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Ponzone Lorenza - 1 gennaio 1993
(9) Il Partito Radicale nella politica italiana: 1962-1989
di Lorenza Ponzone

CAPITOLO VI

I RADICALI NEL PARLAMENTO

SOMMARIO: Paragrafo 1. In nome del regolamento: i comportamenti, le lotte, i risultati conseguiti dai deputati radicali eletti nella VII, VIII e IX legislatura; sono messe in risalto le caratteritiche principali dell'iniziativa radicale volta a ripristinare prerogative, funzioni e valori del parlamento, liberandolo dalla presa soffocante dei partiti e dei gruppi, collegati nel più ferreo consociativismo. L'iniziativa fu esplicata sopratutto nella VII legislatura, privilegiando l'impegno sulle procedure, sul regolamento e nel sindacato ispettivo piuttosto che sul lavoro propriamente legislativo; analizzati i rapporti con PSI e PCI; la questione del rapporto tra gruppo parlamentare e partito; la scissione del 1982, e il "codice di comportamento" messo in atto nella IX legislatura.

(Lorenza Ponzone, IL PARTITO RADICALE NELLA POLITICA ITALIANA, 1962-1989, Schena editore, gennaio 1993)

1. In nome del regolamento

Oltre che nel Paese, come era accaduto nell'arco dei due decenni della sua storia, il partito radicale intendeva portare la sua diversità in Parlamento.

Abbiamo visto che i radicali, mentre erano già in procinto di entrare nel Parlamento discutevano ancora al loro interno sulla natura dell'organizzazione in cui militavano, partito o movimento. Preferivano identificarsi sotto la prima classificazione, ed in effetti avevano assunto la fisionomia di un partito ma, appunto, diverso, in fase continuamente costituente, più che altro un contenitore delle più diverse istanze provenienti dal basso finalizzate alla costruzione di una società socialista libertaria.

I radicali volevano trasformare il Parlamento in luogo di scontro reale tra le forze politiche, una prosecuzione delle lotte per i diritti civili, anziché continuare a vederlo come una sede di registrazione degli accordi e dei compromessi che necessariamente intervengono tra le forze politiche e sociali.

Tentavano dunque un uso dell'istituzione parlamentare che consentisse loro non solo un'opposizione di principio, ma battaglie progettuali particolari (274).

Ma così come era organizzato il lavoro parlamentare, con il suo decentramento in commissioni, non permetteva al gruppo dei quattro deputati radicali di partecipare concretamente al confronto politico con le altre rappresentanze. Erano, cioè, costretti ad "incursioni" da una Commissione all'altra: dovevano insomma inventarsi delle tecniche particolari per partecipare, tutti insieme, ai lavori delle commissioni nel momento in cui erano all'ordine del giorno progetti di legge sulle tematiche "radicali", come quelli relativi alla regolamentazione dell'aborto.

La contrarietà dei radicali verso la frantumazione della Camera in attività settoriali rispondeva anche ad un preciso disegno politico. Essi ritenevano che soltanto sui diritti civili era possibile stabilire una contrapposizione netta tra forze conservatrici e forze progressiste del Paese: sulle scelte di civiltà i compromessi erano difficili da raggiungere, e pertanto i luoghi di mediazione, cioè le assemblee parlamentari, diversamente dalle Commissioni, dovevano essere le sedi rappresentative dello "scontro" reale. Da qui la polemica di Pannella per la "riappropriazione" da parte dell'assemblea della propria sovranità; rivendicava, così, più spazio per il dissenso radicale che, fortemente minoritario, poteva utilmente esprimersi soltanto in sede plenaria dove avrebbe potuto aggregare i partiti di sinistra sui temi dei diritti civili.

La metodologia del P.R. in Parlamento si esprimeva attraverso incidenti procedurali su questioni apparentemente minori.

Per esempio la vicenda dell'assegnazione degli scranni: i radicali chiedevano di sedersi alla sinistra dei comunisti. La richiesta fu interpretata da questi come provocatoria, un dispetto agli eletti del P.C.I.; in realtà la ragione della protesta radicale era ben più seria e si iscriveva nella difesa della sovranità dell'assemblea: la distribuzione dei seggi era stata adottata da un organo interno, i questori, e quindi sottratta alla decisione assembleare.

