SOMMARIO: Il testo della memoria presentato dai professori Paolo Barile, Nicolò Lipari, Livio Paladin, Valerio Onida, per conto dei comitati promotori dei referendum, al fine di contestare l'esistenza della irregolarità rilevata dall'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione. L'Ufficio aveva infatti osservato che le richieste di referendum erano state presentate nel gennaio 1992 mentre la scadenza naturale delle Camera era prevista per il 2 luglio 1992. Secondo la legge non può essere depositata richiesta di referendum nell'anno anteriore alla scadenza di una delle due Camere. Nella memoria si afferma che il termine di legge non si riferisce ai 365 giorni precedenti alla scadenza delle Camere ma all'anno solare anteriore a quello di scadenza delle Camere, per cui il deposito delle richieste era da ritenersi precluso per tutto il 1991, mentre avrebbe potuto essere effettuato a partire dall'1 gennaio 1992 e fino alla convocazione dei comizi elettorali
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MEMORIA PER L'UFFICIO CENTRALE PER IL REFERENDUM
per i promotori e presentatori delle seguenti richieste di referendum abrogativi sottoscritte da almeno 500.000 elettori:
1) sulla legge 23.12.1978 n.833 "Istituzione del servizio sanitario nazionale" (dep. 9-10.1.1992);
2) sulla legge 2.5.1974 n.195 "Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici" (dep. 9-10.1.1992);
3) sul DPR 9.10.1990 n.300 "Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti..." (dep. 9-10.1.1992);
4) sulla legge 22.12.1956 n. 1589 "Istituzione del Ministero delle partecipazioni statali" (dep. 13.1.1992);
5) sul R.D.L. 24.2.1938 n.204 "Norme per l'amministrazione della Cassa di Risparmio e dei Monti di Pietà..." convertito in legge dalla legge 3.6.1938 n.778 (dep. 13.1.1992);
6) sulla legge 1 marzo 1986 n.64 "Disciplina organica dell'intervento straordinario sul Mezzogiorno" (dep.13.1.1992);
7) sulla legge 6.2.1948 n.29 "Norme per l'elezione del Senato della Repubblica" (dep. 14.2.1992);
8) sul D.P.R. 16.5.1960 n.570 "Norme per l'elezione dei consiglieri comunali dei Comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti..." (dep. 14.1.1992),
rappresentati e difesi dagli Avv.ti Prof. Paolo Barile, Prof. Nicolò Lipari, Prof. Livio Paladin e Prof. Valerio Onida, ed elettivamente domiciliati in Roma presso la sede del Comitato per i referendum elettorali (CO.R.EL), Largo del Nazareno n. 3.
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1. Con ordinanza 1 ottobre 1992, successivamente notificata ai delegati e presentatori di 13 richieste di referendum abrogativo, questo ufficio centrale ha rilevato che, essendo state tali richieste depositate dal 9 al 22 gennaio 1992, mentre la scadenza normale delle due Camere era prevista per il 2 luglio 1992, "conseguentemente, si pone la questione della tempestività della presentazione in relazione al disposto dell'articolo 31 della legge n.352 del 1970 secondo cui non può essere depositata richiesta di referendum nell'anno anteriore alla scadenza di una delle due Camere...", e ha pertanto avviato la procedura di cui all'art.32, comma 3 della stessa legge n.352 del 1970 "onde mettere i delegati o presentatori delle richieste in condizione di presentare eventuali memorie intese a contestare l'esistenza della irregolarità rilevata".
E' opportuna, anzitutto, una breve premessa in fatto. Fra le richieste di referendum di cui è questione, due (quelle relative rispettivamente alla legge n.29 del 1948 sulla elezione del Senato e al DPR n.570 del 1960 sulla elezione dei consiglieri comunali) rappresentano la riformulazione, in termini conformi alle esigenze di chiarezza e coerenza fatte valere dalla Corte Costituzionale, di precedenti corrispondenti richieste depositate nel corso del 1990, dopo che la stessa Corte, con la sentenza del febbraio 1991, le ebbe dichiarate non ammissibili. Si ricorderà infatti che la dichiarazione di inammissibilità di tali richieste non era discesa da ragioni di sostanza, cioè da ostacoli costituzionali che la Corte avesse ritenuto sussistenti in ordine alla sottoponibilità a referendum delle disposizioni legislative in questione, bensì soltanto dal fatto che, secondo la Corte, la formulazione dei due quesiti non rispondeva interamente ai requisiti di chiarezza e coerenza richiesti, coinvolgendo un insieme di dis
posizioni o parti di disposizioni la cui abrogazione, sempre secondo la Corte, non avrebbe avuto un significato univoco.
