Radicali.it - sito ufficiale di Radicali Italiani
Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani
cerca [dal 1999]


i testi dal 1955 al 1998

  RSS
ven 22 nov. 2024
[ cerca in archivio ] ARCHIVIO STORICO RADICALE
Archivio Partito radicale
Sofri Adriano, Pannella Marco - 20 gennaio 1993
I radicali hanno un passato. Hanno un futuro?
Un'intervista di Adriano Sofri a Marco Pannella

SOMMARIO: Il congresso del partito radicale si svolge nei giorni di Sarajevo e della Somalia, della fine del regime politico italiano del dopoguerra. Che titoli hanno i radicali per misurarsi con questa situazione? E che mezzi? Ex-Iugoslavia - Abbiamo proposto ad Amato tre cose: riconoscimento della Macedonia, rappresentanza del Kossovo a Roma, tribunale internazionale sui crimini di guerra. Pacifismo - La lettura del pacifismo è univoca: nelle catastrofi, nelle mostruosità del secolo esso ha pesato tragicamente a vantaggio dei dittatori e a costo degli oppressi. Processo al palazzo - Nell'agosto del 1974 chiesi un "processo penale e non morale" al potere. Pasolini se ne entusiasmò e rivendicò a sua volta il processo al Palazzo.

Siamo stati soprattutto un partito di nonne. Perché non pensare all'innocenza come saggezza, come qualcosa che si conquista nell'arco di una esistenza piuttosto che come una qualità originaria?

(IL PARTITO NUOVO, numero 1 del 20 gennaio 1993)

SARAJEVO

SOFRI - Tu e il Partito Radicale vi siete impegnati tempestivamente sulla Jugoslavia, avete visto precocemente lo sfaldamento dell'unità, avete cercato di commisurare la vostra azione sulla scala di quel terremoto, avete ammonito l'Europa a giocare la propria parte finché ce ne fosse stato il tempo. Noi parliamo mentre Sarajevo è assediata e affamata, e ci auguriamo che il suo sindaco venga ad aprire il congresso radicale a Roma il 4 febbraio.

PANNELLA - Ho proposto ad Amato di fare, nella sua autonoma responsabilità, e informandone prima Scalfaro, se crede, e non altri, tre cose. La prima è il riconoscimento della Macedonia. Quando c'è un aggressore e un aggredito, si può soccorrere l'aggredito, aiutarlo, armarlo; soprattutto si può e si deve attaccare e disarmare l'aggressore. La Grecia protesterà, correrà qualche parola grossa, ma si compirà un atto definitivo e stabilizzante. E l'Italia potrà a sua volta interporre i buoni uffici per un dialogo fra greci e macedoni. Sulla Macedonia poi si arriverebbe comunque in ritardo, se è vero che lo stesso Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha votato, sia pure con una maggioranza risicata; e non sembra che vi saranno veti. La seconda proposta è di riconoscere, allo stesso titolo che la rappresentanza dell'OLP, un rappresentante a Roma dei delegati eletti ed esautorati del Kossovo, rompendo il tabù della "provincia della Serbia". La terza è che il governo italiano si riservi di presentare entro venti giorni,

un mese, all'Onu, alla Cee, alla Csce e al Consiglio d'Europa, lo studio e la proposta di propri giuristi per avviare l'incardinamento dei processi per crimini di guerra nell'ex Jugoslavia. Sarebbe la prima uscita formale dalla politica del patto di Monaco degli anni '30, la più forte affermazione di appartenenza europea, e un contributo concreto ad attrezzare la riforma dell'Onu.

DISARMARE L'AGGRESSORE

SOFRI - Alla conferenza tenuta a Sanremo fra pacifisti della ex Jugoslavia ed europei sono stati gli stessi militanti del Centro antiguerra di Belgrado ad auspicare la formazione di una Corte internazionale sotto l'ombrello dell'Onu e della Csce. Un simile organismo potrebbe diventare, a differenza di quanto avvenne a Norimberga, un tribunale permanente contro i crimini di guerra. E intanto anche un solo paese, come l'Italia, potrebbe decidere di prepararne e anticiparne l'operato aprendo un registro delle denunce e delle testimonianze.

La guerra nell'ex Jugoslavia ha accentuato una rottura con associazioni pacifiste, benché fra queste ultime si siano fatte strada posizioni più duttili e decise a confrontarsi con le situazioni concrete. Peccato, no?

