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Dupuis Olivier, Busdachin Marino, Paolini Edmondo, Rosa Luciana - 4 settembre 1992
Federalismo e nazionalità
a cura di Olivier Dupuis, Marino Busdachin, Edmondo Paolini, Luciana Rosa

SOMMARIO: Le riflessioni di un gruppo informale costituito nel Pr sulla problematica delle nazionalità.

INDICE:

0. Introduzione

1. La questione delle nazionalità

1.1. Nazionalità e Stato dei cittadini

1.2. Organizzazione statuale e minoranze

1.2.1. Corrispondenza tra stato e nazione

1.2.2. Stato e multi-etnicità

1.3. Lo Stato dei cittadini ed i diritti delle minoranze

1.3.1. Federalismo non territoriale

1.3.2. Autodeterminazione o autogoverno

1.3.3. Autogoverno e integrazione

1.3.4. Autogoverno e democrazia

1.3.5. Federalismo e sistema elettorale

1.3.6. Comunità etnica, minoranza nazionale, co-nazione

1.4. Regioni transfrontiere

1.5. Comunità transfrontiere

1.5.1. Comunità linguistiche

1.5.2. Comunità "etniche-nazionali"

1.6. Minoranze transnazionali

1.7. Coesione dello stato e federalismo democratico-interno

1.8. Altre - nuove - forme di statualità

1.9. Minoranze e meccanismi di garanzia sovranazionali

2. Europa

2.1. La Comunità europea

2.1.1. Limiti dell'attuali processo di integrazione della CE

2.1.2. Approfondimento - Allargamento

2.1.3. Rifondazione

2.1.3.1. L'Europa ed i diritti umani

2.1.3.2. L'Europa ed i cittadini

2.1.3.3. L'Europa ed i diritti delle minoranze

2.1.3.4. L'Europa e le regioni

2.1.3.5. L'Europa e le comunità etniche

2.1.3.6. L'Europa e la comunicazione

2.1.3.7. L'Europa e la politica di sicurezza

2.2. Verso altre integrazioni regionali ?

2.2.1. Federazione Danubiana ?

2.2.2. Federazione Balcanica ?

1. La questione delle Nazionalità

(Seminario del Partito radicale, Sabaudia 4-8 settembre 1992)

Roma, 30 luglio 1992

In seguito - anche - ad una conversazione con il Primo Segretario è nato un gruppo informale di persone (Edmondo Paolini, Luciana Rosa, Marino Busdachin e Olivier Dupuis) che hanno cercato di sviluppare una qualche riflessione sulla problematica delle nazionalità.

Come potrete constatare dal "sommario" iniziale, "manca" una seconda parte.

* * * * *

Cominciando questo tentativo di ragionamento su: "l'Europa e la questione delle Nazionalità", vorremmo sgomberare il terreno da alcuni concetti inquinati.

Prima di tutto vorremmo prendere le distanze dal concetto di autodeterminazione (e dal suo corollario, i diritti dei popoli): un concetto che è servito, nella stragrande maggioranza dei casi, a gruppi cosiddetti dirigenti per reprimere, in nome dell'indipendenza da conquistare, ogni diritto del singolo, per calpestare ogni diritto umano, per presentare la via violenta all'indipendenza come l'unica possibile, e, conseguentemente, a "liberazione compiuta", per costruire un nuovo stato centralizzato, giacobino, spesso totalitario, e più spesso ancora meno rispettoso delle proprie minoranze, politiche, etniche, religiose o di altro tipo, di quanto lo fosse lo Stato da cui si ritenevano oppressi.

A questo concetto di autodeterminazione vorremmo contrapporre quello di "autogoverno", inteso come strumento per una comunità data, mono o pluri-etnica, di governarsi in tutti gli ambiti in cui questo "governo" risultasse più efficace oltre che più vicino al cittadino che se fosse organizzato dal potere centrale. Un concetto, questo, che rinvia quindi direttamente a quelli di interdipendenza e di sussidiarietà. Rimangono ferme le necessità del coordinamento sia con le altre entità "federate", quando l'entità è parte di un insieme statuale più vasto, sia con gli stati confinanti, quando si tratta di stati internazionalmente riconosciuti.

In secondo luogo, vorremmo quanto meno tentare (l'esperienza ci dice che si tratta di un'impresa molto difficile) di togliere al concetto di federalismo alcuni dei significati che per molti ha assunto in Europa Centrale ed Orientale in seguito alle esperienze storiche politiche, in particolare quelle ex-yugoslava, ex-sovietica e cecoslovacca, alle quali è stato associato.

Federalismo, come lo dice del resto la radice stessa del termine, vuole dire "mettere insieme". Si tratta quindi di un atto volontario. Di attuazione per definizione impossibile (a meno di stravolgerne il significato) in regimi non-democratici, e, a maggiore ragione, in regimi totalitari. L'opposto quindi dello smembramento e della disgregazione paventati dai settori conservatori degli ex-partiti unici dei regimi comunisti, ora riconvertiti al nazionalismo in molti paesi dell'Europa Centrale ed Orientale.

Perché questa precisazione ? Perché dai Balcani al Caucaso, dal Bacino del Danubio alla regione asiatica dell'ex-Unione Sovietica, fino, ovviamente, a quei paesi membri di questa così precaria, debole e poco democratica Comunità europea, tra ed all'interno di tutti questi stati oggi esistenti, la capacità di affrontare le nuove e grandi sfide del nostro tempo, e quindi in primo luogo una convivenza pacifica e reciprocamente proficua tra le nazioni e le etnie, oltreché uno sviluppo sostenibile, ovvero accessibile a tutti e rispettoso dell'ambiente, non potranno esistere senza che, in un modo o in un'altro, essi trovino tra di loro ed al loro interno nuovi modi VOLONTARI e DEMOCRATICI, quindi FEDERAL-DEMOCRATICI di organizzazione delle interdipendenze, di luoghi per agire insieme e per difendere dei comuni interessi.