I promotori di detti referendum (la cui rilevanza politica e la cui rispondenza a convinzioni e orientamenti diffusi nell'elettorato sono dimostrate dall'esito massiccio dell'unico dei referendum in materia elettorale dichiarato ammissibile, e svoltosi nel giugno del 1991) si posero dunque subito il problema della riformulazione e della conseguente riproposizione delle richieste non ammesse (e la successiva sottoscrizione delle nuove richieste da parte di oltre un milione e mezzo di elettori conferma ancora una volta quanto l'argomento sia sentito nell'elettorato).
Si posero dunque, doverosamente, anche il problema dell'interpretazione del limite temporale posto, in ordine al deposito di richieste di referendum abrogativo, dall'art.31 della legge n.352 del 1970, secondo cui tali richieste non possono essere depositate "nell'anno anteriore alla scadenza di una delle due Camere". Poichè la scadenza della legislatura era fissata al 2 luglio 1992, si trattava di stabilire se l'anno anteriore fosse da intendersi come il termine annuale (di 365 giorni) decorrente, all'indietro, a partire dal 2 luglio 1992, nel qual caso le nuove richieste di referendum avrebbero potuto essere depositate fra il primo gennaio e il primo luglio 1991; ovvero come l'anno solare anteriore a quello di scadenza delle Camere, nel qual caso il deposito delle richieste era da ritenersi precluso per tutto il 1991, mentre avrebbe potuto essere effettuato a partire dall'1 gennaio 1992 e fino alla convocazione dei comizi elettorali (scattando allora l'ulteriore "blocco" di sei mesi stabiliti dallo stesso
art. 31 della legge n.352 del 1970).
Un attento esame del problema, con il confronto anche di diversi studiosi, condusse i promotori a concludere che la soluzione corretta era la seconda. Anche se dunque la prima soluzione presentava per loro il vantaggio di consentire la immediata riproposizione delle richieste (usufruendo anche dal favore mostrato dall'opinione pubblica per le richieste allora dichiarate non ammissibili), e la possibilità di far svolgere i referendum nel 1992, cioè nello stesso anno in cui erano previste le elezioni politiche, i promotori rilevarono che si trattava di una soluzione interpretativa contrastante sia col significato più pienamente ricavabile dalla disposizione legislativa in questione, sia, soprattutto, con la logica e la ratio ispiratrice della legge, chiaramente volte all'intento di impedire la sovrapposizione nello stesso anno della consultazione elettorale per il rinnovo delle Camere e di consultazioni referendarie, e dunque delle due relative campagne. Da ciò discendeva la necessità di effettuare il deposito
delle nuove richieste dopo la scadenza dell'anno anteriore a quello della fine legislatura, con la conseguenza che i referendum si sarebbero svolti non già nell'anno "elettorale" (il 1992), ma in quello successivo (il 1993), evitando quella interferenza dei due eventi che la legge è diretta a scongiurare.
Restava, certamente, l'incertezza derivante dalla non del tutto univoca formulazione della norma (non l'unica, purtroppo, nel contesto della legge n.352 del 1970). Poichè non è data, in questa materia, alcuna azione di accertamento preventivo, nè è dato di ottenere dall'organo preposto alla verifica di regolarità delle richieste di referendum (questo Ufficio centrale) pronunce "in astratto" sulla possibilità di depositare richieste in uno o in un altro periodo di tempo, e poichè non era d'altra parte ovviamente ipotizzabile una doppia raccolta di firme, in due anni successivi, sulle stesse richieste, in attesa di vedersene vanificata una, i promotori si premurarono di provocare, sull'argomento, un pronunciamento ufficiale del Governo, il cui avviso, pur non essendo evidentemente decisivo, sarebbe stato tuttavia significativo, provenendo da quello stesso organo che a suo tempo aveva formulato e presentato il progetto di legge divenuto poi la legge n.352 del 1970, e a cui è affidata la cura degli adempimenti p
er la organizzazione e lo svolgimento delle consultazioni elettorali.
