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De Martis Stefano, Calderisi Giuseppe - 17 gennaio 1993
"Spalancata la strada della Grande Riforma"
di Stefano De Martis

Peppino Calderisi racconta la storia segreta del referendum elettorale: "Così Martinazzoli, Amato e Cossiga hanno lavorato al nostro successo"

SOMMARIO: Giuseppe Calderisi, già deputato radicale, ricostruisce la vicenda della "leggina" che modificò il sistema elettorale del elettorale del Senato consentendo così la presentazione del referendum per il sistema uninominale. La polemica con Marco Pannella.

(IL TEMPO, 17 Gennaio 1993)

Una storia di trucchi, di alleanze segrete, di aiuti involontari, di colpi di fortuna. Ma anche della ostinata, quasi maniacale caparbietà di un deputato radicale, ora ex, che ha praticamente speso due anni di vita per una leggina, nota con il nome del suo promotore, il ministro Nicola Mancino, che è la chiave di volta della sentenza della Corte Costituzionale. E' in certo senso la vera storia dei referendum. Peppino Calderisi, pugliese del Gargano, 42 anni, occhiali spessi e barbetta da satiro, per la "causa" ha persino rinviato al limite del rischio un intervento chirurgico a un'ernia. Ha sfiorato la follia arrivando a giocare al lotto il numero di presentazione della proposta di legge in questione. E ora che la Consulta ha finalmente sciolto il nodo dei referendum (nella sua carriera lui ne ha escogitati e promossi ben 36), ha accettato di raccontare a IL TEMPO questo giallo politico-parlamentare.

»Si potrebbe scriverne un libro - esordisce - ma vorrei innanzitutto fare un'affermazione politica: è necessario che i referendum ammessi dalla Corte si svolgano nella prima domenica utile ai termini di legge, il 18 aprile. Questo Parlamento, infatti, senza la spinta della consultazione popolare non è in grado di varare una legge elettorale seria per entrambe le Camere. Il comitato promotore deve prendere un'iniziativa in questo senso chiedendo udienza al Capo dello Stato, ai presidenti delle Camere, del Consiglio, della Bicamerale .

D. - Come nascono, dunque, i nuovi referendum elettorali?

»Subito dopo la sentenza del 1990 con cui la Consulta bocciò i due referendum più importanti, quelli sul Senato e sui Comuni, i radicali ebbero una polemica con Segni. Noi non avevamo mai condiviso il quesito sulla preferenza unica, non solo per ragioni di merito, ma anche perché offriva alla Corte un modo per aggirare i quesiti più determinanti. Cercammo quindi un modo per rilanciare l'iniziativa sul Senato e i Comuni. Fu così che rispolverai una mia vecchia idea del 1978-79. Allora avevo studiato a fondo la legge sui referendum per esplorarne tutti i limiti e tutte le possibilità. E ottenni con una sentenza che la Corte costituzionale riconoscesse ai comitati promotori la figura di "poteri dello Stato". Non era però stato risolto il problema dei limiti temporali all'iniziativa referendaria in rapporto alla scadenza della legislatura. In pratica il periodo in cui la possibilità di deposito dei quesiti e la raccolta delle firme veniva bloccata per eventuali elezioni politiche risultava di fatto molto più lu

nga di quella esplicitamente prevista dalla legge. Tutti i referendari, Segni compreso, erano convinti che prima del '93 non sarebbe stato possibile raccogliere le firme, per poi votare soltanto nel '94. Il problema non era mai stato affrontato perché dagli anni Settanta in poi non si era mai arrivati alla fine naturale della legislatura. Il 5 marzo 1991 presentai un'interrogazione all'allora ministro dell'Interno Scotti, chiedendo di precisare quale via fosse praticabile: o si raccoglievano le firme nella primavera del '91, votando contestualmente alle elezioni politiche del '92, o la raccolta veniva effettuata tra l'autunno del '91 e l'inizio del '92, prima dello scioglimento delle Camere, andando a votare nel '93. Scotti rispose con scrupolo e tempestività il 20 marzo, accreditando la seconda ipotesi, lungo la quale ci siamo poi mossi. Lo stesso Segni mi ha dato pubblicamente atto dell'importanza di questo risultato .

D. - Ma come pensavate di risolvere i problemi giuridici posti dalla sentenza negativa della Consulta?

»Per i Comuni l'intervento da effettuare (togliere il cosiddetto panachage) era semplice. Il quesito sul Senato, nonostante i continui approfondimenti di autorevoli costituzionalisti come Galeotti, Chimenti, Barile, risultava sempre contorto: essendo il referendum di tipo abrogativo, non è facile lavorare di cesello su una legge elettorale per far sì che le parti restanti configurino un sistema coerente .