1.1. Nazionalità e Stato dei Cittadini

Questi principi sono, però, molto generali, e spesso di difficile attuazione nelle situazioni complesse e a volte drammatiche oggi esistenti nell'Europa Centrale ed Orientale. In effetti, se è vero che una delle grandi linee di demarcazione tra democrazia e non-democrazia passa tra lo stato dei cittadini sognato, tra gli altri e drammaticamente, dal Presidente bosniaco Izetbegovic ed i vari progetti pan-nazionali, a cominciare da quello di Milosevic, con questo però non si esaurisce la problematica dell'articolazione, in regime di democrazia, tra i diritti il cui esercizio va organizzato in modo univoco e quelli il cui esercizio va diversificato in funzione dell'etnia o meglio della comunità etnica-culturale di appartenenza.

1.2. Stati e nazioni

Di fronte al grande numero dei problemi etnici aperti sul continente europeo si contrappone una grande diversità di approcci. Tra chi ritiene che si tratti di uno stesso ed identico fenomeno, con le stesse cause e gli stessi effetti e chi ritiene che, sia le cause sia gli effetti, siano numerosi quanto i casi, noi vorremmo tentare un approccio sistematico alla questione. Andando per approssimazioni cominceremo col distinguere le situazioni nelle quali c'è corrispondenza tra territorio e "etnia" e quelle in cui non esiste questa corrispondenza.

1.2.1. Corrispondenza tra territorio e nazione

Il primo vede una separazione geografica netta tra le diverse nazionalità. I casi di questo tipo, sono stati, per lo più, risolti nel corso dei secoli, e specialmente nel secolo scorso, con l'accesso di queste nazioni all'indipendenza nazionale. Va sottolineato però che - a dispetto anche di quanto possa apparire oggi - la separazione geografica tra le diverse etnie era raramente ben delineata e che sia i processi di indipendenza delle "nazioni" di ieri, sia quelli di oggi (come del resto quelli "programmati" per domani), si sono spesso compiuti sulla pelle di altre "nazioni" o "comunità etniche", interne a queste nuove entità territoriali che accedevano all'indipendenza, all'autonomia (vedere Alto Adige o Belgio per esempio), cambiavano stato (Transilvania), erano "assorbite" da o annesse ad altre entità statuali (Alsazia, per esempio). Politiche non certo uguali, che potevano andare dai trasferimenti (e spesso massacri) di popolazioni (come per i Tartari di Crimea), alla pura e semplice negazione dell'iden

tità nazionale (come tutt'oggi, ad esempio, per i macedoni viventi in Grecia), alla assimilazione sotto copertura legale, più o meno forzata (ad esempio in Catalonia, in Bretagna), alle politiche di popolamento tendenti a cambiare la struttura etnica di una regione data, all'ostacolazione burocratica verso l'uso di determinati diritti delle "minoranze", ...

1.2.2. Stato e multi-etnicità

Il secondo tipo vede delle situazioni di tale intreccio geografico tra le varie etnie che qualsiasi ipotesi di indipendenza o di autonomia fondata su base geografico-etnica appare impossibile. Un caso tra i più emblematici di questo tipo di situazione è rappresentato dalla Bosnia Erzegovina dove convivono a macchia di leopardo tre grandi "comunità etnico-religiose".

In situazioni del genere, che hanno ovviamente precedenti nella storia - basta ricordare la spartizione (in questo caso su base religiosa più che etnica) delle Indie ed i successivi e tragici trasferimenti di popolazioni tra India e Pakistan - si manifesta in tutta la sua drammaticità la difficoltà dell'articolazione tra i diritti il cui esercizio è uguale per tutti i cittadini e quelli il cui esercizio è diverso a secondo dell'appartenenza "etnica". In questi casi, anche perché manca una seria riflessione sull'articolazione di cui sopra, le possibilità di scelta si limitano di fatto a quella - concreta quanto razzista ed antidemocratica - detta di ridistribuzione etnica e a quella - democratica benché un po astratta - chiamata "stato dei cittadini".

1.3. Lo Stato dei cittadini ed i diritti delle minoranze

Se deve essere ben chiaro che l'approccio alle nuove-vecchie questioni nazionali non può non essere quello dello stato dei cittadini, ovvero quello democratico che garantisce a tutti i cittadini gli stessi ed identici diritti, rimane da affrontare la questione dei diritti la cui applicazione, il cui esercizio (ma non la cui sostanza) va diversificato in funzione dell'appartenenza ad una comunità etnica piuttosto che ad un'altra.

1.3.1. Federalismo non territoriale

Questi diritti comprendono quelli chiamati "personalizzabili" (vedere la Costituzione belga modificata) e quelli detti "culturali". I primi implicano un rapporto diretto tra il cittadino con le istituzioni e le amministrazioni statali (la giustizia per esempio, ma anche la sanità, ...). I secondi riguardano da una parte la facoltà per il cittadino di poter intendere ed esprimersi nella propria lingua materna (educazione, informazione radio-televisiva, ...) e, dall'altra, la possibilità di poter "vivere" la propria cultura, riconducibile all'autonomia culturale propriamente detta (cultura, e quindi anche i rapporti - internazionali o non - con le altre culture o con le comunità di stessa cultura viventi in altri paesi).

Deformato dal culto dell'autodeterminazione, il concetto di autogoverno per l'esercizio di questi diritti non è stato quasi mai dissociato da quello di autogoverno territoriale. Finora in effetti il federalismo democratico, ovvero il federalismo infranazionale, si è sempre concretizzato con la delega da parte dello stato di alcune delle sue prerogative (non solo amministrative) a delle sue entità federate, le cui realtà e tangibilità, come per lo stato, erano fondate su, e riconducibili ad un territorio.

Solo nella tradizione austro-asburgica (Otto Bauer e Karl Renner tra gli altri), si possono individuare alcuni primi sviluppi di una teoria dell'autogoverno per quelle comunità etniche non riconducibili ad un preciso territorio. Nella storia più recente, i legislatori belgi hanno tentato di ri-attualizzare questo concetto, dando origine ad una organizzazione federale dello stato fondata su due pilastri: le comunità (per le materie "personalizzabili" e quelle culturali in senso lato) e le regioni (per le altre materie delegate). Purtroppo fecero corrispondere, ad eccezione della regione di Bruxelles-Capitale (sul territorio della quale le due comunità possono esercitare le loro competenze), l'appartenenza comunitaria con l'appartenenza regionale, vanificando la possibilità per le minoranze in seno alle regioni di poter "vivere" le loro peculiarità di minoranza "etnica-linguistica" nelle istituzioni di un'altra comunità etnica-linguistica.