PANNELLA - Siamo alla fine di un secolo, e all'ora dei bilanci. Uno che ha l'età del secolo è Karl Popper, la cui opera principale, "La società aperta e i suoi nemici", in Italia restò pour cause inedita per quasi mezzo secolo, fino al 1974, quando uscì da Armando.

Cinque anni fa ne avevo letto l'apologia dell'uninominale a un turno anglosassone. Ho scoperto da poco, grazie al libro intervista del vicedirettore dell'Unità, Giancarlo Bosetti, che questo ultraliberale è anche uno studioso appassionato della nonviolenza e di Gandhi. Ricordo viceversa lo sconcerto che provai quando Dahrendorf mi comunicò candidamente di non aver mai pensato che ci fosse una distinzione fra nonviolenza e pacifismo.

La lettura del pacifismo è univoca, e se ne traggano le conseguenze: nelle catastrofi, nelle mostruosità del secolo esso ha pesato tragicamente a vantaggio dei dittatori e a costo degli oppressi; a vantaggio degli stati totalitari militaristi e contro le democrazie da riarmare; è stato un fattore psicologico influente della politica di Monaco, e dell'avversione all'Occidente. E' stato portatore di atteggiamenti messianici e irenici, Gandhi era altra cosa. Ho trovato in uno scritto di tuo fratello l'affermazione gandhiana che la violenza per una causa giusta è più lodevole di una vile adesione all'ingiustizia.

Sul Golfo alcuni di noi dissero, soltanto a operazione iniziata, che non ritenevano negativo che l'Italia partecipasse. Questo, e non altro.

Mi pare che la Jugoslavia e il Medio oriente dimostrino che i guai peggiori succedono per l'inadeguatezza dello strumento militare, la cui sofisticazione tecnologica non lo rende meno rozzamente unilaterale, e che tuttavia si continua a ritenere il solo possibile. Tanto più quando si deve mettere insieme la schematicità di un piano militare con le montagne della Bosnia o del Montenegro, invece che coi deserti della Somalia. Come Bruno Zevi non si stanca di ripetere, la nostra società ha superato la linearità per la complessità. Le opzioni militari restano invece sempre un eccesso di zelo della linearità. La forza delle armi, la loro presunta "intelligenza", sono una cruna d'ago troppo stretta per farci passare i problemi del mondo. Se le armi prevalessero sulla verità - l'informazione, l'istruzione, la cultura - alla fine del secolo i poveri fantasmi di oggi sarebbero antagonisti irriducibili.

Il diritto all'ingerenza, di cui si comincia a parlare, è da anni un cardine della nostra azione. Nell'appello dei premi Nobel del 1981 era già teorizzato il dovere dell'ingerenza.

PACIFISMO E NON VIOLENZA

SOFRI - Ho letto anch'io il Gandhi citato da mio fratello, che deplorava una nonviolenza che fosse frutto di codardia. Tuttavia è impossibile ogni ricorso univoco a Gandhi. Alcuni pacifisti gli chiesero spiegazioni e contro delle circostanze in cui accettò l'entrata in guerra - nella guerra anglo-boera, o contro gli zulù, o l'intervento indiano con l'esercito britannico nel '14-'15.

Secondo i suoi migliori biografi, la vera scelta per un pacifismo intransigente, assoluto - per lui il pacifismo era l'estensione ai rapporti internazionali della nonviolenza - non venne se non nel '35-'36. Sarebbe impossibile utilizzare direttamente il Gandhi, se non di Monaco - l'Europa ha venduto, disse, la sua anima per un tozzo di pane - della risposta al nazismo e della seconda guerra mondiale. Mi pare che la distinzione fra pacifismo e nonviolenza venga dopo e abbia a che fare con il pacifismo come movimento ideologico, o appendice di schieramenti politici. Sulla Bosnia, oggi, se ci sono posizioni di principio che escludono ogni intervento militare - come quelle dei "Beati costruttori di pace", autori recenti di un ammirevole pellegrinaggio a Sarajevo - c'è molto più diffusa, anche se più o meno dichiarata, una disponibilità ad affrontare il problema delle condizioni concrete di un ricorso alla forza, da parte di chi, con quali fini e quali rischi e così via. L'eventualità di un intervento internazion

