di Filippo GentiloniSOMMARIO: Nel corso dell'agosto 1992 si è aperto sulla stampa un dibattito sulla legalizzazione della droga. Filippo Gentiloni, intervenendo su Il Manifesto, mette a confronto le opinioni dei proibizioni e degli antiproibizionisti sottolineando che non vi sono soluzioni risolutive e che invece bisogna adottare provvedimenti parziali anche se imperfetti.
(IL MANIFESTO, 19 agosto 1992)
Fra i pochi segnali positivi apparsi in questa estate torrida e tragica bisogna annoverare la riapertura del dibattito sulla legalizzazione delle droghe. Non che il dibattito fosse mai stato chiuso, neppure dopo l'approvazione della legge Jervolino-Vassalli, ma si era isterilito nel conto più o meno matematico dei successi e delle sconfitte. A riaprire il dibattito, su toni più elevati, è stata, come è noto, una affermazione di Martelli, ripresa da Ayala e da altri, ma è stata soprattutto la rinnovata dimostrazione di impotenza dello stato e delle sue leggi nei confronti della mafia e dei suoi delitti. Una apertura emotiva e fortemente condizionata, che rischia di spostare e falsare i termini di un dibattito già di per sé difficile e sfuggente. Droghe leggere (come ha chiesto anche il Pds, con un solenne intervento di Violante alla Camera) o anche droghe pesanti? E soprattutto: legalizzare, liberalizzare o che altro? Che cosa è possibile a livello nazionale e che cosa richiede, invece, necessariamente il liv
ello internazionale?
Quali confini fra l'eventuale antiproibizionismo?
Sono intervenute molte voci autorevoli, ripetendo le posizioni classiche del governo proibizionista e degli antiproibizionisti. Voci politiche, al seguito di Martelli, hanno evidenziato nuove perplessità ed aperture. Particolarmente interessanti le voci degli operatori più autorevoli ed esperti (Ciotti, Mazzi, Picchi ed altri).
Non potendo compendiare un dibattito ricco o variegato, mi limiterò ad alcune osservazioni sul dibattito stesso e poi su alcune questioni che il dibattito sottintende.
Appare in crisi la posizione del proibizionismo rigido, sostenuta ormai da pochi e con argomenti sempre più deboli: sono stati i risultati stessi di questi tre anni di legge 162 a metterla in crisi. Il commercio della droga sempre fiorente, le carceri strapiene, l'Aids, la folla che si assiepa nelle pieghe della clandestinità, la scarsa possibilità di rieducazione, e così via. Molti ex-proibizionisti sono passati, se non addirittura ad un proibizionismo radicale, ad allargare le posizioni intermedie, arricchendo di distinguo e di argomentazioni anche contraddittorie ma comunque utili.
Fra gli argomenti dei proibizionisti, ne vorrei sottolineare due particolarmente interessanti e "resistenti": due temi sui quali si dovrà discutere a lungo. Il primo è la necessità di una internazionalizzazione del problema e delle soluzioni. L'antiproibizionismo, dicono, potrebbe avere senso soltanto se adottato a livello internazionale.
Che cosa rispondono gli antiproibizionisti (o i perplessi)? Temono, prima di tutto che questo rinvio, di per sé logicissimo, rimandi qualsiasi soluzione a chissà quando.
Bisogna fare qualche cosa subito, per non fare deteriorare ulteriormente una situazione già tragica. Il perno della risposta è allora: sperimentare. Con prudenza e controlli, in dichiarata provvisorietà. Con la piena possibilità di tornare indietro. Sul valore della sperimentazione (rara, ai nostri tempi), insiste fra gli altri, don Ciotti.
Si noti - a scanso di equivoci - che né gli antiproibizionisti più decisi né i perplessi sostengono che una certa liberalizzazione o legalizzazione delle droghe porrebbe fine immediatamente al mercato clandestino e quindi alla mafia. Sarebbe ingenuo pensarlo. Forse a lunga scadenza, una graduale diminuzione della criminalità... La loro principale speranza non è sul fronte della criminalità organizzata ma della prevenzione e del recupero dei tossicodipendenti.
Un altro argomento forte contro gli antiproibizionisti e anche di molti perplessi. Si teme che si punti su di una nuova legislazione meno punitiva piuttosto che sul funzionamento dei servizi e su di una sana pedagogia anticonsumistica, solidaristica, che faccia forza sui lavori, ecc...
Soprattutto don Mazzi e don Picchi ripetono che il problema principale non è la legge - anche a loro la legge 162 non entusiasma - ma l'impegno morale, educativo, sociale. Insomma, un nuovo stile di vita. Un compito che è di tutti. Un argomento che nessuno potrebbe contestare né sottovalutare.
Come dar loro torto? Che cosa possono rispondere gli antiproibizionisti più o meno radicali? La loro risposta invoca una specie di distinzione di piani e una riflessione di fondo sul rapporto fra legge, etica, educazione.
Il piano etico-pedagogico è e deve rimanere il principale: soltanto a questo livello la droga può essere combattuta a fondo, i risultati potrebbero essere solidi, definitivi. E' vero: è questo il compito principale della società e dello stato.
Ma intanto - ecco il secondo livello - bisogna fare qualche cosa di immediato, anche se insufficiente. Qualche cura, anche se non radicale. Qualche provvedimento tampone. Altrimenti, come si suol dire, l'ottimo diviene nemico del bene, specialmente se si tratta di un ottimo lontano, difficilissimo da raggiungere.
Su questo piano modesto, minore, ma importante, si pone il discorso su una eventuale legalizzazione. Quando la casa brucia è giusto adoperare tutti i mezzi per spegnere il fuoco, anche quelli parziali imperfetti.
A questo punto, si apre il capitolo del rapporto fra leggi dello stato ed etica. Gli antiproibizionisti rispondono che non sempre le leggi dello stato si possono caricare di un forte valore etico: qualche volta tali leggi possono - anzi devono - essere ispirate correttamente dal famoso "male minore". Piedi per terra, dunque, tampone. E' già molto. Il grande orizzonte della solidarietà, della giustizia, ecc. non viene rinnegato, ma rimane sullo sfondo.
Mi sembra corretta la conclusione dell'articolo di Nicola Zingaretti, (Sinistra Giovanile "Il Manifesto" del 12/8): "Compito di una legge in questo campo non può essere quello di stabilire cosa sia moralmente giusto o cosa sia moralmente sbagliato, ma prendere atto dei problemi e predisporre gli strumenti più efficaci per risolverli".
Un esempio famoso di questo doppio livello e di questo rapporto fra etica e legge dello stato è tornato in questi giorni in prima pagina: il cattolicissimo mensile "30 giorni" ha ricordato l'antica politica degli stati, anche cattolici, sulla prostituzione, tutta improntata per secoli, alla concretezza "possibile" del male minore.
Il principio - la condanna - rimane all'orizzonte, mentre la legge (le case chiuse, in questo caso) cerca di limitare i danni, con successo maggiore o minore, sempre relativo. Anche qualche parroco di oggi ripete lo stesso discorso. Molti si scandalizzano, ma non conoscono la storia e il valore del rapporto etica-leggi.
Spero che questi accenni insufficienti contribuiscano a un dibattito che non dovrebbe rimanere soltanto estivo.