Il 5 marzo 1991 i deputati Calderisi, Segni e Barbera (che sono altresì fra i promotori dei referendum in materia elettorale) presentarono una interrogazione al Ministero dell'Interno nella quale si prospettava il problema interpretativo in questione, e si chiedeva di sapere "quali finalità il Governo si è proposto di conseguire allorchè ha presentato il relativo disegno di legge e quale delle suesposte interpretazioni reputi corretta alla luce di tali finalità" (interrogazione n. 4-24450: doc.1).La risposta del Ministro, redatta dall'Ufficio centrale per gli affari legislativi e le relazioni internazionali del Ministero dell'interno, non tardò: il 20 marzo 1991 il Ministro fornì una ampia risposta scritta (doc.2), nella quale si affermava in modo chiaro e netto che il divieto di depositare richieste di referendum riguarda l'"anno solare anteriore" a quello di scadenza della legislatura, e non i dodici mesi che precedono immediatamente tale scadenza.
Rilevava il Ministro che "le norme contenute nella legge n.352 del 1970 si propongono... di evitare che nello stesso anno possano aver luogo, contemporaneamente, le elezioni politiche e le consultazioni referendarie".
Citava in proposito la relazione governativa al disegno di legge a suo tempo presentate; rilevava che, a seguire l'opposta interpretazione, ne sarebbe derivata la possibilità di depositare richieste di referendum nella prima parte dell'anno anteriore a quello di fine legislatura, richieste che avrebbero dovuto essere sottoposte al voto popolare in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno dello stesso anno in cui dovranno svolgersi le elezioni politiche per scadenza di mandato parlamentare", "finalità, appunto, che il legislatore ha inteso evitare".
Aggiungeva poi considerazioni di opportunità politica che a loro volta "consigliano di evitare la contemporaneità dello svolgimento delle consultazioni elettorali e referendarie".
Anche dunque col conforto del parere ministeriale, i promotori dei referendum elettorali - e alla stessa stregua i promotori degli altri referendum oggi in esame, compresi, per la loro parte, quelli di iniziativa regionale - organizzarono la raccolta delle firme (che come si sa, deve seguire di non più di tre mesi la vidimazione dei moduli) e il deposito delle richieste in modo che esso avvenisse all'indomani della fine del periodo di divieto, cioè all'inizio del 1992, in vista di consultazioni destinate a svolgersi nel 1993, vale a dire nell'anno successivo a quello del previsto rinnovo delle Camere.
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2. Ora l'ufficio - forse doverosamente, data l'apparente ambiguità del testo legislativo - ha sollevato a sua volta "la questione della tempestività della presentazione in relazione al disposto dell'articolo 31 della legge n.352 del 1970".
Questione che, appunto, trova base nella formulazione in qualche modo non del tutto univoca della legge, ma che deve, ad avviso degli esponenti, essere risolta senza possibilità alcuna di dubbio nel senso della tempestività e della regolarità delle richieste presentate, per le ragioni già sommariamente accennate, e che di seguito ulteriormente si argomenteranno.
I canoni dell'interpretazione non possono che essere quelli consueti: la ricerca del "significato proprio delle parole secondo la connessione di esse", e quella dell' "intenzione del legislatore" (art.12, disp. prel. al c.c.).
