui manca una articolazione gestionale adeguata: valga per tutti l'esempio delle opere idrauliche. Per queste categorie di interventi si rende però necessaria una riorganizzazione a scala nazionale e non solo meridionale, ed essa può essere avviata, per l'intero territorio, sulla base di norme in vigore. Gli interventi di completamento, riqualificazione, ecc. delle reti dovranno far capo alle nuove strutture introdotte e potranno essere finanziati indipendentemente dal sussistere o meno del Titolo I· della legge n. 64. Proprio nel settore delle opere idrauliche, del resto, la Cassa ha realizzato importanti investimenti, acquisendo anche preziose competenze: ciononostante, in quarant'anni, il problema idrico in molte zone del Mezzogiorno non è stato risolto, mentre molte opere sono incompiute, inutilizzate o male utilizzate.

Il Mezzogiorno - si badi bene - non è stato penalizzato, contrariamente a quanto da molte parti si sostiene, nella ripartizione della spesa per opere pubbliche. Negli anni recenti ha ricevuto oltre il 40% del totale nazionale di questa spesa (si tratta della spesa effettiva). L'Istat parla del 42% al 1987, la Svimez e il Cresme del 45% negli ultimi anni 80 e nel 1990. Il punto è che nel Mezzogiorno assai più che nel resto del paese non si costruiscono opere selezionate in base al criterio dell'utilità del servizio che dovranno rendere, ed insieme i tempi di realizzazione tendono a diventare indefiniti, mentre meccanismi come la variante del progetto, la perizia supplettiva, ecc. sono utilizzati con grande spregiudicatezza. Le opere sono spesso ``cattive'', in genere molto costose, e in casi non rari non forniranno alcun servizio utile, perché incomplete, non raccordate, male identificate, ecc.

Dal punto di vista, poi, dell'incidenza che riveste come strumento di sostegno dei livelli di occupazione, l'intervento per opere pubbliche tende ad avere un carattere residuale. I posti di lavoro così creati, oltre che temporanei, acquisiscono sempre più spesso i caratteri del lavoro irregolare e nero. Talvolta è la criminalità organizzata operante nella catena degli appalti e subappalti che si fa garante del ricorso su larga scala a queste modalità atipiche di uso del lavoro.

E non è tutto. Nessuna riforma degli appalti che restituisca concorrenzialità al mercato e trasparenza alle procedure seguite dalle amministrazioni, può essere attuata, se la politica delle opere pubbliche si suddivide in mille rivoli, straordinari, aggiuntivi, speciali. La strada delle deroghe è stata percorsa e si è rivelata deleteria sul piano dei risultati, senza peraltro aver garantito la tempestiva realizzazione di opere concluse, che in teoria la legittimava. Invece, essa ha avuto l'effetto di potenziare enormemente il corredo di questa politica in termini di corruzione e di infiltrazioni della criminalità organizzata, da un lato, e di avvantaggiare le imprese - di progettazione e/o costruzione - più protette, rendendole arbitre non solo della scelta delle opere e della identificazione delle loro caratteristiche, livelli dei prezzi inclusi, ma anche della sopravvivenza delle imprese minori, pulite e non pulite.

Incurante di tutti questi aspetti, la linea che va sotto il nome di , intende rendere l'intervento straordinario più omogeneo a quest'impostazione emergenziale, e non restituirgli quella dignità, che del resto non occorre riacquisti, se si è convinti documentatamente della sua ridondanza.

6. "L'attuale drammatica impasse dell'intervento straordinario

I temi che sono stati via via affrontati hanno a che fare con la revisione dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, il superamento della legislazione esistente e la messa a punto di una nuova legge che ne ridefinisca le caratteristiche, tenendo anche conto dei criteri definiti dalla Comunità Europea. Le resistenze a procedere in questa direzione sono tuttavia molto forti, come dimostrano gli eventi degli ultimi mesi.