Un altro aspetto della vita parlamentare fortemente contestato dai radicali era stata l'organizzazione dei lavori tramite i gruppi, la lottizzazione dei tempi, delle funzioni e delle responsabilità con l'attenuazione del ruolo del singolo deputato.

E' stata anche denunciata dal gruppo radicale la prassi che tollera la contemporaneità tra le sedute dell'assemblea e quelle delle Commissioni. Tutta l'azione del P.R. in Parlamento tendeva dunque ad una rivalutazione dell'assemblea, come centro di confronto politico; e non poteva che essere così se si riflette sul significato degli interventi nel Paese. Di qui le polemiche da parte radicale contro la "latitanza" del governo a rispondere ad interrogazioni ed interpellanze, violando così i poteri di controllo dell'assemblea sull'esecutivo.

Il momento politico, la solidarietà nazionale, era di per sé sfavorevole alle minoranze, rimaste ai margini del dibattito di fronte al maxi-accordo tra le grandi formazioni politiche. I radicali in questo contesto sembravano la minoranza delle minoranze, perché estranei ad ogni contrattazione; dovevano perciò, necessariamente, ritagliarsi un ruolo per non rimanere schiacciati in mezzo alle forze egemoni, D.C. e P.C.I. alleati: un ruolo che potevano esercitare soltanto nell'assemblea legislativa, agendo sulla coscienza politica dei singoli deputati di sinistra, per ottenere adesioni ai loro progetti sui diritti civili; così operando i radicali volevano restituire ai parlamentari la loro funzione rappresentativa originaria, garantita dall'art. 67 della Costituzione.

La polemica radicale contro la marginalità dell'assemblea parlamentare ebbe qualche risultato, ma non riuscì a scardinare il sistema ormai consolidato di decidere e mediare al di fuori dell'assemblea stessa: i partiti della maggioranza »dettavano temi, svolgimenti... l'ordine dei gesti come in una catena di montaggio, ad un migliaio di parlamentari-bidone , scriveva Pannella, a proposito dello scontro in Parlamento tra il gruppo radicale, la maggioranza e le minoranze "passive" (275).

I radicali intendevano denunciare questa situazione: si erano accorti che l'interpretazione dei regolamenti parlamentari era consona all'atteggiamento dei partiti di governo verso i loro rappresentanti alle Camere espropriati della funzione primaria e sovrana.

Lamentavano che per prassi al deputato non era consentito di intervenire neanche per notazioni procedurali, per richiami allo stesso regolamento. Si era arrivati al punto che il Presidente del l'Assemblea poteva negare ad un parlamentare anche di chiedere la parola e di motivare la sua richiesta.

Qui necessita esaminare lo snodo tra l'ordinamento parlamentare e la politica. E' necessario un richiamo alle fonti che regolano il Parlamento. Esse sono giurisprudenziali, cioè le circolari presidenziali ed i pareri interpretativi delle Giunte per il regolamento, ma soprattutto fonti non scritte, peraltro non riscontrabili, secondo la dottrina, in nessun altro settore dell'ordinamento giuridico (276). In questo punto di incrocio tra fonti scritte e non scritte, la necessità di fluidità dei comportamenti si congiunge ad una necessaria stabilità di accordo sulle regole del gioco.

Ebbene, proprio questo equilibrio tentarono di far saltare i radicali: essi vollero contestare le fonti non scritte che formavano la prassi, le consuetudini e le convenzioni parlamentari, e rivendicare la superiorità delle fonti scritte cioè del regolamento; fonte certa, non suscettibile di essere manovrata dalle maggioranze in danno delle minoranze, e tutto ciò anche a costo di creare una certa rigidità di comportamenti.