Quanto ai lavori preparatori della legge, da essi si trae conferma dell'intento, cui la legge stessa è volta, di impedire lo svolgimento dello stesso anno di elezioni politiche e di referendum. Basti riferirsi alla relazione governativa al disegno di legge, citata anche nella risposta del Ministro degli interni (Atto Senato, V legislatura, n.166), ove la limitazione in questione viene espressamente ricondotta alla "necessità di non sovrapporre a una consultazione di tale importanza , altre che, seppure di diversa natura, ne turberebbero naturalmente lo svolgimento": rendendo palese appunto che si intendeva precludere la possibilità che le due consultazioni cadessero nello stesso anno, e inevitabilmente nello stesso periodo, data la coincidenza fra l'arco temporale dell'anno in cui si possono svolgere i referendum (15 aprile - 15 giugno) e quello in cui, per una prassi da sempre invalsa, e legata a ragioni di evidente opportunità in rapporto alle abitudini della cittadinanza, si svolgono le elezioni politiche. Peraltro sul punto specifico della interpretazione dell'espressione "anno anteriore" non è dato di ricavare dai lavori parlamentari univoche indicazioni, anzitutto per la decisiva ragione che il dilemma non venne considerato nel dibattito. Se è vero che taluni degli intervenienti in senso critico sul progetto sembravano implicitamente intendere quell'espressione come riferita ai dodici mesi immediatamente precedenti la fine della legislatura (peraltro nel contesto di discorsi in cui l'attenzione era volta allo scopo di mettere in luce le eccessive limitazioni apportate ad avviso di alcuni all'esercizio del diritto di chiedere referendum, così che si sollevarono anche espliciti dubbi di costituzionalità sulla legge stessa), è altrettanto vero che il Governo proponente sembrava invece intendere l'espressione in senso opposto: non solo perchè, come si è ricordato, sottolineava l'intento di evitare la contemporaneità di referendum ed elezioni, ma anche perchè, nel presentare la limitazione t
emporale in esame sottolineava che "sono ..... stati instaurati due periodi corrispondenti all'anno anteriore alla scadenza di una delle Camere ed al semestre successivo alla data di convocazione dei comizi elettorali per le elezioni di una delle Camere medesime, nei quali non sono ammesse richieste di referendum" (Atto Senato cit., pag. 3). Orbene, il riferimento a "due periodi" rende evidente che il Governo pensava a due lassi temporali distinti e separati fra loro, come sono appunto l'anno solare anteriore alla scadenza della legislatura, e rispettivamente i sei mesi successivi alla indizione delle elezioni; e non ad un periodo pressochè inevitabilmente continuativo di un anno e mezzo, quale si avrebbe se l'anno anteriore fosse inteso nel senso dei dodici mesi immediatamente precedenti la scadenza della legislatura.
Del resto l'intero tema dei limiti temporali per la presentazione delle richieste di referendum fu discusso in Parlamento in un clima più di polemica fra chi riteneva tali limitazioni accettabili e chi invece le riteneva tali da vanificare il diritto al referendum, che non in un contesto di pacato esame della portata delle singole disposizioni: come dimostrano, fra l'altro, gli scambi polemici e le divergenze interpretative fra il Ministro dell'interno e il sen. Gianquinto, al Senato (Atti Senato seduta del 13 marzo 1969), nonchè l'emendamento proposto dai sen. Galante Garrone e altri, e approvato dal Senato, che estese ai primi tre mesi dell'anno il periodo annuale nel quale è consentita la presentazione delle richieste, originariamente limitato all'arco compreso fra l'1 aprile e il 30 settembre di ogni anno (cfr. Atti Senato, seduta del 20 marzo 1969): modifica a sua volta tale da incidere anche sulla concreta applicazione del limite di cui all'art. 31.
La verità è che - a parte il valore meramente sussidiario che deve attribuirsi ai criteri interpretativi tratti dai lavori preparatori (cfr. ad es. Cass. 8 aprile 1983, n. 2454) - da essi non si possono trarre argomenti decisivi per l'interpretazione, come da tempo la giurisprudenza più autorevole ha costantemente affermato (cfr. ad es. Cass. 10 febbraio 1971, n. 339; Cass. 19 maggio 1975, n. 1955; Cons. Stato 15 febbraio 1972, n. 201, e segnatamente Corte Cost., sentenze nn. 78 del 1957 e n. 138 del 1972).
Infatti le leggi, dopo la loro emanazione, acquistano vita e valore autonomi, e vanno dunque interpretate non secondo le opinioni personali (non di rado incoerenti rispetto al testo) di coloro che hanno partecipato alla loro elaborazione, ma secondo quanto risulta dalla loro formulazione e dal sistema in cui si collocano (cfr. Corte Cost., sent. n. 34 del 1977; cfr. anche la sent. n. 78 del 1969).