1.3.2. Autogoverno e integrazione

Questa intuizione - con le sue parziali realizzazioni -, sebbene seducente sotto molti aspetti, non è però priva di interrogativi. Ed in particolare quello che riguarda la necessaria integrazione senza la quale difficilmente una comunità umana e più specificamente una entità statuale può sopravvivere. A questo si può rispondere, senza pretendere per questo di esaurire tutta la problematica, che nell'organizzazione statuale dove vige l'autonomia o l'autogoverno "comunitario" dovrebbe esistere anche una organizzazione federale di tipo classico o territoriale, al fine questo, anche, di "costringere" le diverse comunità a lavorare e decidere insieme sulle materie (la maggiore parte) che le riguardano indistintamente o indipendentemente dalla loro appartenenza "etnica"; ci riferiamo a quelle riconducibili al "territorio" (politiche economica, ambientale, urbanistica, dell'alloggio, dei trasporti, ..., nei loro aspetti pertinenti con la dimensione regionale) e non all'appartenenza "etnico-comunitaria".

1.3.3. Integrazione e democrazia linguistica

Integrazione vuole dire anche capacità di comunicare e quindi di comprendersi. Una questione molto sensibile. La lingua, in effetti, riporta direttamente all'identità nazionale. E, molto spesso, una sia pure minima messa in discussione della sua valenza in quanto mezzo unico di comunicazione "nazionale" viene subito risentita dalla nazione "maggioritaria" come una minaccia alla sua esistenza stessa. Allo stesso modo, la lingua, la possibilità di poterla praticare, rappresenta per le "nazioni" minoritarie il segno più tangibile della loro diversità e quindi della loro esistenza in quanto gruppo distinto.

La questione della comunicazione, riconducibile al concetto di democrazia linguistica, va affrontata sia all'interno degli stati in cui vengano usate diverse lingue materne, sia nelle federazioni tra stati linguisticamente diversi (e, di riflesso, anche per la questione della comunicazione mondiale) cercando di superare o, quanto meno, di limitare le situazioni, i comportamenti, i rapporti pubblici, "statuali" (o "federali") di tipo "imperiale" derivanti da una disuguaglianza di fronte alla conoscenza di una lingua. Il problema non è di poco conto. In effetti è la democrazia stessa che viene a mancare se, per una mancata padronanza di una lingua, una persona viene discriminata. Cosa che può succedere, per esempio, quando un imputato viene giudicato in una lingua che non è la sua lingua-madre.

Storicamente tale questione della lingua di comunicazione è stata affrontata e "risolta" (anche se spesso solo per un periodo) con l'imposizione come lingua di comunicazione della lingua del più forte. Gli esempi di questo tipo sono pressoché infiniti: dal latino nell'impero romano al russo nell'impero sovietico passando all'inglese, al francese, allo spagnolo, al portoghese in moltissimi paesi del cosiddetto terzo mondo. D'altra parte, si sono affermati, più recentemente, anche in seguito ai processi di "emancipazione nazionale", dei sistemi statuali dove due o più lingue hanno conseguito lo status di lingua nazionale (bilinguismo o plurilinguismo), come in Canada, in India, in Belgio, in molti paesi africani ... o nella Comunità europea. Un approccio che, oltre a comportare dei costi non indifferenti, non risolve la questione della comunicazione tra i più, essendo limitato ad alcuni momenti istituzionali ed amministrativi. Un approccio inoltre che, per ovvie ragioni tecniche e finanziarie, difficilmente po

trebbe funzionare in strutture statuali dove convivrebbero un alto numero di lingue, come viene già dimostrato da una Comunità europea che conta, allo stato, nove lingue ufficiali.

A meno quindi di rassegnarsi al prevalere di lingue "imperiali", che esse lo siano soltanto regionalmente o nazionalmente nei confronti di lingue "minoritarie", o che lo siano universalmente, come sta accadendo per l'inglese, l'unica strada alternativa che ci sembra percorribile è portare sul terreno politico la questione della scelta di una lingua franca, neutrale, di comunicazione tra le persone (e quindi non più soltanto tra gli esperti e le "élites") di madre-lingua diversa. Una riflessione questa, avviata solo di recente e, purtroppo, ancora marginalmente da una Comunità europea confrontata a problemi, già enormi, risultanti della convivenza di nove lingue ufficiali.

1.3.4. Autogoverno e democrazia

All'ipotesi di un ordinamento istituzionale di tipo federale-non territoriale, viene spesso contestato la sua non-applicabilità, la sua non realizzabilità, in forma democratica. Una critica che ci sembra infondata in quanto non si capisce perché una comunità etnica non potrebbe eleggere, in modo democratico, un suo proprio "parlamento comunitario" dal quale emanerebbe un "governo comunitario", responsabile della conduzione delle politiche proprie della comunità etnica in questione. Ovviamente non si tratta - e non è certo l'obiettivo di questi spunti - di creare in astratto l'elenco mondiale di tutti i gruppi che dovrebbero poter usufruire di un ordinamento istituzionale piuttosto che di un altro. Deve vigere su tale questione il principio di realtà, ovvero deve esserci, in questo caso, la coscienza del gruppo etnico di esistere in quanto comunità a sé e la volontà di assumere, in quanto comunità distinta, la gestione degli "affari" che ritiene proprie.

Certo, una tale opzione comporterebbe alcuni problemi per quanto riguarda i metodi di rappresentanza e di elezioni. Non ci sembra, però, che essi siano insormontabili. La definizione delle circoscrizioni, per esempio, potrebbe essere affrontata del tutto normalmente, grazie ai censimenti che, nella maggiore parte dei casi, già prevedono la specificazione della nazionalità di appartenenza. Oppure, e forse meglio, su base della scelta dell'elettore, quindi volontaria e segreta, che, al momento del voto e con il suo stesso voto sceglierebbe la sua Comunità etnica di appartenenza. Appartenenza quindi che oltre ad essere segreta, potrebbe essere modificata in occasione di un ulteriore voto.