ale per aprire i corridoi di accesso, e di uscita, da Sarajevo; o per colpire aeroporti, installazioni di armamenti pesanti, linee di rifornimento e di comunicazione da cui muovono gli attacchi e i bombardamenti ai civili; tutto ciò non viene affatto respinto da gran parte dei "pacifisti" europei. Forse occorrerebbe mirare a un confronto più largo e produttivo di iniziative concrete. Voi siete stati fra i primi, se non i primi, ad andare in Jugoslavia, e contate oggi su una fiducia importante anche da parte di esponenti musulmani. Ho visto anzi che complessivamente fra gli iscritti stranieri al Partito Radicale c'è un venti per cento di musulmani, che è una proporzione notevole per sé, e ancora più notevole per una formazione che non accetta compromessi sulla confusione dell'antisionismo.

PANNELLA - Dal '79 siamo andati ogni anno in Jugoslavia; incontravo gli sloveni, i croati. Il Partito Radicale è stato il primo partito cui fosse possibile iscriversi in Jugoslavia al tempo del monopolio di fatto della Lega dei Comunisti: e si iscrissero in 5-600. Quando emerse la volontà slovena e croata, di indipendenza non più in una federazione, ma in una Confederazione associata alla Cee, e venne un no assoluto, ultrabelgradese, da De Michelis, dalla Cee, noi dicemmo che bisognava accettare, e che intanto si dovessero accogliere a titolo intero le repubbliche che avessero garantito i diritti civili e umani. Ci vietarono il congresso a Zagabria - fu in parte una fortuna, andammo a Budapest. Nel 1988 i giovani socialisti di Slovenia accolsero in loro strutture pubbliche il nostro Consiglio Federale, in aperta ribellione al divieto di Belgrado. Fui l'unico politico straniero nella Lubiana minacciata dai bombardamenti. A Zagabria il presidente del Consiglio Greguric e il vicepresidente Tomac si iscrissero p

ubblicamente al partito, e con loro 4 ministri, 40 deputati. Tutto ciò ha contato quando si è trattato di far scegliere al presidente Tudjman contro gli ustascia e l'estrema destra. Avevamo digiunato per loro, eravamo stati gli unici amici su cui potessero contare in Europa: e ci furono momenti in cui i più consapevoli fra loro poterono far pesare contro le scelte più brutali l'avvertimento che sarebbe costato la rottura con noi. Così nel momento delicatissimo in cui si giocava l'accordo con la Serbia per spartirsi tutta la Jugoslavia. Adesso sono stati sconfitti, quei nostri amici, ma per fortuna troppo tardi per tornare indietro. Sull'uniforme croata che indossai c'era il mio nome, l'aveva ricamato per me la moglie del comandante delle Forze armate croate.

C'era già chi, da una vita trascorsa a Belgrado, ci diceva: faranno peggio che nel '44-'46, si scanneranno.

SOFRI - C'è tuttavia il rischio che la conferenza di Ginevra finisca nel modo peggiore, e non del tutto dissimile dalla Monaco del '38, con un'autorizzazione internazionale a punire i Bosniaci che non si adattino alla spartizione etnica. E c'è il rischio che l'accordo fra Croazia e Serbia riaffiori sulla pelle della Bosnia.

PANNELLA - Ginevra va bene, si dialoga anche, anzi soprattutto con gli assassini, ma che sappiano che è già incardinato il processo che perseguirà ciò che hanno fatto e ciò che faranno. Ma il piano stesso elaborato da Owen e Vance a Ginevra, quello delle 10 province, è gravissimo. Mira in sostanza a riportare a un 40-45 per cento il 70 per cento del territorio occupato dai serbi. In quei territori vigeva fino a poco fa la coesistenza etnica.

Abbiamo insistito da tempo sulla necessità di un accurato censimento dei profughi, con i luoghi di provenienza e le minoranze di appartenenza, perché si ricostruisca l'anagrafe distrutta per il giorno del ritorno.

IL PROCESSO Al PALAZZO

SOFRI - E' proverbiale l'ostinazione con cui tu rimanevi in città in agosto, perché nella vacanza universale era più facile conquistarsi uno spazio nei media. Così, addirittura a metà dell'agosto del 1974, strappasti a una sonnacchiosa direzione del Corriere della Sera l'ospitalità, sia pure in un minuscolo corpo 7, a un articolo che proponeva un "processo penale e non morale" alla classe politica. Pochi giorni dopo, Pier Paolo Pasolini, eccitato dall'idea, la riprese e, col risalto della prima pagina, la rilanciò: il processo al Palazzo. Sono passati quasi vent'anni, e il processo penale al palazzo è arrivato: quanto simile e quanto diverso dalla profezia-anatema di allora?