D. - Come entra in scena la legge Mancino?

»Per puro caso. Il 27 febbraio 1991 ricevetti una telefonata del senatore radicale Strik Lievers. Io allora ero capogruppo alla Camera. Al Senato, mi raccontò Strik Lievers, si stava discutendo una leggina che Mancino (allora capogruppo dc) cercava di far approvare da tre legislature. Essa modificava l'attuale sistema elettorale dei senatori, stabilendo che la base di calcolo non fossero più i votanti, ma i voti validi. Sembra una questione di lana caprina, ma attraverso il gioco delle schede bianche e nulle i candidati di uno stesso partito si fanno regolarmente la guerra tra loro. La modifica avrebbe quindi avuto un effetto moralizzatore. Strik Lievers si preoccupava però che potesse in futuro precluderci il referendum. Lo rassicurai ma, prima di mettere giù la cornetta, ebbi una folgorazione: quella legge si può cambiare per far meglio il referendum. Il mio interlocutore mi diede del pazzo, ma poi si impegnò al massimo. Era già scaduto il termine per la presentazione di emendamenti da parte di piccoli gru

ppi. Occorrevano otto firme. I quattro radicali chiesero una cortesia "tecnica" a colleghi di altri partiti: firmarono tre pidiessini (Galeotti, Pieralli e la proporzionalista Tossi Brutti) e il dc Tagliamonti. Relatore della legge era il dc Cabras che capì dove volevamo andare a parare e si espresse favorevolmente .

D. - Perché tanto interesse per la legge Mancino?

»Grazie a quell'emendamento, il testo della legge elettorale del Senato veniva riscritto in modo tale da mettere in evidenza il "trucco" con cui, su iniziativa di Dossetti, nel 1948 era stato aggirato l'ordine del giorno Nitti alla Costituente, che prevedeva per il Senato il sistema uninominale: l'introduzione di un quorum così elevato per l'elezione diretta - il 65% - da svuotare il senso del sistema. Sul testo così modificato era agevole intervenire con l'abrogazione: il risultato sarebbe stato assolutamente chiaro e lineare. All'inizio, peraltro, Mancino era all'oscuro di queste implicazioni. La legge fu approvata, ma attraverso mille traversie. Per due volte mancò il numero legale per un voto e molti, soprattutto nel Psi e nel Pds, la contrastavano sia per motivi di principio - si trattava di una "riformetta" - sia per timore di svantaggi personali nel momento elettorale. Neanche il terzo, e apparentemente definitivo voto, fu sufficiente, perché il giorno dopo ci si accorse di un errore nel computo del n

umero legale e l'approvazione fu annullata. Un caso senza precedenti. La legge fu riapprovata il 30 maggio. Ricordo che per convincere il socialista Acone dovetti dimostrargli, numeri alla mano, che sarebbe risultato eletto anche con le nuove norme .

D. - Pannella l'ha aiutata in questa operazione?

»Macché. Anzi, devo dire che tutta questa vicenda mi è costata proprio la rottura con Pannella. Fu a lui per primo, naturalmente, che offersi il "pacchetto" di possibilità insito nell'interrogazione a Scotti e nell'emendamento alla legge Mancino. Il 21 marzo, sempre del 1991, ne parlammo al convegno dell'Arcod, l'associazione dei radicali per le riforme. Ci mandò a quel paese. Secondo me non aveva interesse per un'iniziativa che aggregasse i radicali in un momento in cui già pensava a quella personalizzazione che avrebbe portato alla "lista Pannella". Soltanto quando, con Giovanni Negri, lanciammo i referendum Giannini per non lasciare tutto alla pur legittima leadership del cattolico Segni, lui tirò fuori gli altri quesiti per non rimanere isolato dalla mobilitazione referendaria. Per un periodo ho anche pensato di lasciare l'incarico di capogruppo alla Camera così da essere più libero, ma era un ruolo troppo importante per l'iter della legge Mancino. Ricordo che utilizzammo il grande potere che, nella sess

ione finanziaria, hanno anche i piccoli gruppi, non per ottenere benefici economici, ma per far inserire nel calendario parlamentare quel provvedimento. Fui io, peraltro, a salvare i referendum di Pannella (su droga e finanziamento dei partiti - ndr), che per due volte aveva sbagliato la formulazione e fu costretto a tornare una terza volta in Cassazione, sulla base delle mie osservazioni, per depositare i quesiti che poi sono andati avanti. E lui ha pensato bene di non invitarmi a questa operazione .

D. - Torniamo al 30 maggio 1991. Era in pieno svolgimento la campagna per il referendum sulla preferenza unica, e la legge Mancino doveva ancora essere approvata alla Camera.