Semmai il problema è più generale, ovvero riguarda il sistema politico ed, in particolare, i meccanismi di elezione e di formazione e funzionamento della o delle assemblee elettive e di governo. Non c'è ragione in effetti che non si manifestino per delle assemblee regionali, comunitarie od altre, gli stessi effetti indotti dalla partitocrazia manifestatisi, o in corso di manifestarsi, nella maggiore parte degli Stati di vecchia o nuova democrazia del Continente europeo a tutti i livelli di rappresentanza (parlamentari e comunali in particolare). C'è da notare, però, che nel caso del sistema di scelta della comunità di appartenenza tramite il voto, si impone la circoscrizione "comunitaria" unica, e quindi, conseguentemente il sistema elettorale proporzionale.

1.3.5. Federalismo, democrazia e sistema elettorale

Ci sembra quindi pertinente legare alla questione dell'articolazione istituzionale delle minoranze nei loro stati di appartenenza, quella che riguarda la natura del sistema istituzionale-elettorale vigente all'interno di queste strutture "federate". In altre parole, ci sembra che anche qui l'alternativa sia tra democrazia di governo (anglosassone) e quella rappresentativa (proporzionalista).

E la connessione è più diretta di quanto possa apparire. In effetti se per le ragioni che abbiamo visto sopra, è auspicabile accoppiare alla dimensione federale comunitaria quella federale regionale, l'esistenza anche in questa seconda dimensione di un sistema maggioritario diventa una garanzia (benché certamente non assoluta) perché gli schieramenti non avvengano su base etnica (magari anche in netta contrapposizione) ma su base inter-etnica creando quindi le condizioni per una effettiva collaborazione tra le varie etnie.

Per quanto riguarda la ripartizione delle risorse finanziarie fra le varie comunità etnico-linguistiche, anche essa potrebbe essere calcolata sia su base del censimento sia su base dei risultati elettorali, ovvero con l'attribuzione a ciascuna comunità di una soglia di finanziamento (eventualmente anche in qualche modo corretta o ponderata) in rapporto al numero di "appartenenti alla Comunità".

In alternativa, o in modo complementare, si possono attribuire - come per i Laender tedeschi - alle varie entità autonome poteri di autofinanziamento tramite imposte e tasse autonome. In questo caso, però, l'appartenenza "comunitaria" dei cittadini dovrebbe essere palese, ufficiale.

Sempre sulla questione del finanziamento, il sistema di perequazione fiscale in vigore nella Germania Federale, che prevede meccanismi automatici di redistribuzione di risorse tra Laender ricchi e quelli poveri, può costituire un importante fattore di solidarietà e di coesione al livello nazionale tra le varie comunità.

Tornando alla "critica" di cui sopra, ovvero alla non o poca democraticità di tali istituzioni, ci sembra invece che sia proprio l'assenza di tali istituzioni ad essere una delle cause principali del rafforzamento delle caratteristiche "totalizzanti" e del debole "tasso" di dialettica democratica di molti dei partiti delle minoranze nazionali oggi esistenti. In effetti, in assenza di tali strutture federali-comunitarie democratiche, prevale la logica della difesa "sindacale" degli interessi della "comunità minoritaria" nei confronti della maggioranza, la chiusura su se stessa, e non il confronto delle idee, la dialettica democratica all'interno della minoranza stessa e tra la o le minoranze e la maggioranza. Per non parlare degli effetti più generali indotti dall'assenza di queste istituzioni: in primo luogo il rafforzamento dei sentimenti di diffidenza reciproca tra "maggioranza" e "minoranze", spesso nutriti da contrapposizione secolare, dovuti all'assenza di chiarezza e di definizione dei rapporti recipro

ci.

1.3.6. Comunità etnica, minoranza nazionale, co-nazione

Un altro interrogativo riguarda la definizione stessa di "comunità etnica" e/o di "minoranza nazionale". Questione, questa, delicatissima per varie ragioni. Prima di tutto in quanto si scontra direttamente con il sentimento nazionale dell'etnia dominante, ovvero del suo monopolio al diritto di corrispondere in quanto nazione al territorio nazionale nel suo insieme.

Una questione che non si pone soltanto nel caso dei serbi della Krajina (o delle Krajine), degli armeni dell'Alto Karabach o degli ungheresi del Paese dei Siculi ("Szekely Fold"), minoranze etniche nazionali, ma regionalmente maggioranze, che vivono da secoli su queste terre, ma anche nel caso delle comunità turche, marocchine, algerine, per fare solo alcuni esempi, che vivono da alcuni decenni, numerose, spesso concentrate e con volontà di mantenere delle proprie e forti caratteristiche culturali, in vari paesi dell'Europa Occidentale.

A questo proposito si è proceduto in alcuni casi concreti (ma finora solo nei casi di "vecchi insediamenti"), attraverso "leggi sui diritti delle minoranze", a stabilire delle "soglie", delle percentuali minime, che una volta raggiunte facevano automaticamente scattare, per le comunità etniche minoritarie, la possibilità di usufruire di una serie di diritti. Se l'aspetto numerico, in rapporto alla popolazione totale del paese e/o in rapporto a quello di una regione data, rappresenta senz'altro un dato significato, pensiamo che il dato fondamentale sia la coscienza stessa della popolazione di costituire una "minoranza" ovvero una comunità distinta. Un dato però che non può avere significato al di fuori di una sua espressione democratica, ovvero tramite elezioni, referendum.

Sempre su questo aspetto, può essere utile un approfondimento della riflessione avviata da alcune minoranze nazionali sul concetto di "co-nazione". Non solo nel senso di "con-partecipazione" piena alla vita del paese ma anche nel senso che il riconoscimento della sua esistenza non dovrebbe costituire una "discriminazione positiva" nei confronti della maggioranza, bensì una divisione funzionale tra "maggioranza" e "minoranze" di alcuni compiti e delle responsabilità. Apparentemente "semantica", tale questione viene avvertita molto spesso come sostanziale da queste comunità etniche che, benché "minoritarie" e desiderose di auto-governare i momenti della loro peculiarità etnica, vogliono concorrere, a tutti gli effetti, alla vita del paese in cui vivono. In questo senso al termine "minoranza" che viene da loro risentito come peggiorativo perché percepito come sinonimo di "categoria secondaria", vengono preferiti i termini "co-nazione", "comunità" o "comunità etnica", che, benché marcando la specificità, non com

prendono questo aspetto peggiorativo.