L'azione in Parlamento dei radicali veniva giustificata sotto un duplice profilo. Da un lato miravano a ristabilire la legalità formale nelle assemblee con il rispetto delle norme scritte; dall'altro a sfruttare le risorse dei regolamenti (160 interventi solo in Aula per richiami al regolamento) fino alle ultime possibilità, per organizzare un ostruzionismo apparentemente fine a se stesso, ma nella sostanza in difesa del Parlamento contro tutte le decisioni extraparlamentari dei partiti della cosiddetta esarchia, allora al potere.

Approvato nel 1971, in previsione della convergenza fra DC e PCI, il regolamento offriva largo spazio all'ostruzionismo soprattutto alla Camera poiché era basato sull'unanimità della gestione dei procedimenti.

In sostanza esso si fondava sul presupposto dell'inesistenza di un'opposizione. Attribuiva ai presidenti dei gruppi parlamentari poteri d'attivazione e anche di programmazione dei lavori: un regolamento "gruppocratico" come sostenevano i radicali, che riduceva l'indipendenza del singolo parlamentare. Insomma con la scusa del garantismo, della "centralità" del parlamento si voleva realizzare una forma di cogestione unanimistica del potere da parte dei partiti. I radicali contestano la validità del sistema consociativo; ma a parte questo constatavano che il Parlamento comunque non funzionava e che soprattutto era espropriato dei suoi poteri dalle segreterie dei partiti.

Anche disponendo di una larga maggioranza, infatti, il governo era costretto a far uso della decretazione d'urgenza, ed anche i disegni di legge erano tenuti fermi per mesi, per mancanza di accordo fra i partiti dell'eterogenea maggioranza governativa.

L'azione parlamentare radicale era svolta coerentemente con quanto stabilito nello statuto del PR, approvato nel 1967.

L'articolo 5, secondo comma, a proposito degli eletti con liste del Partito nelle competizioni comunali, provinciali, regionali, politiche, prescriveva che "gli eletti, nell'esercizio della loro attività rappresentativa, non sono vincolati da mandati né da alcuna disciplina", e lasciava libertà di voto anche rispetto alle deliberazioni dei gruppi parlamentari. Una formulazione studiata per affossare la disciplina di partito e lo strapotere degli apparati, contro la regola consolidata di subordinare il gruppo parlamentare al partito.

L'impostazione radicale mirava a rompere coincidenza tra élites parlamentari ed élites di partito, e suscitare, quindi, una dialettica tra partito e Parlamento. Rientrava in tale ottica il principio della rotazione del mandato parlamentare, annunciato dai radicali all'inizio della legislatura, ed attuato, poi, alla fine del '78 (277); e quello della incompatibilità fra mandato parlamentare e cariche di partito.

I radicali chiesero l'iscrizione al Gruppo parlamentare del PSI, ma la richiesta non ebbe alcun seguito, proprio a causa delle posizioni anti-apparato che il P.R. aveva dichiarato di voler mantenere ed anzi riversare in proposte di legge che sancissero quelle incompatibilità di incarichi alle Camere e nel Partito. Ma il punto di maggiore, anzi di fondamentale contrasto tra radicali e socialisti stava nella ferma ed irrinunciabile richiesta del P.R. di svincolare i singoli deputati dalla disciplina dei rispettivi gruppi.

Il P.S.I. si oppose, perché accettare una simile pretesa avrebbe, ovviamente, scardinato il rapporto tra il partito-apparato e la sua espressione parlamentare.

Di fronte al rifiuto socialista, i radicali istituirono un "collettivo parlamentare", composto dai loro deputati e dai primi dei non eletti. Per fissare un maggiore distacco tra partito e deputati, il Gruppo Parlamentare radicale non poteva partecipare, di diritto, al Consiglio Federativo; di contro normalmente il segretario ed il tesoriere e presidente del Consiglio Federativo potevano intervenire ai seminari del Gruppo. Nel 1978 però, al Congresso di Bologna, si approvò la costituzione di una "giunta consultiva", di cui avrebbero fatto parte gli ex segretari del partito e i parlamentari, al fine di coordinare il partito ed il gruppo parlamentare, ad evitare possibili separatezze.

Il rapporto fra gruppo parlamentare e partito nella VII legislatura, fu abbastanza paritetico; e di appoggio reciproco.