»Sì, i giorni utili erano appena 30-35 e per di più né io, né Augusto Barbera, un altro protagonista di questa impresa, potevamo esporci per non far capire che cosa avrebbe comportato la legge a favore dei referendum. Fu una deputata del Pds, Silvia Barbieri, a battersi all'interno della Commissione Affari Costituzionali, sostenendo che la legge stava a cuore ai senatori... Figuriamoci! Ma il presidente della Commissione, il socialista Silvano Labriola, è uno che ha fiuto, e pur non cogliendo l'aspetto cruciale, sentì puzza di bruciato e fece di tutto per bloccare la legge. Al momento del passaggio in Aula, fu decisivo il contributo di Mino Martinazzoli, allora ministro per le riforme istituzionali. Ci aiutò a far inserire in calendario la legge e soprattutto a convincere il dc Ciso Gitti e il pidiessino Luciano Violante, vicepresidenti dei rispettivi gruppi parlamentari. Anche il capogruppo del Pri Antonio Del Pennino ci aiutò molto. Si arrivò così al 31 luglio, con il sottosegretario all'Interno Valdo Spi

ni, socialista, che si defilava ogni volta che arrivava il momento di svolgere la replica alla discussione in Aula. E la legge slittava. Eppure al Senato lo stesso Spini, che pure a mio avviso sapeva del senso delle nuove norme, non ci aveva creato problemi. Sta di fatto che telefonai a Scotti chiedendo di mandare un altro sottosegretario. Ma non fu necessario. Il giorno dopo, l'ultimo utile, Spini si presentò. Alle 15,30 del primo agosto mancò il numero legale: fortuna volle che quello stesso pomeriggio fosse in votazione anche un importante decreto fiscale, così che furono richiamati in fretta e furia i membri del governo e i segretari di partito. La legge fu approvata anche grazie a Craxi e Forlani. Ma il numero di persone a conoscenza dell'operazione si era molto allargato .

D. - Ormai, però la legge era stata definitivamente approvata.

»Sì, ma il capo dello Stato doveva ancora promulgarla. Segni commise l'errore di annunciare in anticipo rispetto agli accordi i nuovi referendum e i resoconti delle agenzie di stampa svelarono i retroscena della legge, anche perché Pannella, ai giornalisti che avevano pubblicato la notizia, raccontò che quelle di Calderisi non erano preoccupazioni, ma paranoie. Qualcuno, poi, pensò di telefonare direttamente al Quirinale. Cossiga, ben lieto di bocciare una legge che portava il nome di Mancino, la rinviò alle Camere .

D. - Se i giochi erano ormai scoperti, come faceste a ripartire con l'iter della legge?

»Al Senato si impegnò lo stesso Mancino, che però riuscì a far approvare la legge soltanto dopo la Finanziaria, il 18 dicembre. Alla Camera, a fine legislatura, i tempi erano ancora più stretti dell'altra volta. Barbera ebbe un'idea: parliamone con Amato, che allora era vicesegretario del Psi. Questi si mostrò disponibile. Penso ritenesse probabile che, nella nuova legislatura, i socialisti avrebbero cambiato posizione sulla legge elettorale. Amato si disse interessato a reintrodurre la possibilità di esprimere la preferenza con il numero, abrogata con il referendum del 9 giugno, adottando comunque dei correttivi anti-broglio. Forse era preoccupato, come capolista nella propria circoscrizione elettorale, di essere svantaggiato dal nuovo sistema. D'accordo con Segni e accertato che i correttivi fossero tali da non vanificare lo spirito del referendum, mi impegnai a presentare un emendamento nel senso indicato da Amato, in cambio del suo appoggio alla legge Mancino. I referendari, ignorando l'accordo e pensand

o che fossi un traditore, mi volevano quasi fare la pelle. Amato convinse Labriola, ma poi dovette fare marcia indietro per la rivolta di molti "peones" socialisti. Ma a quel punto la legge non poteva più essere fermata. Venne approvata il 16 gennaio 1992, anche se con una piccolissima modifica, che in teoria avrebbe offerto a Cossiga il pretesto formale per rinviarla nuovamente alle Camere .

D. - Perché, invece, la firmò?

»Beh, la motivazione sarebbe stata davvero indifendibile, nella sostanza. Segni, comunque, mandò al Quirinale Giuseppe Zamberletti, grande amico suo e di Cossiga, per perorare la causa della legge. Era una domenica sera, il 19 gennaio. Alle 19,30 squillò il telefono in casa mia. All'altro capo del filo - l'accento non lasciava dubbi - c'era Cossiga. Ricordo perfettamente quello che mi disse, con tono chiaramente scherzoso: "Peppì, ho qui prostrato davanti ai miei piedi l'onorevole Zamberletti. Peppì, stai tranquillo, appena mi arriva la promulgo. Ciao. Buon Anno"

 
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