1.4. Regioni transfrontiere

Un'attenzione particolare va anche data alle regioni "transfrontiere", ovvero a queste comunità etniche regionalmente concentrate che sono a cavallo di frontiere statali: come nel caso del Paese Basco, a cavallo di Spagna e Francia, la Krajina serba, a cavallo di Croazia e Bosnia. Per un approccio dinamico a queste realtà ci sembra utile soffermarci su un fenomeno connesso, in piena evoluzione, all'interno della Comunità europea. In essa in effetti, si assiste da alcuni anni ad una moltiplicazione di accordi diretti tra regioni (istituzionalmente riconosciute) di diversi paesi. Così per esempio tra la regione Provence-Cote d'Azure (Francia) ed la regione Piemonte (Italia), tra il Nord-Pas de Calais (Francia) e la Wallonia (Belgio), tra la Catalogna (Spagna) e la regione Sud-Pyrénée (Francia). Evoluzione alla quale la Comunità europea ha dato un primo, anche se debolissimo, riconoscimento, inserendo nel Trattato di Maastricht (articolo 198), una nuova figura istituzionale (consultiva) di rappresentanza di que

ste entità regionali. Al di fuori della Comunità europea, è da notare la cooperazione interregionale Alpe Adria tra la regione Friuli-Venezia-Giulia, la Slovenia e la regione austriaca confinante.

Oltre all'handicap rappresentato dal ruolo ancora del tutto insoddisfacente dato alle regioni nella costruzione e nell'architettura europea, la questione delle regioni transfrontiere si scontra anche con l'esistenza, in alcuni paesi, in particolare negli stati a tradizione giacobina (la Francia in primo luogo), di una architettura regionale (o più esattamente in questi casi "decentralizzatrice") costruita non su comuni sentimenti di appartenenza ma su criteri "tecnocratici", che, a malapena, nascondono, dietro presunte ragioni geografiche e economiche, una volontà dello stato centrale di ostacolare il riemergere di vere autonomie. In Francia, per esempio, con l'eccezione obbligatoria della Corsica, nessuna delle regioni (Paese Basco, Bretagna, Catalogna) nelle quali erano riemerse in questi ultimi decenni rivendicazioni di autogoverno è stata inserita nell'architettura cosiddetta "regionale" dello Stato francese.

1.5. Comunità transfrontiere

Ad attraversare le frontiere non sono solo le regioni "etnico-nazionali" ma anche le comunità etniche nell'accezione data precedentemente. Anche se la distinzione potrà essere un po' arbitraria, vanno affrontate in modo distinto le comunità prevalentemente linguistiche da quelle più marcatamente "etniche".

1.5.1. Comunità linguistiche

Numerosi sono i casi di questo tipo in Europa. La "comunità francofona" per esempio, che comprende oltre alla Francia, la Wallonia (Belgio), i cantoni francofoni della Svizzera ed i cittadini "francofoni" della città di Bruxelles e del Val d'Aosta. Ma anche la "Comunità germanofona" che oltre alla Germania ed all'Austria, comprende anche i cantoni germanofoni della Svizzera, la "comunità germanofona del Belgio", i cittadini "germanofoni" di Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Russia, ... O, ancora, la "Comunità italofona" con, oltre all'Italia, i cantoni "italofoni" della Svizzera, le comunità italofone di Slovenia e Croazia.

In questo ambito esistono alcuni esempi di "cooperazione", più o meno organizzate e "sovranazionale". La "francofonia" è certamente una delle istituzioni di questo tipo più attiva. Comprende una quarantina di paesi, è dotata di una struttura permanente, si riunisce ad altissimo livello (capi di Stato e di governo) una volta all'anno ma non è dotata di una istituzione rappresentativa democratica. Oltre al ruolo preponderante tenuto dalla Francia, questa organizzazione fondata sulla difesa di una lingua e di una cultura ha anche forti connotati di resistenza ad una altra lingua (l'inglese) e riveste quindi anche una funzione di affermazione internazionale per un paese, oltre a costituire un luogo per mantenere "rapporti privilegiati" con altri stati, per lo più ex-colonie. Su un modello simile a quello della francofonia esiste anche la Comunità Ibero-americana. Ma più spesso la politica di queste comunità linguistiche transnazionali si riassume nella politica culturale delle "patrie-culturali" (come, per esemp

io, le comunità "tedescofona" o "italofona").

1.5.2. Comunità "etniche-nazionali"

Accanto a queste "comunità" di carattere prevalentemente linguistico-culturale ci sono delle comunità con comunanze "nazionali" o "etniche" più marcate. Così per esempio della "Comunità serba" che oltre ai serbi di Serbia, comprende i serbi di Croazia, Kossovo, Bosnia-Erzegovina, Ungheria, Romania, ... Della "Comunità rumena" che oltre ai rumeni di Romania e di Moldavia comprende anche i rumeni di Ucraina, Voivodina ed Ungheria. Della "Comunità russa" che oltre ai russi di Russia comprende i russi di Lituania, Lettonia, Estonia, Ucraina, Kazakhistan, ... Della "Comunità ungherese" che oltre agli ungheresi d'Ungheria comprende gli ungheresi di Slovacchia, Ucraina, Voivodina, Croazia, Romania, Slovenia ed Austria.

E' ovviamente difficile, se non impossibile, tracciare una frontiera tra quelle comunità che sarebbero prevalentemente "linguistico-culturali" e quelle che avrebbero invece caratteristiche più "etnico-nazionali". In un certo senso, dovrebbero essere le comunità stesse, tramite le loro istituzioni rappresentative, a "deciderlo", ovvero a scegliere il tipo di rapporti, di collaborazione da stabilire tra di loro.