All'inizio della Legislatura, i deputati radicali presentarono alcuni progetti di legge relativi a materie già oggetto di loro battaglie nel Paese da molti anni.

"La pattuglia" radicale dovette affrontare l'opposizione della più vasta maggioranza, nella storia parlamentare d'Italia. E come abbiamo avuto occasione di osservare nelle pagine precedenti, i deputati radicali operavano in Parlamento in modo diverso ed alternativo, con la pratica dell'ostruzionismo, con il richiamo puntiglioso al regolamento (278), con l'insistenza sul "primato" delle assemblee, per far fallire alcune iniziative legislative dell'esarchia, ritenute illiberali, come la Legge "Reale-bis".

Il primo dei progetti di legge a firma dei deputati radicali fu quello sull'aborto. Recano anche la firma del P.R. altrettanti progetti in materia di immunità parlamentare, di spostamento dei processi da parte della Cassazione (caso Valpreda), di tutela delle minoranze linguistiche, di riforma e smilitarizzazione dei corpi di polizia, di adeguamento dell'età per il voto per il Senato, di quorum necessario per l'incriminazione dei ministri da parte del Parlamento in seduta comune, di principi della disciplina militare e del codice penale militare, ed altre di minore importanza.

L'attività radicale nella VII Legislatura, nella promozione legislativa, superò la media realizzata dagli altri gruppi, ed i deputati radicali si mostravano i più assidui nel lavoro parlamentare, quelli che erano intervenuti e che avevano ascoltato di più anche gli antagonisti (cosa, in genere, ritenuta inutile).

Inoltre il gruppo radicale non trascurava l'altro compito istituzionale del parlamentare, cioè l'attività di "sindacato ispettivo" (interrogazioni, interpellanze) e di "indirizzo" (mozioni, raccomandazioni). Quantifichiamo, qui di seguito, in cifre le due ultime attività. Nel corso di questa Legislatura i deputati radicali hanno presentato 19 mozioni, 73 interpellanze, 356 interrogazioni a risposta scritta (279).

Durante i drammatici giorni seguiti al rapimento di Moro, i radicali si rifiutavano di accettare "il rito dei consensi" e di rinuncia alla discussione nel segno, dissero, della "retorica dell'unione sacra" (280).

Contro le varie leggi varate allo scopo di evitare i referendum sull'aborto e sui manicomi, i radicali si impegnavano con ripetuti interventi, con pregiudiziali, con emendamenti. Tuttavia la maggioranza sulla quale poggiava il governo Andreotti, nonostante l'ostruzionismo radicale, riuscì a varare le leggi sui manicomi, sull'Inquirente, sull'aborto, che impedirono i tre referendum, sulle stesse materie, presentati dal P.R.

La legge sull'aborto fu particolarmente avversata dai radicali, perché non recepiva la totale depenalizzazione, così come il P.R., e le varie Leghe, il MLD ed il CISA, auspicavano (281): i radicali vedevano vanificati i loro digiuni, la loro disobbedienza civile, gli arresti di Spadaccia, della Bonino, di Adele Faccio, di Giorgio Conciani e di decine di altri militanti e l'assistenza prestata in tutta Italia a decine di migliaia di donne.

Invece, l'ostruzionismo condotto in commissione in sede legislativa contro la legge che sostituiva quella "Reale-bis" ed impediva il referendum, ebbe successo. Furono presentati molti emendamenti, con decine di interventi nella Commissione Giustizia, finché fu chiaro che la legge non sarebbe stata votata prima del referendum.

Bisogna dire, in sede di esame complessivo, che la presenza radicale in Parlamento da un lato provocava fastidio ed insofferenza, perché turbava consolidate prassi ed abitudini, ma anche riconoscimenti e consensi da parte di singoli deputati "sciolti", i quali vedevano valorizzata la loro funzione: ed accadeva che, nelle votazioni a scrutinio segreto, molti "franchi tiratori" votavano per le pregiudiziali, per gli emendamenti, per le proposte dei radicali.