L'"intenzione del legislatore" di cui è parola nell'art. 12 delle preleggi va dunque intesa, come da tempo la giurisprudenza ha chiarito, come ratio legis oggettivamente desumibile dal sistema, e non come soggettivo convincimento di questo o di quel parlamentare. Ciò del resto è inevitabile specie in un sistema in cui la produzione legislativa passa attraverso tanti protagonisti diversi, spesso senza l'impiego delle tecniche legislative più coerenti ed idonee, e spesso in clima di alta conflittualità fra maggioranza e opposizione: e questo, come è noto, fu anche il caso della legge n. 352 del 1970, varata alquanto frettolosamente per corrispondere all'impegno politico di consentire l'impiego dello strumento referendario in relazione alla legge introduttiva del divorzio (n. 898 del 1970), quasi contemporaneamente approvata dal Parlamento, e non certo quindi redatta, esaminata e approvata con l'attenzione e la cura anche tecnica che sarebbero state necessarie.
Il risultato è una legge spesso imperfetta, la cui riformulazione è stata più volte indicata come necessaria, e il cui funzionamento ha dato luogo a numerosi inconvenienti, da tempo segnalati dalla Corte Costituzionale fin dalla celebre sentenza n. 16 del 1978, e non sempre ovviati nè ovviabili nemmeno dalle sentenze "manipolative" della stessa Corte (si pensi all'altra celebre sentenza n. 68 del 1978, che ha riscritto l'art. 39 della legge).
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3. E' dunque la logica "oggettiva" della legge che va ricostruita dall'interprete, anche al fine di pervenire alla corretta interpretazione dell'art. 31.
Ora, la logica della legge è anzitutto caratterizzata in modo chiarissimo da una premessa: il procedimento referendario è costruito in modo tale da prevedere che la consultazione si collochi in un anno solare diverso e successivo a quello in cui le relative richieste sono presentate a seguito della raccolta delle firme (o delle deliberazioni dei consigli regionali).
Infatti le richieste di referendum "devono essere depositate in ciascun anno dall'1 gennaio al 30 settembre" (art. 32, comma 1) (già qui - si noti - il termine "anno" è inequivocabilmente impiegato nel senso di anno solare).
Dopo il 30 settembre l'Ufficio centrale "esamina tutte le richieste depositate" (art. 32, comma 2); entro il 15 dicembre, dopo i diversi adempimenti e scaduti i vari termini intermedi, "decide, con ordinanza definitiva, sulla legittimità di tutte le richieste depositate" (art. 32, comma 6).
Successivamente, la Corte Costituzionale delibera in Camera di Consiglio sull'ammissibilità delle richieste "non oltre il 20 gennaio dell'anno successivo a quello in cui la predetta ordinanza dell'ufficio centrale è stata pronunciata" (art. 33, comma 1); la sentenza è pubblicata "entro il 10 febbraio" (art. 33, comma 4).
Ricevuta comunicazione di tale sentenza, il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, "indice con decreto il referendum, fissando la data di convocazione degli elettori in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno" (art. 34, comma 1).
Un primo dato dunque è incontrovertibile.
Il procedimento referendario, che è disciplinato in modo rigoroso attraverso la prefissione di adempimenti necessari e di termini precisi, si estende necessariamente su un arco di due anni solari. Il primo è quello in cui le richieste sono depositate; il secondo è quello in cui, nel periodo previsto, i referendum regolari e ammessi si svolgono. Il periodo a cavallo fra i due anni solari (dall'1 ottobre al 10 febbraio dell'anno successivo) è riservato alle verifiche di regolarità e di ammissibilità delle richieste; mentre nei mesi fra il 10 febbraio 1 il 15 giugno devono essere compiuti gli adempimenti finali necessari per consentire lo svolgimento della consultazione.
Anche l'eventuale differimento del referendum a seguito di scioglimento anticipato delle Camere o di una di esse (art. 34, comma 2) si colloca in questa logica della successione di anni solari: infatti i termini del procedimento sono sospesi per i 365 giorni successivi alla data della elezione (art. 34, comma 3). A parte i dubbi e le note discussioni sull'applicazione di tale norma (che di fatto - probabilmente in forza di un'interpretazione troppo rigida e formalistica - ha portato a differire di due anni i referendum già indetti, a seguito di scioglimento anticipato), sta di fatto che la legge, disponendo una sospensione di durata pari all'anno, mira evidentemente a oltrepassare l'anno solare in cui la consultazione avrebbe dovuto svolgersi, per rinviare la consultazione all'anno solare successivo (o comunque ad un anno solare successivo, quando, secondo l'interpretazione invalsa, il periodo utile del primo anno successivo non risulti utilizzabile): restando comunque intatta e inderogabile la scansion
e dei tempi, per cui i referendum si svolgono, in un anno solare successivo a quello in cui furono richiesti, nel periodo compreso tra il 15 aprile e il 15 giugno; senza possibilità, nemmeno in caso di evento sospensivo, di modificare il "ritmo" annuale del procedimento. Tutta la costruzione del procedimento è dunque fondata sulla scansione degli anni solari.