1.6. Minoranze transnazionali

Questa "categoria" comprende quelle minoranze che vivono fra più stati ma non hanno né stato né territorio di riferimento in qualche modo "istituzionalmente riconosciuto". Si tratta di "popoli" insieme fortemente inseriti nel tessuto sociale dei paesi nei quali si trovano (ne parlano la lingua, contribuiscono spesso in modo cospicuo alla sua "caratterizzazione" culturale, ...) ed insieme hanno una vita fortemente "parallela", distinta della popolazione nazionale del paese in questione. I casi più emblematici di questa "categoria" sono rappresentati dagli zingari e dagli ebrei (ci sono ovviamente, al di fuori d'Europa, altri casi di questo tipo. I Tuareg per esempio). Senza entrare nel merito dell'analisi rispetto agli ebrei, pensiamo che sarebbe interessante capire come l'avere ottenuto uno stato nazionale ha influito sulla loro percezione di costituire un popolo transnazionale e come l'esistenza di questo stato ha influito e influisce sul loro rapporto con le culture degli stati-nazione in cui vivono oggi.

Questi popoli transnazionali trovano la loro coesione intorno a fattori linguistici. Fattori non univoci ma spesso riconducibili alla presenza territoriale. Questo è vero sia per gli zingari di oggi sia per gli ebrei di ieri, che non possono comprendersi tramite la loro lingua. Non per questo però, gli zingari ritengono di non costituire un solo popolo. Sia per l'uno, sia per l'altro esempio, il sentimento di appartenenza "nazionale" si fonda su elementi culturali e sociali comuni, ma anche, per i due esempi dati, intorno ad un fattore di "comunanza etnica" (non è rilevante, ci sembra, che la "continuità etnica" esista "geneticamente" o meno).

Allargando i termini dell'analisi ci si può chiedere se altre comunità umane, benché non unite dal fattore etnico, non siano da considerare come "popoli transnazionali". Così, per esempio, delle comunità cristiane dei primi secoli dopo Cristo, non certo "etnicamente omogenee", che vivevano, anche loro, una doppia integrazione: all'interno del paese di residenza o di "cittadinanza" e all'interno della loro comunità (transnazionale) religiosa. Un simile ragionamento potrebbe essere sviluppato, oggi, nei confronti di comunità religiose come quella dei "Testimoni di Geova" o di numerose chiese protestanti. Sempre in questa chiave si potrebbe leggere il caso delle chiese anabattiste del Medioevo e quello di molte delle chiese "comuniste" di questo secolo. In questi casi, però, le opposizioni e le contraddizioni tra i due ambiti di integrazione, hanno portato a privilegiare l'appartenenza "comunitaria", e quindi, a scontrarsi con lo stato di appartenenza, facendosi distruggere (anabattisti) o, invece, sottomettend

olo (comunisti).

Ma ritorniamo alla questione "zingara", la più pertinente con questi spunti che vogliamo, al momento, circoscrivere al contesto europeo. Se, come viene affermato dal leader dei Rom di Romania, Gheorghe Nicolae, è necessario che venga riconosciuta la "legittimità della (loro) differenza" insieme con "l'uguaglianza della (loro) cittadinanza", ci sembra necessario che vengano trovate formule politiche ed istituzionali affinché questa particolare legittimità possa articolarsi con quella dello stato-nazione nel suo insieme e, conseguentemente, perché una partnership vera possa essere instaurata con la popolazione maggioritaria.

Non si tratta, in questo caso, di immaginare proposte di autonomia territoriale, o addirittura di indipendenza territoriale e/o nazionale. Anche se a questo proposito, si sente a volte parlare di dare, al popolo rom, una terra, uno stato-nazione così come è stato fatto con Israele per gli ebrei. Recentemente si parlava in modo esplicito di una loro collocazione sul territorio di Konigsberg, attualmente enclave russa tra la Polonia e la Lituania. E questo, non per cosiddette caratteristiche proprie del popolo zingaro, ma perché i rom stessi non lo vogliono: "i Rom, popolo europeo senza stato-nazione, non scelgono altra patria che la democrazia".

Se non sembra pertinente quindi soffermarsi su una ipotesi di "stato-rom", non per questo ci sembra da escludere la creazione di una forma di rappresentanza e di autogoverno comunitario del popolo rom (o, in un primo tempo dei popoli rom). Al contrario, una riflessione in questa direzione ci sembra non solo auspicabile ma anche urgente. Per diverse ragioni. Prima di tutto perché ci sembra impossibile che la lotta per l'"emancipazione" che sta perseguendo il popolo rom possa essere raggiunta grazie a sole organizzazioni non-governative e/o rappresentanza parlamentare "etniche" di tipo sindacale. Crediamo, invece, che una tale emancipazione passa anche attraverso la riforma (non la cancellazione o la distruzione) di strutture istituzionali di rappresentanza e di autogoverno oggi completamente interne al o ai popoli rom, ovvero senza nessuna esistenza legale né per gli stati né per i cittadini (rom e non), e quindi slegate per lo più dai criteri della democrazia.

In questo senso la forma "comunitaria" di rappresentanza e di autogoverno, nel senso visto precedentemente, potrebbe costituire un importante elemento di riconoscimento della loro esistenza e quindi di responsabilizzazione sia dei rom rispetto a loro stessi e rispetto all'intera società, sia della società stessa nei confronti della comunità rom. Potrebbe, inoltre, contribuire al rafforzamento di una classe politica dirigente e alla sua autonomizzazione rispetto ai ceti "ricchi" ed "integrati" del popolo rom. Potrebbe infine, e principalmente, facilitare la conoscenza e quindi il rispetto reciproco, e conseguentemente costituire un rimedio contro le crescenti incompresensioni e tendenze all'intolleranza di cui i rom sono vittime.

Si tratterebbe certo di definire gli ambiti di competenza di questa "comunità". Definizione che non può essere meccanicamente copiata da quella delle comunità etniche nazionali di cui abbiamo parlato prima, visto il particolare rapporto che intercorre tra i popoli rom ed gli stati ed i popoli degli stati in cui vivono. Ci sembra però che debbano essere organizzati sia l'autogoverno di alcune materie riconducibili all'educazione, ed in particolare l'insegnamento della lingua e della storia rom, sia l'autogoverno della cultura specificamente rom.

Con questo arriviamo ad un aspetto fondamentale della "questione rom": la sua caratteristica transnazionale. Aspetto questo di approccio particolarmente difficile per diverse ragioni. Prima di tutto per l'assenza di istituzioni europee nelle quali la questione rom possa essere globalmente ricondotta e quindi affrontata. In effetti, le uniche istituzioni "pan-europee" in cui la questione rom può, oggi, essere affrontata, se non nella sua globalità quanto meno su scala rilevante, sono il Consiglio d'Europa e la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), istituzioni intergovernative con una capacità di incidenza politica pressoché nulla, con la relativa eccezione del Consiglio d'Europa in materia di diritti umani.