Insomma il P.R. rivalutava l'istituzione parlamentare, e ciò non dispiaceva ai più sensibili verso la Costituzione.

E' necessario ricordare, infine, che i parlamentari radicali non si rivelarono attenti solo ai problemi dei diritti civili. Ebbero un ruolo anche sui temi nucleari ed energetici, e parteciparono attivamente ai dibattiti sui bilanci, sui provvedimenti fiscali, sull'equo canone, e su altre questioni economiche, finanziarie e sociali.

Si poneva tuttavia, al gruppo radicale, nonostante l'attivismo anche frenetico, anche stressante, un problema politico: rompere l'isolamento in cui era stato posto il P.R., per il suo rifiuto a partecipare alla democrazia consociativa e "spartitoria" (come la definiva Pannella): in pratica scontava una emarginazione a sinistra. Peraltro la Camera non rispondeva alle sollecitazioni dei radicali sui problemi urgenti, quale, per esempio la situazione penitenziaria.

Questo rifiuto spostava necessariamente all'esterno del Parlamento il centro della iniziativa e del metodo radicale. Tornavano così, nel Paese, le tradizionali azioni dirette non violente, come i digiuni (282). Lo stesso "collettivo parlamentare" rinunciava a considerarsi parte della Istituzione per assumere il ruolo di contro-parte.

I radicali, con le mobilitazioni di sempre, con il ricorso alle molteplici azioni dirette, volevano dimostrare che in nessun caso erano disposti a subire condizionamenti istituzionali ed a perdere la loro identità di minoranza attiva che si esprimeva soprattutto a livello di base. Nella stessa ottica si deve giudicare il ritorno alla strategia dei referendum come fatto di aggregazione dal basso delle forze di sinistra che credevano nell'alternativa, sempre nella prospettiva di una società socialista e libertaria.

Per l'VIII legislatura furono eletti 18 deputati e 2 senatori radicali. La prima preoccupazione fu quella, data la dimensione del gruppo, di non ricadere nelle prassi degli altri gruppi tradizionali. Intanto i radicali mantengono il primato degli interventi (solo nei primi quindici mesi, un totale di circa 900 interventi in aula); inoltre la situazione politica era cambiata: la fine della solidarietà nazionale poteva aprire nuovi spazi alla presenza radicale in Parlamento.

Ma il rapporto dei radicali con il P.C.I. e con il P.S.I., come vedremo, rimase molto conflittuale; anzi peggiorò soprattutto con Craxi che cercava di liberarsi di un pericoloso avversario che avrebbe potuto sottrarre consensi nell'area socialista. L'isolamento del P.R. era quindi molto forte, sia in Parlamento sia nel Paese. Sembrava impraticabile quindi la strategia radicale di aggregazione di forze di sinistra per un alternativa.

Il 1979 è l'anno dell'inizio della lotta contro lo sterminio per fame, un tema che non raccoglie l'appoggio dei partiti di sinistra (soprattutto del P.C.I.) in quanto tali, ma semmai aggrega l'opinione pubblica o parlamentari "sciolti".

Un tema trasversale come i diritti civili, ma non suscettibile di creare una divisione destra/sinistra. Il P.R. conduce la lotta parallelamente nel paese con frequenti digiuni e in Parlamento, dove l'impegno dei due senatori radicali riuscì ad ottenere le firme necessarie.

I radicali comunque continuarono la loro battaglia per un corretto gioco parlamentare. Nell'VIII legislatura il problema della crisi delle istituzioni, di necessarie riforme istituzionali e il problema della "governabilità" cessarono di essere appannaggio radicale per divenire problema comune.

Il punto critico viene visto dai radicali nelle debolezze dell'esecutivo rispetto al Parlamento costretto, per attuare il programma, a far ricorso ai decreti legge. I radicali avevano già messo in evidenza questo punto nella legislatura precedente. Per rendere più fluido il sistema, secondo i radicali, certamente non sarebbero state sufficienti delle semplici modifiche dei regolamenti parlamentari e della Costituzione, come si proponeva da varie parti.