Qual è il punto? I fondi accantonati per il rifinanziamento della legge 1· marzo 1986, n. 64, sono stati finora in larghissima parte utilizzati per prorogare al 30 novembre 1991 gli sgravi contributivi alle imprese operanti nel Mezzogiorno (leggi nn. 89 e 214 del 1991). I fondi destinati a questo fine ammontano, infatti, a 7.318 miliardi, sui 10.776 di cui all'accantonamento nella tabella B della legge finanziaria 1991.

Un disegno di legge governativo per l'utilizzo non solo dei fondi residui ma anche di altri, di diversa provenienza, è stato da tempo preannunciato, ma mai presentato al Parlamento. I fondi stanziati sarebbero, a quanto si conosce, 6.300 miliardi di cui 950 per il 1991 e 3.458 per il biennio 1992-1993 derivanti da appositi stanziamenti della legge finanziaria 1991 o prelevati da altri accantonamenti previsti dalla stessa legge. Le somme che si renderebbero disponibili ammonterebbero a 24 mila miliardi per il periodo 1991-1994, perché una parte dello stanziamento sarebbe finalizzato ad accendere mutui con la Banca europea degli investimenti (l'onere corrispondente per il bilancio dello Stato ricadrebbe perciò soprattutto sugli anni a venire). Lo squilibrio tra fondi disponibili e stanziamenti presenti e futuri è probabilmente la ragione principale della mancata presentazione del provvedimento.

Il disegno di legge governativo ancora non formalizzato all'inizio di ottobre 1991, destinerebbe alle agevolazioni per le attività produttive 4 mila miliardi nel periodo 1991-1993, finalizzando le risorse ottenute con i mutui BEI alla realizzazione dei cosiddetti ``progetti strategici''.

E' dunque la volontà di riservare migliaia di miliardi per le opere pubbliche, che rischia di lasciare all'asciutto l'intervento straordinario, anche per la parte finalizzata all'industrializzazione: gli stanziamenti ancora disponibili (950 miliardi per il 1991 e 3.458 per il biennio 1992-1993) sarebbero infatti sufficienti a consentire di fronteggiare la gran parte di queste richieste avanzate dalle imprese. Se l'iter parlamentare per il rifinanziamento non sarà avviato, la conseguenza più grave sarà che i progetti per nuovi investimenti industriali già presentati saranno o annullati o deviati verso altre localizzazioni. Migliaia di posti di lavoro produttivi andrebbero così perduti per il Mezzogiorno.

Ove il rischio evocato si verificasse, si sarebbe in presenza di una contraddizione lacerante visti: i livelli assolutamente eccezionali della disoccupazione nelle aree meridionali, i danni di una politica di sostegno all'occupazione tutta centrata sull'espansione del terziario pubblico e parapubblico, il dilagare delle attività sommerse e il reclutamento su vasta scala di giovani da parte delle organizzazioni criminali. Eppure, è possibile che quel rischio si concretizzi, perché gli uomini di governo cui spetta di usare a buon fine i finanziamenti residui, non allo sviluppo del sud sono interessati, ma a lanciare mega-programmi di magari inutili opere pubbliche, per favorire quei loro amici che a loro volta li sosterranno nella prossima campagna elettorale.

7. "Dopo il referendum"

La disastrata esperienza realizzata con la legge n. 64, l'esigenza sempre più evidente di mutare radicalmente i caratteri dell'intervento straordinario per finalizzarlo allo sviluppo, la fase positiva sotto il profilo della possibilità di accelerare il processo di industrializzazione che è in corso, non sarebbero motivi sufficienti a giustificare il referendum, mentre sarebbero motivi sufficienti per proporre un provvedimento di riforma che azzeri il passato e riprenda su basi nuove il cammino della crescita produttiva. Ma la resistenza della gran parte dello schieramento partitico su questo fronte, nonostante le critiche alla legge 64, e le caratteristiche stesse che i partiti di governo, in ampi loro settori, sono andati acquisendo nel Mezzogiorno, rendono il ricorso al referendum inevitabile.