In questo contesto, l'espressione "anno anteriore alla scadenza di una delle due Camere", di cui è parola nell'art. 31, non può a sua volta che intendersi riferita ad un anno solare.
Già sul piano dell'interpretazione letterale, considerando l'uso che dei termini fa questa legge, si perviene alla conclusione che il limite temporale in questione riguarda l'anno solare (dal 1 gennaio al 31 dicembre) che precede la fine della legislatura.
Se "anno" sta per "anno solare" nell'art. 32, comma 1 ("in ciascun anno"), e nell'art. 33, comma 1 ("anno successivo"); lo stesso non può che essere anche nell'art, 31 ("anno anteriore").
Quando la legge del 1970 ha voluto indicare un arco temporale diverso dall'anno solare, ha usato espressioni diverse da quella di "anno": ha parlato di "sei mesi" (nello stesso art. 31), o di 365 giorni (art. 34, comma 3). Così, se avesse inteso vietare il deposito di richieste nei 365 giorni immediatamente precedenti la scadenza della legislatura, si sarebbe appunto riferita ai "365 giorni anteriori" o ai "dodici mesi anteriori".
Nè si potrebbe, al fine di interpretare l'espressione "anno anteriore", riferirsi utilmente ad altri diversi contesti legislativi nei quali si trovino impiegati termini simili.
Infatti la legge sul referendum rappresenta un corpo normativo non solo autonomo, ma "singolare", in quanto destinato a disciplinare procedimenti - quelli appunto referendari - che non trovano riscontro nè analogia in altri procedimenti: un corpo normativo ispirato, come di è visto, a una propri logica peculiare. Onde anche l'interpretazione delle espressioni in esso contenute va condotta alla stregua del sistema e della logica di questa legge.
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4. La conclusione raggiunta risulta peraltro pienamente confermata dal ricorso alla interpretazione logica.
Una limitazione temporale alla facoltà di depositare richieste di referendum non può essere frutto di un mero arbitrio del legislatore, come se questo potesse regolare a suo completo libito la materia, e così, per esempio, vietare la presentazione di richieste negli anni pari o in quelli bisestili.
Siffatta limitazione ha invece, e non può non avere, una logica, uno scopo. Nel caso, è palese che lo scopo perseguito è quello, come si è detto, di evitare la sovrapposizione nello stesso anno di elezioni politiche e referendarie.
Si tratta di una logica certamente discutibile e discussa (secondo alcuni elezioni e referendum potrebbero utilmente svolgersi anche contemporaneamente), ma è fuori dubbio che questa sia la logica cui è ispirata la legge del 1970.
Essa si inserisce nella concezione per cui il referendum, comportando la pronuncia del corpo elettorale su un problema specifico, oggetto di legislazione e dunque di trattazione da parte del Parlamento, non può e non deve confondersi con la consultazione elettorale generale, nella quale gli elettori sono chiamati a rinnovare le assemblee e dunque, implicitamente, ad affidare ai nuovi eletti la scelta degli indirizzi e delle soluzioni legislative; nè deve ostacolare l'attività legislativa, sempre libera del Parlamento.
Questa concezione emerge da più aspetti della legge n. 352 del 1970. Emerge, in modo molto evidente, là dove si fa discendere dallo scioglimento anticipato delle Camere o anche di una sola di esse la conseguenza della sospensione per un anno del referendum già indetto (art. 34, commi 2 e 3).
Ma emerge anche dalla lunghezza dell'iter previsto per le richieste di referendum, tale da consentire comunque al Parlamento di intervenire, anche abrogando o sostituendo la legge cui la richiesta referendaria si riferisce, e così rendendo vana la stessa richiesta (art. 39; così che, come è noto, è dovuta intervenire una sentenza "manipolativa" della Corte Costituzionale per stabilire che il Parlamento può bensì legiferare sulla materia fino al giorno fissato per la consultazione, ma se tale intervento si sostanzia in una mera sostituzione formale della legge con un'altra sostanzialmente non difforme dalla precedente, il referendum rimane in vita, "trasferendosi" sulla nuova legge: sent. n. 68 del 1978).