Occorreva, infatti, ben altro, per rendere più funzionale il rapporto tra maggioranza che governa efficacemente e opposizione vera e senza cedimenti, perché il male si annidava nella burocrazia: i partiti non formavano maggioranze e minoranze certe: i ruoli opposti venivano spesso scambiati e confusi, creando pateracchi ed ingorghi.

Dunque, per far funzionare correttamente le istituzioni sarebbe stata necessaria l'alternanza di governo, che avrebbe consentito un ricambio della classe dirigente. Ma qual era il mezzo per rendere possibile questa alternativa? Primo: una intesa tra i partiti di sinistra. Secondo: il rispetto effettivo delle regole del gioco parlamentare.

Per realizzare questo disegno politico-istituzionale, Pannella proponeva un "patto istituzionale per il rafforzamento dei meccanismi-cardine della vita del Parlamento e del governo". In pratica, il patto proposto dal leader radicale consisteva in un preciso impegno da parte dell'opposizione a discutere, entro i termini prescritti dal regolamento, i disegni di legge governativi ed i progetti di legge parlamentari. Il governo, da parte sua, doveva rispettare il diritto delle opposizioni a veder votate ed eventualmente respinte le proprie proposte. Per far funzionare questo patto sarebbe stato sufficiente usare gli strumenti regolamentari disponibili, per esempio, la programmazione dei lavori.

La proposta però venne lasciata cadere. Nell'81 venne approvata una riforma del regolamento della Camera dei deputati che limitava i tempi di intervento dei parlamentari e riduceva la programmazione concordata all'unanimità all'interno della conferenza dei capigruppo. Su queste riforme si realizzò una larga convergenza anche da parte dei comunisti, nonostante il fatto che essi limitassero l'opposizione, senza però (come notavano i radicali) affrontare i problemi del governo o prevedere nuovi strumenti di indirizzo e controllo (i radicali proponevano l'adozione del "question time" all'inglese per risolvere il problema della risposta del governo al sindacato ispettivo). Queste riforme, le prime di una lunga serie che irrigidirà il regolamento, contro le quali i radicali presentarono ben 50.000 emendamenti, vennero adottate con l'intento di battere l'ostruzionismo attuato dai radicali, considerati i sabotatori delle istituzioni.

All'inizio del 1980 i parlamentari radicali avevano spiegato un duro ostruzionismo, con lunghe maratone oratorie, contro la conversione in legge del decreto legge antiterrorismo, meglio conosciuto come "decreto Cossiga". In quella sede i radicali si contrapposero nettamente al P.C.I. e al P.S.I., che furono indotti a votare la fiducia "tecnica" al governo, avendo questo posto la questione di fiducia sul decreto (sul quale anche l'opposizione concordava) al fine di far cadere gli emendamenti radicali e perciò sconfiggere l'ostruzionismo.

Il ricorso all'ostruzionismo, che verrà più volte usato, era giustificato dal P.R. con la mancanza di corrette informazione sulle vicende parlamentari. Lo scopo era quello di richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica sulle scelte compiute dalla maggioranza e sulle proposte delle opposizioni. Questa scelta contribuì ad una ancora più netta conflittualità con le sinistre, anche su questioni procedurali.

Nel 1982 una parte del gruppo parlamentare radicale passava al gruppo misto, di fatto avvicinandosi al P.S.I. (Aiello, Boato, Pinto, De Cataldo,

Rippa), Marisa Galli agli indipendenti di sinistra e Pio Baldelli nel gruppo misto. Al Parlamento Europeo M. A. Macciocchi passò al gruppo socialista. I radicali erano sempre più isolati anche in Parlamento.

Le regole ferree che i radicali si erano dati (rotazione e incompatibilità fra incarichi di partito e incarichi parlamentari) non furono però sempre rispettate: ad esempio Marco Pannella, eletto segretario nel novembre 1981, non si dimise dal Parlamento Europeo.

Il rapporto con il partito risultava più problematico rispetto alla legislatura precedente anche perché, specialmente dopo il referendum dell'81, come vedremo, il PR appare disorientato, alla ricerca di una nuova identità.