L'intervento straordinario com'è diventato, non aiuta il sud. Contribuisce invece all'arretratezza ed al degrado delle sue strutture amministrative. Soffoca le energie positive che vi si manifestano. Favorisce il dilagare e lo strapotere della criminalità.

Con il referendum l'intervento per il sud dovrà limitarsi a sostenere la crescita produttiva. Da palla al piede il Mezzogiorno dovrà diventare occasione vera di sviluppo ed elemento cruciale della positiva partecipazione italiana alla nuova Europa.

Prima di tutto, il referendum renderà infatti improponibile, davvero improponibile questa volta, la proroga ulteriore dell'intervento straordinario che comunque scadrebbe a fine 1993. E renderà definitivo il ritorno per le opere pubbliche all'intervento ordinario, centrale e periferico, con le conseguenze che sono state tratteggiate.

Il referendum non incide e non inciderà sul trasferimento di risorse a favore del Mezzogiorno, attraverso il canale della finanza pubblica. Ma permetterà di finalizzare questo trasferimento allo sviluppo.

La pesante e pletorica struttura burocratica che sovrasta l'intervento straordinario, verrà meno - come il Parlamento avrebbe voluto avvenisse già nel 1984 - perché nessuna ragione milita a favore del suo permanere. Anche la rete degli enti minori (come Forme, Fime, ecc.) sopravviverà quando si tratti di enti che svolgono una funzione e possono quindi finanziarsi sul mercato, e sparirà quando si tratti di enti inutili o disutili.

La parte della legge che il referendum non abroga, quella finalizzata allo sviluppo produttivo, resterà operante anche qualora riceva - come dovrebbe - le modifiche necessarie per renderla coerente con la politica, della Comunità europea a favore delle aree arretrate: incentivi definiti con maggior riferimento alle condizioni svantaggiate delle diverse regioni, altre forme di sostegno che si traducano nell'eliminazione di diseconomie esterne, ecc.

Il referendum, infine, non investe il sussistere o meno di un Ministro per il Mezzogiorno. Se il Ministro è superfluo, le competenze residue dovranno essere assegnate al Ministro dell'industria, mentre la garanzia che gli enti incaricati dell'attrezzatura del territorio operino nel Mezzogiorno in modo da rendere le sue condizioni non inferiori a quelle del resto del paese, dovrà essere prestata dai Ministri che hanno per questi enti compiti di indirizzo, vigilanza e controllo.

LE PARTECIPAZIONI STATALI

1. "Premessa"

L'Italia è l'unico paese europeo occidentale ad avere da oltre 50 anni la proprietà pubblica di imprese di diritto privato (società per azioni) che esercitano la propria attività in vari settori dell'industria e dei servizi. Ed è l'unico paese europeo occidentale in cui queste imprese fanno capo ad enti pubblici i quali a loro volta fanno capo ad un Ministero. Nel conflitto che contrappose negli anni 1950 l'Iri che era sostanzialmente una capogruppo finanziaria, tenuta a garantire che le aziende controllate fossero gestite in modo efficiente, e l'Eni che aveva invece compiti di direzione strategica molto più ampi e voleva contare sull'appoggio pieno dei governi, l'istituzione del Ministero (1956) fu una vittoria dell'Eni. Fu il Ministro delle Partecipazioni statali a risolvere l'annosa questione della riconversione post-bellica del gruppo Breda, costituendo nel 1962 un terzo ente di gestione, l'EFIM.

La legge che il quesito referendario propone di abrogare è proprio la legge 22 dicembre 1956, n. 1589, istitutiva del Ministero, per le parti che ancora restano operanti (istituzione del Ministero, suoi compiti, distacco sindacale dalla Confindustria, struttura del Ministero).

