di Giulio SavelliSOMMARIO: Commentando l'articolo di Marco Pannella pubblicato dall'indipendente il 27 novembre ("Qualche proposta alla Lega per stare insieme - testo n. 4900), Giulio Savelli scrive che il leader radicale ha dimenticato quello che è stato il suo più prezioso insegnamento politico e cioè la concretezza degli obiettivi politici. Pannella si è fatto sempre più nebuloso e incomprensibile con la proposta di partito trasnazionale: »non si rende conto di diffondere null'altro che aria fritta? Non si accorge di quanto egli è distante da quel giorno di venti anni fa in cui si batté per una riforma concreta e determinata, il divorzio, portando sul suo terreno tanti parolai che sognavano "tentativi mondiali" di fare non si sa bene che cosa?
(L'INDIPENDENTE, 29 novembre 1992)
Ho sempre avuto grande simpatia per Marco Pannella, anche quando ero su posizioni politiche molto lontane dalle sue. Tra i comunisti si diceva allora: "Gratta gratta il radicale, esce fuori il liberale": e il liberale era considerato il partito dei padroni, quindi "il nemico" per antonomasia. Nel 1962, quando avevo vent'anni e Marco poco più di trenta la libreria "Terzo Mondo" e la casa editrice che ha portato il mio nome aprirono la loro sede a Roma in Via 24 maggio, di fronte alla sede del Partito radicale; forse fu solo per questa coincidenza casuale che fin da allora frequentai e apprezzai i radicali, e Pannella in particolare.
Ma col passare degli anni la conoscenza e la simpatia generica divennero più motivato consenso: la casa editrice, per esempio, pubblicò numerosi testi di orientamento radicale, da Ernesto Rossi a Mauro Mellini. Finché, nei primi anni Settanta, ricordo di aver dichiarato in un'intervista a Paolo Mieli per l'Espresso, dal titolo bellissimo e significativo ("Non si vive di solo Trotskij"), che in realtà era alle posizioni politiche del Partito radicale - che, personalmente, mi sentivo ormai più vicino. Per un verso, avevo ormai compreso, infatti, che le posizioni estremistiche facilitavano, anziché impedire, il perdurare del monopolio del potere della Democrazia cristiana. Per altro, a ripensare oggi alle cose di trenta anni fa, credo che, come tanti giovani di quegli anni, in fondo era solo un'Italia più civile e moderna ciò che avremmo voluto; e se ci definivamo comunisti, era solo perché quella parola più delle altre ci sembrava esprimere l'opposizione al sistema politico del tempo (per la verità molto simil
e a quello di oggi), senza che questo ci spingesse a condividere né il comunismo sovietico né quello cinese, e ben presto neanche il cubano.
Anzi, il comunismo era per noi una futura, mitica comunità di uomini liberi, una società nella quale sarebbe stato abolito lo Stato e il denaro, tutto il contrario del collettivismo che piaceva al PCI e piace tuttora agli statalisti di tutti i generi. Mi ha sorpreso, qualche giorno fa, ascoltare il liberale professor Antonio Martino citare con consenso una frase di Troskij che, per mio conto, ho impressa nella mente fin da allora e che spiega, credo, come si possa essere stati trotskisti ed essere oggi liberal-leghisti rivendicando una certa coerenza e continuità: "In un Paese dove il solo imprenditore è lo Stato, opposizione significa morte per inanizione. Il vecchio principio: "chi non lavora non mangia" è stato sostituito da un principio nuovo:"chi non obbedisce non mangia".
Ma torniamo a Pannella. Unico nella sinistra, Marco, tra tante rivoluzioni di sole parole o di cruda violenza (che in ogni caso finivano per rafforzare il regime), piedi in terra, fece una battaglia vera, propose ma soprattutto ottenne una riforma meno rivoluzionaria, se si vuole, ma effettiva; il divorzio; una battaglia-simbolo della più generale lotta per i diritti civili e la democrazia, per il nuovo contro il vecchio. Chi ricorda le manifestazioni entusiastiche del 13 maggio del 1974, la sera della vittoria del referendum, sa bene che la questione specifica del divorzio ebbe una parte rilevante ma non esclusiva: che la gioia incontenibile nasceva dal fatto di aver battuto la Democrazia cristiana e il suo unico alleato, il Movimento sociale. Il merito di Pannella era di aver sostituito alle parole i fatti; certo non di aver cancellato la Dc e il suo sistema di potere, come invece sognavano gli estremisti; ma di averle inflitto la prima significativa sconfitta (il ridimensionamento della Dc nel ventennio s
uccessivo dipende in larga parte, a mio parere, dal risultato di quel referendum).
Pannella insomma non era né rivoluzionario né riformista a chiacchiere: moderato negli obiettivi e però concreto e determinato, insegnò a tutti un metodo di lotta politica civile e democratico. Insegnò a tutti meno, apparentemente, che a se stesso. Perché da quegli anni lontani Pannella si è fatto sempre più nebuloso e incomprensibile. "Il Partito radicale, transnazionale e transpartitico - scrive Marco sull'Indipendente di venerdì scorso -, quello di oggi, costituisce già più di un embrione di un tentativo mondiale, valido per il nostro tempo e la nostra società". Un tentativo mondiale di fare che? Ci si lascia all'oscuro. Quando Pannella afferma che il venti per cento dei parlamentari radicali è musulmano; che è radicale il sindaco di Sarajevo e il presidente dell'opposizione cubana; che centotrenta parlamentari italiani, "moltissimi socialisti, ma anche liberali, repubblicani, socialdemocratici, del Pds e verdi" "sono accorsi per testimoniare con l'esempio la loro volontà di salvare e rilanciare" il tenta
tivo di riformare l'Onu e di costruire "un governo effettivo e ragionevole dei problemi più atroci e pericolosi del nostro tempo", non si rende conto di diffondere null'altro che aria fritta? Non si accorge di quanto egli è distante da quel giorno di venti anni fa in cui si batté per una riforma concreta e determinata, il divorzio, portando sul suo terreno tanti parolai che sognavano "tentativi mondiali" di fare non si sa bene che cosa? Pannella ha ragione quando invita alcune forze politiche e in particolare la Lega a uscire dal loro guscio e a farsi partecipi di un fronte comune. Ma perché, invece di avanzare, come fece allora, una proposta politica chiara e precisa, comprensibile e limitata, preferisce perdersi nei fiumi del transtutto, nel quale pretende di far pascolare tranquilli, fianco a fianco, uomini della nomenklatura e uomini dell'opposizione al sistema, uniti, si presume, solo dall'amore per Pannella? La vera questione italiana sta tutta in quelle parole di Trotskij citate domenica scorsa da Mar
tino. E la risposta sta nella cacciata di questo ceto politico dall'occupazione dello Stato che ha reso tutti noi, membri della società civile, sudditi di una classe usurpatrice. La risposta insomma sta nel recupero dei valori essenziali del liberismo e del liberalismo; che non sono certo il toccasana di ogni male della società, ma che costituiscono un argine valido contro lo strapotere di politici e burocrati. A trent'anni di distanza, sarebbe paradossale davvero dover constatare che gratta gratta il radicale s'è addolcito il liberale.