Senza aspettare quindi la nascita di una unione federale degli stati e delle regioni europee (Stati Uniti d'Europa) che, come vedremo successivamente, sembra più allontanarsi che avvicinarsi, ci sembra che possano essere perseguiti alcuni obiettivi puntuali, ed in qualche modo intermedi, rispetto a questo obiettivo federale e federalista europeo. All'interno della CE e delle sue istituzioni, nei cui paesi membri vivono minoranze rom più o meno numerose, potrebbe essere previsto per la "comunità rom" uno status di minoranza transnazionale. Status che potrebbe, di riflesso, servire da modello per i paesi del Centro e dell'Est Europa, e, addirittura essere integrato negli accordi di associazione che la CE sta man mano stipulando con questi paesi.

Sempre in seno alla CE, ma in collegamento con il Consiglio d'Europa, si potrebbe immaginare una serie di meccanismi tendenti ad incoraggiare i tentativi, finora ancora marginali, ad opera di alcuni studiosi rom, di codificazione-unificazione della lingua rom. Infine, e sempre nella CE, andrebbe sviluppata una riflessione sul come associare le comunità non territoriali e transnazionali (e quindi quella rom) al Consiglio Consultivo delle regioni, previsto dal trattato di Maastricht (articolo 198).

1.7. Coesione dello stato e federalismo democratico-interno

1.7.1. La questione della "lealtà" o delle lealtà

Nel caso delle "minoranze" o "comunità" etniche minoritarie si pone un problema di "lealtà". Da una parte queste minoranze (a meno che non abbiano correspettivi "etnici" in nessuna parte del mondo) si sentono legate a quanti, al di fuori dello loro stato di cittadinanza, condividono la loro cultura e/o appartengono alla loro "etnia". D'altra parte, i membri di queste comunità etniche sono cittadini di uno stato, e, in quanto tali, hanno nei suoi confronti, dei diritti e doveri, insieme dal quale discende o consegue un atteggiamento spesso definito come lealtà verso lo stato.

In effetti se non viene contestata alle minoranze o alle comunità etniche minoritarie la legittimità di intrattenere relazioni con la "patria etnica-culturale", queste relazioni vengano spesso guardate dalla "comunità maggioritaria" con diffidenza, con il sospetto che le "comunità minoritarie" nutrano in fin dei conti una "lealtà" maggiore nei confronti della loro "patria culturale e/o etnica" che nei confronti della "patria cittadina". O, peggio, con il sospetto che queste relazioni non siano altro che paraventi per progetti di separazione, di "autodeterminazione" o, in alcuni casi, di riunificazione con la "patria etnico-culturale".

1.7.2. Possibili pluri-appartenze e quindi pluri-lealtà

In questo ambito crediamo che il terreno sul quale vanno trovate le soluzioni è quello della chiarezza. Il rischio non risiede nel fatto di provare insieme lealtà verso una "patria etnica-culturale" e verso una "patria di cittadinanza", ovvero nella convivenza dentro le persone stesse di possibili pluri-appartenenze di ordine diverso, ma - eventualmente - nella impossibilità di viverle alla luce del sole, in seno ad istituzioni democratiche, riconosciute, visibili agli occhi di tutti, complementari e non concorrenziali. Inoltre con il riconoscimento dell'autonomia delle "comunità etniche" viene meno la necessità per loro di rivolgersi all'"esterno" nel tentativo di ottenere protezioni e garanzie perché esse possono essere ottenute dallo stato di cittadinanza, dalle sue istituzioni.

1.8. Altre - nuove - forme di statualità

Al di fuori di possibili nuove forme di articolazioni istituzionali e/o statuali risultanti dalle opportunità aperte dai processi di integrazione sovranazionale - punto che analizzeremo più in avanti - ci si può interrogare, a partire dalle considerazioni fatte in materia di minoranze e/o comunità etniche, se altre forme di statualità o di articolazioni istituzionali "interstatali" siano concepibili.

Sono ipotizzabili, per esempio, per quanto riguarda le regioni transfrontiere, delle istituzioni comuni a zone territoriali riconducibili a due o più stati ? O, ancora, nel caso delle "comunità non territoriali", è possibile immaginare che quelle riconducibile ad una stessa "etnia" possano affrontare, in sede istituzionale comune, dei loro comuni problemi ? Concretamente, sarebbero immaginabili nel caso "ex-yugoslavo" - a patto ovviamente che non vinca la politica razzista e fascista detta di "pulizia etnica" - delle istituzioni comunitarie "serba", "croata", "albanese", etc., che possano comprendere rappresentanti sia dello stato nazionale (serbo, croato, albanese, etc.) sia di "comunità non territoriali" (serbe, croate della Bosnia Erzegovina per esempio) sia delle minoranze (serbe, croate, etc.) presenti in altri stati ? Interrogativo questo che potrebbe naturalmente essere esteso a numerose altre "etnie" europee o non.

Oltre alle difficoltà come quelle che abbiamo incontrato quando abbiamo affrontato il problema delle "lealtà", sorge il dubbio - alla luce anche di quanto sta succedendo nell'ex-Yugoslavia - che al di fuori di un più vasto e comprensivo processo di integrazione sovranazionale, tali istituzioni possano essere concepite, poi accettate ed, infine, garantite nel quadro di accordi bilaterali o multilaterali.

1.9. Garanzie sovranazionali

Nei casi accennati sopra, delle minoranze "transfrontiere" e di quelle "non territoriali", l'esistenza ed il funzionamento di istituzioni federali sovranazionali appare fondamentale per una risoluzione pacifica e democratica della questione della convivenza etnica. Ma non solo. Anche nel caso delle comunità etniche nazionali o delle co-nazioni appare fondamentale, l'esistenza di una struttura politico-giuridico-istituzionale in grado di poter garantire il pieno rispetto dei diritti e di "arbitrare" in caso di conflitto.