Dagli anni 50 ad oggi, le Partecipazioni statali hanno perso qualsiasi ruolo di strumento di sviluppo e di sollecitazione della concorrenza, per diventare sempre più infeudate dai partiti e dalle correnti e sempre meno efficienti. Eppure, era per motivi di salvaguardia di un'ampia articolazione del sistema delle imprese che l'Iri nacque nel 1933 e divenne permanente nel 1936. Ed era per motivi connessi alla politica di sviluppo che lo stesso Iri fu tenuto in piedi dopo la guerra e che la liquidazione delle aziende petrolifere di stato, create nel periodo fascista, aveva trovato sbocco nella costituzione dell'Eni nel 1952.

Negli anni sessanta, ed ancor più nei settanta ed ottanta, l'Italia è diventata un paese industriale. Il ruolo delle Partecipazioni statali avrebbe dovuto essere rivisto, adeguato ai tempi nuovi. E questo compito sarebbe toccato al Ministro.

Nessun Ministro vi dedicò energie percepibili. Gli enti furono sempre in condizione di agire da padroni, anche quando la gestione delle imprese era rovinosa, i debiti raggiungevano livelli da capogiro, tutte le occasioni di innovare e trasformarsi venivano perdute. L'attività dei Ministri, quando vi fu, ebbe come principale riferimento di spingere a investire in un'area piuttosto che in un'altra, a salvaguardare l'occupazione nella propria zona d'influenza, a contribuire così a rendere i vertici delle imprese e degli enti, già protetti da importanti padrini, assolutamente irresponsabili. Come afferma Pasquale Saraceno nel volume "Banca e industria tra le due guerre", negli ultimi decenni ``è declinata l'idea dell'impresa operante nella sfera pubblica che veda garantita al proprio "management" una sfera di autonomia non troppo diversa da quella in cui opera il "management" privato e che gli è necessaria per operare in un'economia di mercato''.

2. "L'evoluzione del sistema"

Il sistema delle imprese a partecipazione statale si è, nel tempo, andato estendendo ed è penetrato in settori in cui la sua presenza non aveva alcun significato propulsivo. Tipico il caso delle progettazioni civili e delle opere pubbliche: le Partecipazioni statali, l'Iri in particolare, si sono date imprese per intervenire in questi campi, ma anche in altri campi di pertinenza dell'intervento pubblico o ad essi di servizio, con il pretesto che lo Stato non era in grado di fare e che era opportuno che l'impresa pubblica in quanto tale gli si sostituisse. In realtà, queste imprese si sono rivelate altrettanto incapaci di fare, funzionando - esclusivamente o quasi - come intermediari tra le amministrazioni e i progettisti o i costruttori, contribuendo, da un lato, a ridurre ulteriormente le capacità delle amministrazioni di provvedere direttamente e, dall'altro lato, ad allontanare il mercato delle progettazioni e delle opere dalle regole della civile concorrenza.

Quando agiscono come concessionarie di un servizio pubblico (i casi sono numerosi: dai telefoni ai trasporti aerei e marittimi, alle autostrade, alla fornitura del gas, alla Rai) le imprese a partecipazione statale non ottengono risultati più brillanti degli enti e delle aziende pubbliche, ai quali erano stati preferiti nella presunzione di una gestione più flessibile ed efficiente. Il servizio è costoso e di insufficiente qualità. Le protezioni partitiche garantiscono che le pressioni per la revisione delle tariffe siano accolte, mentre ogni investimento è posto a totale o parziale carico dello Stato con il pretesto che le tariffe non consentono di coprirne gli oneri.

Così le imprese a partecipazione statale possono suddividersi in due categorie: quelle che assorbono risorse rilevanti come destinatari di trasferimenti pubblici e quelle che le assorbono in quanto titolari di monopoli redditizi. Non rendono né al paese né allo stato. In tutti i campi in cui è necessario uno sforzo di modernizzazione per competere alla pari con il resto del mondo (i trasporti, le telecomunicazioni, le progettazioni civili, ecc.) esse introducono anomali mercati protetti, fonti di arretratezza e corruzione.

Il Ministro ha assistito e assiste a questa tumultuosa ed improvvida evoluzione. Assiste, non indirizza, né controlla. In decenni di vita non (nessuno dei ministri via via succedutisi) si è dotato neppure delle strutture che dovrebbe detenere per esercitare i compiti di indirizzo e controllo che gli sono affidati.