Nella IX legislatura i radicali continuavano in modo ancora più incisivo la battaglia contro le prassi che a loro sembravano lo strumento della partitocrazia nel Parlamento. Infatti, in un primo momento, l'Ufficio di Presidenza della Camera negò al P.R. (oltre che a D.P. e al P.L.I.) l'autorizzazione a costituirsi in gruppo parlamentare, autorizzazione che venne concessa solo dopo l'approvazione di modifiche al regolamento che restringevano il potere dei presidenti di gruppo.

I radicali si dettero un "codice di comportamento" che prevedeva tra l'altro per gli eletti radicali il rifiuto di proporre leggi, interpellanze e interrogazioni e non partecipazione ai voti sia in aula sia in commissione, e invece partecipazione ai dibattiti generali in aula e in Commissione al fine di rendere noto all'assemblea il punto di vista del P.R. su ogni proposta di legge. La ragione di questo comportamento stava nel fatto che i parlamentari radicali si ritenevano e quindi si comportavano come semplici militanti del loro partito nelle istituzioni e rifiutavano il sistema partitocratico che impediva al Parlamento di esprimere la sua sovranità. Insomma volevano rendere pubblico quanto avveniva nel palazzo-Parlamento, rifiutandosi però di avallare con la loro presenza i momenti nei quali "la partitocrazia pretendeva di ammantarsi con il prestigio dell'adempimento di riti e prescrizioni della costituzione e della democrazia parlamentare e politica".

Il codice di comportamento sarà la causa di un atto clamoroso che susciterà molte polemiche. Nel momento in cui alla Camera dei deputati venne chiesta l'autorizzazione a procedere all'arresto del deputato radicale Toni Negri, il gruppo comunista propose una questione sospensiva che avrebbe rimandato la discussione. Giunta in votazione la proposta comunista, il gruppo radicale si rifiutò di partecipare al voto: la proposta venne bloccata per pochi voti e la Camera votò successivamente l'autorizzazione all'arresto. Toni Negri fuggì in Francia. Ci furono polemiche all'interno del partito e dello stesso gruppo parlamentare sulla non partecipazione al voto, ma il codice di comportamento venne mantenuto per tutta la legislatura.

NOTE

(274) Cfr., per la ricostruzione delle linee essenziali della metodologia radicale in Parlamento, ERNESTO BETTINELLI, »Quattro radicali a Montecitorio: primo bilancio di una stagione parlamentare per la risoluzione democratica, "Argomenti Radicali", n. 1, aprile-maggio 1977, p. 114.

(275) MARCO PANNELLA, »Quell'esarchia extra-parlamentare in "Prova radicale", Anno I, luglio-agosto 1976.

(276) Cfr. A. MANZELLA, »Il Parlamento , AA.VV. "Manuale di Diritto Pubblico", Il Mulino, Bologna, 1989, pag. 416.

(277) I quattro deputati eletti nel '75 erano: Bonino, Faccio, Pannella, Mellini, nel '78 subentrarono: M. Galli, F. De Cataldo, R. Cicciomessere; P. Vigevano doveva subentrare a M. Mellini, ma la fine anticipata della legislatura lo impedì.

(278) Il gruppo parlamentare radicale organizzò un convegno di studio sui regolamenti parlamentari: gli atti sono raccolti nel volume, »Il Parlamento nella Costituzione e nella realtà , Giuffré, Milano, 1979.

(279) Cfr. »L'opposizione , "Notizie radicali", n. 74, 15 maggio 1979.

(280) "N.R.", n. 74, ibidem.

(281) Cfr. a cura del Gruppo parlamentare Radicale, »La battaglia sull'aborto . Roma, 1977, con il testo della legge approvata dalla C.d.D., il dibattito parlamentare e le dichiarazioni di voto dei deputati radicali e la proposta di legge del P.R.

(282) Nel 1977 i dirigenti del PR condussero un lungo digiuno, insieme con il gruppo parlamentare, per la riforma carceraria, e degli agenti di custodia - cfr. comunicato di MARCO PANNELLA su "Notizie radicali", N. 4, 8 febbraio 1977.

 
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