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D'Elia Sergio - 20 settembre 1992
LA LOTTA ALLA MAFIA NON SI FA A PIANOSA
di Sergio D'Elia

SOMMARIO: »L'operazione "i mafiosi nelle isole" sta diffondendo un messaggio falsamente rassicurante, mentre copre pericolose impunità, inefficienze e incapacità nella attività di investigazione e repressione . »L'inasprimento delle pene non produce alcun effetto di deterrenza: come la pena di morte in America, dai più considerata pura vendetta, giusta riparazione all'efferatezza di un crimine, non deterrenza, così la detenzione a Pianosa o all'Asinara sembra rispondere soltanto ad una logica di rivalsa, di risarcimento affettivo, di un primordiale senso di giustizia rimasto insoddisfatto dopo la strage di Capaci e via D'Amelio .

(IL GIORNO, Domenica 20 settembre '92)

Sono stato tra i primi, insieme ai deputati Taradash, Cicciomessere, Vito, Vesce, Maiolo e Acciaro, a visitare le carceri di Pianosa e dell'Asinara, dopo che sulle due isole, quest'estate, il governo ha segnato una linea del fronte nella lotta contro la mafia. Elicotteri che ronzano sopra le nostre teste, motovedette che ci intercettano e ci scortano all'attracco, contingenti di polizia e carabinieri accampati in riva al mare, a Pianosa, o sistemati su una nave greca alla fonda, davanti a Fornelli, i reparti della Folgore che stanno per arrivare, i giornali che parlano di batterie di missili terra-aria Aspide, "capaci di fulminare un aereo supersonico in volo a seimila metri o a un palmo da terra". Tutto tende ad alimentare un immaginario di guerra senza quartiere alla mafia, a rendere verosimile il messaggio "li abbiamo presi, ora sono isolati, state tranquilli, non nuoceranno più a nessuno".

Gli stessi maltrattamenti, riservati ai detenuti di Pianosa e che vanno ben oltre le vessazioni proprie dell'articolo 41 bis (ex art. 90), fanno gioco a una immagine di rigore e serietà di intenzioni del governo, che ha il problema di rispondere ai sentimenti di giustizia, quelli nobili ma anche i più volgari, sommari, forcaioli, di chi ha visto le immagini delle recenti stragi mafiose. Il Papa, Michele Greco, costretto ad inginocchiarsi sulle candele e a pregare, è un fatto che traduce in maniera troppo letterale, quindi farsesca, la frase di Rosaria Schifani fatta propria dal ministro di grazia e giustizia: "dovete inginocchiarvi e chiedere perdono". E' grave che non vi sia la necessaria, normale, istituzionale distinzione tra sentimenti privati e pubbliche responsabilità!

Ma chi sono i "mafiosi" isolati a Pianosa e all'Asinara? Accanto ai soliti nomi, i Madonia, i Marchese, Fidanzati, e i Vernengo - di questi, due li ho visti a Pianosa, altri due all'Asinara, ma uno solo è quello famoso scappato dall'ospedale: credo che si finisca negli speciali anche per il nome che si porta! -, vi è una moltitudine di detenuti senza storia nè rilievo, neanche criminale.

Avendo parlato con tutti, mi è difficile considerare che essi rappresentino una prova della svolta nella lotta alla mafia. Confermato dalla stessa direzione del carcere, è un fatto che dei 140 detenuti all'Asinara, 120 sono in attesa di giudizio, 50 dei quali nello stato di "indagati", vale a dire in attesa di imputazione. Solo 20 sono i "definitivi", alcuni dei quali si sono consegnati spontaneamente, essendo fuori in scadenza termini, quando il loro processo è passato in giudicato. Ho conosciuto un detenuto che ha il processo pendente in Cassazione e che fra un mese avrà comunque finito di scontare la pena comminata in appello. Ve ne sono molti che non sono nè imputati nè condannati per associazione mafiosa o sequestro di persona o traffico di droga, reati per i quali sono intervenute le restrizioni del decreto Martelli. Un detenuto ha urlato che lui è indagato solo per porto abusivo d'arma, altri hanno detto di aver usufruito, prima del decreto, di molti permessi premio, e sono sempre rientrati in carcere

.