3. "Sulla privatizzazione delle Partecipazioni statali"

Il quesito referendario non propone la privatizzazione delle imprese a partecipazione statale. La questione della privatizzazione di queste imprese, delle loro finanziarie e degli enti di gestione, ha una rilevanza specifica ed autonoma. Così come esistevano prima del Ministero, imprese, finanziarie ed enti possono sopravvivere in mancanza del Ministero.

La questione della privatizzazione è, tuttavia, posta dal decreto legge n. 309 del 3 ottobre 1991. Ed è posta come strumentale al reperimento di risorse per finanziare spesa pubblica e/o ridurre l'incidenza del debito.

La privatizzazione del sistema delle Partecipazioni statali ha, tuttavia, un significato che non può essere ridotta al reperimento "una tantum" di risorse. Non lo può, da un lato, perché vi sono imprese poco efficienti e competitive la cui alienazione, anche parziale, risulterebbe oltre che difficile, onerosa per la finanza pubblica. Ma non lo può, dall'altro lato, perché alcune imprese fiorenti lo sono in virtù del servizio loro concesso dallo Stato, che non avrebbe senso cedere con le stesse modalità a privati. Non lo può, infine, perché l'attuale management delle imprese a partecipazione statale non si è rivelato capace di codecidere con soci privati, garantendo adeguatamente l'operatività delle imprese.

La premessa per successive privatizzazioni sta dunque nel pretendere che le imprese pubbliche si comportino, nella loro conduzione, come se fossero private. Che siano in grado di competere sul mercato, di operare a costi non superiori e con prodotti non peggiori di quelli dei concorrenti. Che facciano il loro mestiere nei limiti entro cui esso va fatto, evitando di inserirsi tra il pubblico e il privato come pericolosi e spregiudicati intermediari. In mancanza di questo, la loro privatizzazione si tradurrebbe o nella cessione ai privati di privilegi pubblici o nell'erogazione di risorse pubbliche ai privati perché le ristrutturino e le rendano competitive. In presenza di questo, apparirebbe più tollerabile che lo Stato detenga aziende che producono caramelle o panettoni, o altri prodotti non strategici.

4. "Dopo il referendum"

L'obiettivo del referendum è l'eliminazione di una sovrastruttura inutile come il Ministero, come primo passo per una riorganizzazione che costringa le imprese a partecipazione pubblica ad operare come imprese, alla pari con le imprese private.

Per questa riorganizzazione l'eliminazione del Ministero è premessa necessaria, ma certamente non sufficiente. L'altro passo, ben più decisivo, è quello che attribuisce agli enti di gestione in piena autonomia e con piena responsabilità la scelta degli uomini in grado di guidare le imprese. Come accade in tutto il mondo evoluto, gli incapaci dovranno essere rimossi e nessuna protezione politica dovrà evitare che questo accada.

Se la regola della lottizzazione partitica sarà abbandonata, anche il numero dei posti da occupare potrà essere ridotto, con giovamento per i bilanci delle imprese.

La riforma più significativa, con l'eliminazione del Ministero, riguarda quindi gli enti di gestione. La pratica pluridecennale degli oneri impropri che lo Stato copre con conferimenti al fondo di dotazione, va abolita. E va eliminato il continuo ricorso alla finanza pubblica per ottenere provvidenze e contributi. Gli enti di gestione devono essere reidentificati, per evitare sovrapposizioni di competenze ma anche per impedire che dimensioni eccessive ne vanifichino ogni concreta operatività. Per i settori la cui conduzione sia stata irrimediabilmente passiva, occorre cercare in accordi internazionali, le competenze e le condizioni complessive necessarie per il recupero di economicità. Il principio deve essere che le Partecipazioni statali contribuiscono, direttamente e indirettamente, al finanziamento del settore pubblico, invece di gravare sulla spesa con continui prelievi sottraendosi, ogni qual volta diano luogo a profitti, al pagamento dei dividendi e delle stesse imposte.