Emerge ancora - la concezione accennata - nella previsione della possibilità di un differimento fino a 60 giorni dell'effetto abrogativo del referendum, così da consentire alle Camere di intervenire ex post nella materia (art. 37, comma 3); nonchè nella limitazione frapposta per cinque anni (la durata di una legislatura) alla riproposizione di richieste referendarie respinte (art. 38).
La stessa preoccupazione di evitare coincidenze e interferenze fra referendum ed elezioni si rivela perfino, nella recentissima legge n. 142 del 1990 sull'ordinamento delle autonomie locali, là dove si vieta lo svolgimento dei referendum consultivi locali in coincidenza con consultazioni elettorali nazionali, regionali o locali (art. 6, comma 4).
In particolare, dunque, la legge è ispirata all'idea che elezioni e referendum sono eventi che reciprocamente si escludono, e che non debbono interferire tra loro.
Proprio questa è la ragione giustificatrice (unica) della limitazione temporale al deposito delle richieste di referendum posta dall'art. 31.
Vietando tale deposito nell'anno anteriore a quello di scadenza della legislatura si impedisce appunto che nello stesso anno (e praticamente nello stesso periodo di tempo, la primavera) possano svolgersi elezioni e referendum, con sovrapposizione totale o parziale delle rispettive campagne. E vietando il deposito, altresì, nei sei mesi successivi all'indizione delle elezioni si è parimenti mirato ad impedire che la stessa campagna di raccolta delle firme di sovrapponga alla campagna elettorale: infatti, tenendo conto che il deposito delle firme deve avvenire entro tre mesi dall'inizio della raccolta delle stesse (art. 28, prima parte), il divieto di depositare richieste per sei mesi a partire dalla data del decreto di indizione delle elezioni fa sì che la campagna di raccolta delle firme debba comunque concludersi prima di tale data,e dunque prima che inizi la campagna elettorale (mentre la campagna per lo svolgimento del referendum avrà luogo solo nell'anno successivo, per la scansione dei tempi previs
ti dagli artt. 32, 33 34).
L'impedimento di ogni sovrapposizione temporale fra elezioni politiche e referendum (nelle due fasi coinvolgenti il corpo elettorale, la raccolta delle firme e lo svolgimento della consultazione) è dunque la ratio dell'art. 31.
Orbene, con tale ratio è pienamente coerente l'interpretazione secondo cui l' "anno anteriore" è l'anno solare che precede la fine della legislatura. Infatti, vietando per l'intero anno solare, che precede quello elettorale, la presentazione di richieste di referendum, si ottiene l'effetto di impedire in ogni caso lo svolgimento di consultazioni referendarie nello stesso anno in cui si rinnovano le Camere. A sua volta il divieto di depositare richieste nei sei mesi successivi alla convocazione dei comizi produce, come si è detto, l'effetto di impedire campagne di raccolta di firme in coincidenza con la campagna elettorale.
Comunque, solo nell'anno successivo a quello elettorale sono possibili pronuncie referendarie.
La possibilità - che resta così aperta - di depositare richieste referendarie nei mesi dell'anno "elettorale" che precedono la convocazione dei comizi non dà luogo ad alcuna interferenza fra referendum ed elezioni: la campagna per la raccolta delle firme dovrà concludersi comunque prima della convocazione dei comizi elettorali, e i referendum richiesti in questo periodo di svolgeranno solo nell'anno successivo a quello elettorale.
Risulta pertanto completamente rispettata l'esigenza di non sovrapposizione cui la legge si ispira.
Viceversa, se l'espressione "anno anteriore" venisse intesa come relativa ai dodici mesi immediatamente precedenti la scadenza della legislatura, ne deriverebbero le seguenti due conseguenze:
a) nei primi mesi dell'anno che precede tale scadenza (ad esempio, nel nostro caso, dal 1 gennaio al 1 luglio 1991) sarebbe possibile il deposito di richieste di referendum, i quali dovrebbero svolgersi fra il 15 aprile e il 15 giugno dello stesso anno "elettorale" (nel nostro caso, il 1992), con inevitabile sovrapposizione almeno parziale delle due campagne e delle due consultazioni.