Due ci sembrano le vie che possono essere perseguite. La prima, già sperimentata dall'Austria e dall'Italia nel caso del Sud-Tirolo - Alto Adige, è di tipo bilaterale. In questo caso lo stato "ospitante" della comunità etnica minoritaria e quello che abbiamo definito "patria etnico-culturale" sottoscrivono un accordo bilaterale nel quale vengono definiti una serie di diritti e doveri per le varie parti in causa: lo stato ospitante, lo stato "patria etnico culturale" e la comunità etnica-nazionale. Spesso però, in questi casi, andrebbe inclusa una quarta parte all'accordo, ovvero la comunità dell'etnia maggioritaria nazionale, invece minoranza nella regione considerata dall'accordo. Bisogna in effetti tenere presente che con l'attribuzione di uno status speciale a regioni dove vivono delle "minoranze etniche" sorge la possibilità - come lo dimostra appunto il caso dell'Alto Adige - di vedere una minoranza trasformarsi, in quella regione, in una maggioranza che, a sua volta, opprime una minoranza appartenente

all'etnia nazionalmente maggioritaria.

L'altra via è tutta da scoprire, da inventare. E' la via delle garanzie sovranazionali. Anche se può essere ricondotta ad alcune esperienze storiche, tra cui quella della Società delle Nazioni prima della seconda guerra mondiale, della quale una delle funzioni principali era quella di garantire i diritti di minoranze, in particolare di quelle minoranze formatesi in seguito al Trattato di Versailles. Con i risultati che sappiamo. Oggi, la Comunità europea da una parte, il Consiglio d'Europa, la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa e l'ONU dall'altra, tentano di svolgere un ruolo di arbitraggio e di garanzia quanto al rispetto del diritto e della democrazia in alcuni conflitti in corso in Europa. In particolare nei confronti della ex-Yugoslavia e dell'Alto Karabach. Con i risultati che sappiamo, anche in questi casi.

1.9.1. I tentativi della Comunità europea

Non ci soffermeremo sulla capacità di incidenza della Comunità europea, in quanto organizzazione sovranazionale, nella ex-Yugoslavia. Questa capacità è stata enorme per difetto. Ovvero la ripetuta mancanza di intervento chiaro e tempestivo da parte della C.E. ha contribuito in modo decisivo alla vittoria sul campo, militare e quindi politica, del progetto razzista e fascista perseguito con costanza dal regime di Belgrado. Tenteremo dopo, nella parte in cui analizzeremo "i limiti della Comunità europea", di individuare le cause di questa situazione. Ci limitiamo ora a sottolineare l'assoluta prevalenza delle cancellerie nazionali sulle istituzioni comunitarie nella definizione dell'atteggiamento della CE rispetto all'ex-Yugoslavia. In altri termini non c'è mai stata una politica comunitaria rispetto all'ex-Yugoslavia ma un susseguirsi di posizioni che di volta in volta tentavano di mediare tra posizioni contrapposte, producendo compromessi completamente inattuabili. A questo bisogna aggiungere che ad alcuni m

embri della CE (la Francia e la Gran Bretagna) questo nulla di fatto era più che conveniente, e poteva costituire quindi una reale scelta politica. Per due ragioni: perché da una parte constituiva di fatto un "nulla osta" alla politica serba e dall'altra perché era riconducibile non ad una decisione di questi paesi ma ad una decisione della C.E. stessa.

Infine e sempre rispetto all'ex-Yugoslavia sorge anche un altro interrogativo. Ovvero può una istituzione sovranazionale, la C.E., presentarsi come arbitro e garante in una determinata situazione quando è, tramite un suo stato membro, la Grecia, direttamente parte al conflitto, come nel caso del riconoscimento della Macedonia ?

Se, alla lettura del caso macedone, appare chiaramente che la C.E. non poteva svolgere un ruolo di arbitraggio, più generalmente ci possiamo chiedere se una istituzione sovranazionale può realmente offrire, al di fuori dei tradizionali patti - militari - di mutua assistenza, delle garanzie quanto al rispetto del diritto e dei diritti in territori terzi.

1.9.2. I tentativi della CSCE, dell'ONU, ...

Per quanto riguarda queste organizzazioni non si pone ovviamente il problema dell'estraneità dello stato in causa rispetto all'istituzione sovranazionale in quanto tutti i paesi europei nel caso della CSCE, tutti (o quasi) i paesi del mondo nel caso dell'ONU, ne sono membri.

Non per questo, però, queste istituzioni sono in grado di svolgere ruoli di arbitraggio o di garanzia meglio di quanto lo possa fare la C.E. In effetti, più ancora della C.E., queste istituzioni sono del tutto prive di caratteristiche federali e, in poche parole, funzionano secondo i vecchi principi della diplomazia. La CSCE, che fino a poco tempo fa prendeva le sue decisioni all'unanimità, confrontata con la guerra nell'ex-Yugoslavia, le prende ora all'unanimità meno uno ! Per di più non è dotata di un proprio esecutivo. L'ONU è in mano ad un direttorio: i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Anche il Consiglio d'Europa è organizzato sullo stesso schema, ad eccezione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, le cui sentenze hanno forza di diritto nei paesi membri, tramite modificazioni degli ordinamenti nazionali.

Per di più queste istituzioni non hanno caratteristiche democratiche, in quanto (con la parziale eccezione dell'Assemblea parlamentare per il Consiglio d'Europa) sono strutture del tutto intergovernative.

Essendo la questione delle minoranze spesso molto sensibile per gli stati (centrali), appare quanto meno difficile che essa possa essere validamente affrontata in seno a delle istituzioni sovranazionali nelle quali né le opposizioni, né le minoranze sono rappresentate. Ci domandiamo allora se sia immaginabile ed in quali termini una riforma in senso democratico di tali istituzioni. In altre parole sono concepibili parlamenti dell'ONU, della CSCE ? Parlamenti altri che puri e semplici organi consultivi ? Ovvero parlamenti in grado di prendere decisioni, poi applicate da organi con poteri esecutivi ? Parlamenti in grado, per esempio, di decidere di mandare un esercito in zone dove vengano calpestati diritti di "comunità etniche" ? Parlamenti con commissioni permanenti di vigilanza e di arbitraggio sulla questione delle "minoranze" o "comunità etniche" ?

 
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