Insomma, l'eliminazione del Ministero è solo l'inizio di un'operazione complessa e coraggiosa che non può avere come obiettivo di far entrare qualche eventuale soldo in più nelle casse dello Stato come rimedio temporaneo al dissesto della finanza pubblica, ma di riportare lo strumento Partecipazioni statali ad una durevole capacità di contribuire al risanamento e allo sviluppo.

PROMOZIONE E ADESIONI

Hanno depositato i tre quesiti presso la Corte di Cassazione, il 16 settembre 1991:

Massimo Severo Giannini, Walter Baldassarri, Antonio Baslini, Franco Bassanini, Ada Becchi, Giuseppe Benedetto, Enzo Bianco, Alfredo Biondi, Angelo Bolaffi, Giorgio Bogi, Giuseppe Calderisi, Simona Colarizzi, Guido Corazziari, Paolo D'Anselmi, Antonio Del Pennino, Mauro Dutto, Rosa Filippini, Paolo Flores d'Arcais, Carlo Fusaro, Giuseppe Galasso, Salvatore Grillo, Ottavio Lavaggi, Giacomo Marramao, Raffaello Morelli, Toni Muzi Falconi, Giovanni Negri, Gerolamo Pellicanb, Francesco Rutelli, Cesare Salvi, Massimo Scalia, Mario Signorino, Marco Taradash, Massimo Teodori, Chicco Testa, Paolo Urbani, Carlo Usilio, Salvatore Valitutti.

Ai referendum per le nomine bancarie e l'intervento nel Mezzogiorno hanno aderito anche Sergio Stanzani Ghedini e Lorenzo Strik-Lievers.

Hanno inoltre aderito prima dell'avvio della campagna di raccolta delle firme: Franco Ambrogio (vice-sindaco Cosenza), Pietro Ancona (Confesercenti), Sergio Andreis, Ricciotti Antinolfi (docente universitario), Laura Balbo, Francesco Barbagallo (docente universitario), Pietro Barrera (docente universitario), Ludina Barzini (pubblicista), Antonio Bassolino, Pinuccia Bertone, Piero Bizzarri (direttore FIME), Marco Boato, Beniamino Bonardi (Lega ambiente), Renzo Bonofiglio (medico), Felice Borgoglio, Gianmarco Brenelli (Libertà futura), Flora Calvanese, Pasquale Calvario (avvocato), Giorgio Cardetti, Filippo Cavazzuti, Alessandra Cecchetto, Coco, Laura Cima, Guido Corso (docente universitario), Piero Craveri (docente universitario), Giuseppe Cristofaro (consigliere regionale Calabria), Sergio De Julio, Mauro Del Bue, Ugo de Leone (docente universitario), Annalisa Diaz, Beni Di Prisco, Anna Donati, Carlo Donolo (docente universitario), Gregorio Fontana, Armando Forgione (Confesercenti), Carlo Galli (docente univ

ersitario), Vincenzo Gallo (architetto), Mariella Gramaglia, Davide Grassi (imprenditore), Augusto Graziani (docente universitario), Luciano Guerzoni, Francesco Lata (direttore CUD Calabria), Gianni La Torre (prorettore univ. Calabria), Massimo Lo Cicero (esperto finanziario), Giampaolo Loda (avvocato), Giunio Luzzatto (docente universitario), Eugenio Madeo (architetto), Luigi Magnoli (avvocato), Renato Manheimer (docente universitario), Mauro Marabini (imprenditore), Maurizio Marchesi (giornalista), Antonio Martino (docente universitario), Nicola Matteucci (Il Mulino), Enzo Mattina, Gianni Mattioli, Giuseppe Matulli, Giuseppe Mazzotta (avvocato), Gian Stefano Milani, Venzo Morrone (consiglio prov. Cosenza), Fabio Mussi, Toni Muzi Falconi, Massimo Nicolazzi, Giovanni Nonne, Pierluigi Onorato, Massimo Pacetti, Luca Paci (pubblicista), Daniele Panattoni (Confesercenti), Angelo Panebianco (docente universitario), Gianfranco Pasquino, Sandro Petriccione (Presidente FIME), Mario Pirani (giornalista), Adriana Poli