Nè si potrebbe evitare questa conclusione, sostenendo che la coincidenza fra elezioni e referendum nello stesso anno verrebbe comunque impedita dall'operare dell'art. 34, comma 2, della legge: infatti la sospensione del referendum ivi prevista, si collega esclusivamente all'ipotesi di "anticipato scioglimento delle Camere", e non a quella di fine del loro mandato normale. Resterebbe dunque intatta, almeno in assenza di scioglimento anticipato, o se il referendum venisse effettuato prima dello scioglimento, la possibilità dell'interferenza e del contemporaneo svolgimento delle due consultazioni;
b) non potendosi invece presentare richieste nè negli ultimi mesi della legislatura (nel nostro caso, dal 1 gennaio al 1 luglio 1992), nè nei sei mesi successivi all'indizione delle elezioni (indizione che invariabilmente di fatto precede la scadenza delle Camere), i quali vanno normalmente a coprire un arco temporale che va oltre il 30 settembre, e dunque non potendosi presentare richieste durante l'intero anno "elettorale", non risulterebbe mai possibile far svolgere referendum nell'anno successivo a quello in cui si rinnovano le Camere (nel nostro caso, il 1993).
Anche poi volendo ipotizzare che - contro la prassi invariabilmente seguita da quando è in vigore la Costituzione - si differisca la convocazione dei comizi elettorali a dopo la scadenza del mandato delle Camere, lasciando così un minimo intervallo temporale fra la fine del primo periodo di divieto (l'anno anteriore alla scadenza delle Camere) e l'inizio del successivo (i sei mesi successivi alla convocazione dei comizi), nel quale si potrebbero depositare richieste di referendum, si tratterebbe di una eventualità, oltre che praticamente inesistente, lasciata al mero arbitrio del Governo: il quale, promuovendo il decreto di indizione delle elezioni - come può indiscutibilmente fare - anche solo un giorno prima della fine della legislatura, eliminirebbe tale possibilità, vanificando lo sforzo compiuto dai promotori per la raccolta delle firme.
Non potendosi dunque, di fatto, presentare richieste per l'intero anno "elettorale", non risulterebbe mai possibile far svolgere referendum nell'anno successivo a quello in cui si rinnovano le Camere.
Come si vede, l'interpretazione qui contestata contraddirebbe due volte la logica della legge.
La contraddirebbe anzitutto rendendo possibile la coincidenza nello stesso anno di elezioni e referendum, e quindi la sovrapposizione delle due campagne, evento che invece, come si è detto, la legge mira ad impedire. E la contraddirebbe una secondo volta rendendo impossibile lo svolgimento di referendum nell'anno successivo a quello "elettorale", il che rappresenterebbe una restrizione priva di ogni logica e di ogni fondamento, poichè non giustificata dall'esigenza di evitare la sovrapposizione fra elezioni e referendum nè da alcuna altra apprezzabile esigenza.
L'interpretazione qui contestata sarebbe dunque contra o almeno ultra rationem legis. Ma poichè, come si è detto, una restrizione temporale, per giunta così consistente, all'esercizio del diritto al referendum non potrebbe giustificarsi al di fuori di una plausibile ratio legis, si deve concludere che l'interpretazione medesima condurrebbe a conferire alla legge un significato irrazionale e contrastante con la stessa Costituzione, la quale certo non ammette limitazioni non ragionevoli all'istituto referendario.
Ma è ben noto come, di fronte a una pluralità di possibilità interpretative, vada senz'altro data la preferenza e quella di esse che consente di evitare significati incostituzionali, oltre che, nella specie, del tutto illogici e in contraddizione con le stesse esigenze emergenti dal sistema legislativo.
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5. Sotto il profilo, pertanto, risulta confermato che l'interpretazione corretta dell'art. 31 è quella per cui il divieto di depositare richieste di referendum riguarda solo l'anno solare anteriore a quello di scadenza della legislatura; e che pertanto le richieste in esame, depositate nel gennaio del 1992, in vista di consultazioni destinate a svolgersi nel 1993, sono regolari e tempestive.
Roma, 15 ottobre 1992
Avv. Prof. Paolo BARILE
Avv. Prof. Nicolò LIPARI
Avv. Prof. Livio PALADIN
Avv. Prof. Valerio ONIDA