L'operazione "i mafiosi nelle isole" sta diffondendo un messaggio falsamente rassicurante, mentre copre pericolose impunità, inefficienze e incapacità nella attività di investigazione e repressione.

Pianosa e Asinara contro Palermo, e Roma.

L'aggravamento delle condizioni di detenzione come unico principio, terribile, di realtà, di fermezza e rigore per dare verosomiglianza ad una lotta alla criminalità che rimane inefficace.

Il momento carcerario non può essere una dimensione seria, neppure secondaria, di lotta alla mafia. L'inasprimento delle pene non produce alcun effetto di deterrenza: come la pena di morte in America, dai più considerata pura vendetta, giusta riparazione all'efferatezza di un crimine, non deterrenza, così la detenzione a Pianosa o all'Asinara sembra rispondere soltanto ad una logica di rivalsa, di risarcimento affettivo, di un primordiale senso di giustizia rimasto insoddisfatto dopo la strage di Capaci e via D'Amelio. Il dolore dei parenti delle vittime contro le vessazioni nei confronti dei detenuti e i disagi ai loro parenti. Questo è stato possibile confrontare!

All'argomentazione, apparentemente seria, che in questo modo, sulle isole, si verificherebbe la rottura dei collegamenti tra i mafiosi detenuti e quelli in libertà, il blocco dei loro traffici criminali, è facile obiettare che, se fosse per questo, allora, i mafiosi andrebbero tenuti proprio a Palermo e nelle altre loro zone di influenza. Non è questione di garantismo, di consentire l'esercizio dei diritti della difesa: si renderebbe solo più facile a magistrati e polizia giudiziaria l'assolvimento dei propri compiti. Si consentirebbe, soprattutto, una seria, efficace attività di intelligence. Se l'obiettivo fosse davvero la mafia, il modo migliore per colpirlo sarebbe proprio quello di tenere i mafiosi in condizioni tali da "facilitare" i loro collegamenti, per potere su questi investigare, per ricostruire e smantellare le reti e i traffici criminali.

Si è detto anche che, in condizioni particolari, i detenuti potrebbero collaborare. Non vi è nulla di più improbabile di una collaborazione ottenuta per effetto di dure condizioni di prigionia. Nessun terrorista si è mai pentito per la insopportabilità della vita nelle carceri di massima sicurezza. In un'ipotesi del genere, si dovrebbe arrivare alla tortura, e praticarla in maniera sistematica, scientifica. Entro certi limiti, però, quelli delle inutili, meramente afflittive vessazioni dell'art. 41 bis, si provoca soltanto durezza di comportamenti, irriducibilità, autolegittimazione, rifiuto di ogni dialogo o, peggio, a fronte di gravi maltrattamenti, l'imbarbarimento generale, la pseudo-legittimazione di rivalse mafiose a Palermo, magari nei confronti di magistrati e poliziotti che lì cercano di difendere, nella legalità e con la civiltà dei loro comportamenti, la legge e lo Stato.

"La mafia non si combatte con la terribilità - diceva Sciascia -, si combatte con il diritto". L'Fbi ha ottenuto qualche successo contro Cosa Nostra con la formula "tecnologia più pentiti". Buscetta ha parlato non perchè sia stato rinchiuso a Pianosa o all'Asinara. John Gotti ha avuto l'ergastolo nello stato di New York grazie anche a prove raccolte con mezzi sofisticati.

In definitiva, conviene sempre rispettare il diritto e la legge, adoperare le regole del gioco e mezzi legali. Non per garantismo, ma proprio ai fini di una efficace azione investigativa, di solidi risultati processuali (davanti al giudice Carnevale, spesso, scoppiano processi che sono bombe ad orologeria innescate nei precedenti gradi di giudizio!), della collaborazione dei mafiosi e, più in generale, della credibilità dello stato. Pianosa e l'Asinara, proprio per gli eccessi militareschi, strutturali, afflittivi, offrono soltanto una verosimiglianza di lotta alla mafia, non certo una credibilità.

 
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