Bortone, Piero Pozzoli (imprenditore), Mario Raffaelli, Massimo Riva, Cesare Roberti (magistrato), Edo Ronchi, Franco Russo, Pantaleone Sergi (giornalista), Claudio Signorile, Bruno Solaroli, Tommaso Staiti di Cuddia, Giovanni Tortorici (avvocato), Salvatore Veca (docente universitario), Lucio Villari (docente universitario), Bruno Zevi.

Il Coordinamento del CORID è formato da: Massimo Severo Giannini che lo presiede, Antonio Baslini, Antonio Bassolino, Ada Becchi, Giuseppe Renedetto, Alfredo Biondi, Giorgio Bogi, Giuseppe Calderisi, Antonio Del Pennino, Mauro Dutto, Giacomo Marrarnao, Fabio Mussi, Toni Muzi Falconi, Giovanni Negri, Massimo Nicolazzi, Piero Pozzoli, Cesare Salvi, Massimo Teodori. Coordinatore Giovanni Negri

Segreteria Ada Becchi e Mauro Dutto.

CORID

"Comitato per la riforma democratica"

I REFERENDUM PER LA RIFORMA DEMOCRATICA

Ti invitiamo a firmare - presso le segreterie comunali e ai punti di raccolta - i referendum per la riforma democratica: per una nuova legge elettorale e per liberare lo Stato e l'amministrazione pubblica dall'occupazione partitica. Dopo le elezioni politiche, nella primavera 1993, i cittadini potranno esprimersi su di essi con il voto.

I REFERENDUM del Comitato per la riforma democratica, presieduto dal professor Massimo Severo Giannini, propongono:

1. di togliere al Governo il potere di nomina dei vertici delle Casse di risparmio, per avviare una effettiva democratizzazione nel settore del credito.

2. di limitare l'intervento straordinario nel Mezzogiorno solo allo sviluppo produttivo, per una nuova alleanza tra nord e sud, in nome dello sviluppo, dell'occupazione e di pari condizioni di civiltà.

3. di eliminare il Ministero delle Partecipazioni statali, per disboscare la giungla dei Ministeri, sopprimere quelli inutili, responsabilizzare le imprese di proprietà pubblica.

L'iniziativa per la riforma democratica si è così rafforzata e ampliata dai referendum elettorali a quelli contro l'invadenza di questo sistema dei partiti, in modo che i cittadini possano esprimersi non solo sulle regole del gioco, ma anche su importanti questioni di contenuto.

La vita pubblica è infatti divenuta insopportabile per la cappa di piombo che è stata posta sulla società, sulle istituzioni, sull'economia. Anche il privato ne soffre: nessuna regola della civile convivenza è più garantita e ogni sfera di autonomia è erosa dal pervasivo dilagare del partitismo. Con esso si è estesa a dismisura anche la giungla dei privilegi, delle ingiustizie, degli affari che coinvolgono direttamente uomini di partito che occupano lo Stato.

Questo sistema dei partiti anche quando appare consapevole dell'insofferenza dei cittadini (e non è frequente), è incapace di recidere le radici delle posizioni di potere che ha edificato. E' necessario l'intervento diretto dei cittadini, con i referendum, per rompere il circolo vizioso di un potere senza controllo e senza legittimazione. Con questi referendum, si avvia una campagna decisiva per la riforma democratica del paese. Lo strumento referendario da ai cittadini la possibilità di far sentire la propria voce, in alternativa alle proteste localiste, malavitose o populiste, riconducendo i partiti al ruolo che ad essi assegna la Costituzione.

Ognuno ha la possibilità di conquistare con le proprie mani un po' di pulizia, di responsabilità e di onestà in più, firmando e facendo firmare i referendum per la riforma democratica.

 
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