PANNELLA - Non me ne ricordavo più, di aver proposto una cosa così essenziale: a tal punto la memoria si fa intermittente. La censura e la rimozione altrui fanno sì che anche per te la tua immagine si allontani dalla tua identità vera, e questo è terribile.

Il processo penale è in corso, anzi è appena agli albori, se si bada, prima e più che al furto di denari, al furto di legalità. C'è un mancato rispetto per le regole che è istintivo, naturale piuttosto che doloso, frutto di un'abitudine, una mentalità, una cultura che assimilano largamente al ceto politico gli uomini del terzo e del quarto potere, i giudici e gli attori dell'informazione. A questa cultura e alle sue sottospecie lo stato di diritto è estraneo più che bestemmiato, i principi liberali ignorati più che deliberatamente offesi. Li incontrano da una parte come una nozione astratta e inutile, dall'altra come un impaccio pratico e un fastidio: li chiamano garantismo, e hanno fretta di sbarazzarsene.

E' bene che si perseguano i furti e le loro destrezze maggiori o minori, ma è decisivo che si restauri, o si instauri, la regola del non rubare, e del creare, dell'aggiungere, piuttosto che del rubare. Anche per questo il primo addebito da contestare dovrebbe essere l'associazione per delinquere. Molti magistrati, e moltissimi giornalisti, sono attenti solo alle private disonestà; l'omissione del reato di associazione riduce alla loro somma decisione politiche (e di vita) che al contrario inducono infinite disonestà anche negli onestissimi. E' una scelta di politica giudiziaria, tendenzialmente omissiva: tiene sotto gli uomini contro cui si batte, o il potere cui appartengono, con meccanismi di distruzione-sostituzione dell'avversario. Sento aleggiare attorno ad alcuni alti magistrati la destinazione imminente a governare, ormai da ex-giudici, la cosa pubblica. E' un paradosso: ma può avvenire da noi in questa forma un fenomeno affine al ruolo populista e giustizialista dei militari in America del sud o in g

enere nel Terzo Mondo, che fa passare quei regimi dalla padella della democrazia fittizia e corrotta alla brace delle giunte di salute pubblica.

Al "processo" che nel '74 chiesi, e chiese poi magistralmente Pasolini, era estraneo ogni impulso di giustizia sommaria e di strada. Quel processo noi abbiamo lavorato a incardinarlo, con atti concreti e rituali, anno dietro anno. Anche questo si rischia di dimenticare. Come quando dopo la campagna elettorale del 1983 - "non votateci", dicemmo, perché i dadi sono truccati, perché senza conoscere non si può deliberare; partecipiamo solo per denunciarlo - fummo assenti il giorno dell'apertura della legislatura, perché eravamo in tutte le procure generali italiane a presentare e illustrare denunce formali di attentato alla Costituzione e sequestro di legalità da parte del potere di fatto.

E non avevano a che fare col "processo", col suo incardinamento, le questioni sottoposte alla Corte Costituzionale, ridotta troppo spesso a un tribunale speciale di tutela del regime e non della legge? Sulla scia dei processi provocati, la Corte arrivò bensì, sotto Branca, e ancora con Bonifacio, alla demolizione dei codici fascisti. Ma quanto più regolarmente avallò poi convenienze politiche, dalle emergenze all'"ondata referendaria", o alle pensioni, per le quali una "incompatibilità economica" magari plausibile (l'equivalente del sostanzialismo delle emergenze criminali ecc.) soppiantava la legge, invece di modificarla, o rispettarla? Così fino al referendum sul Senato respinto tre anni fa: si sarebbe votato già col sistema misto, dei due terzi con l'uninominale all'inglese, un terzo con la proporzionale - oggi ormai inadeguato, ma allora ancora capace di far da ultimo atto a un trapasso non traumatico del regime; respinto allora sulla base di motivazioni ogni volta estemporanee, e accolto oggi. Senza il

voto determinante di Conso, neanche il referendum sulla preferenza unica sarebbe passato.

UNA LUNGA STORIA E L'INTELLIGENZA CHE NE VIENE DI FRONTE A UN POTERE CHE FINISCE

SOFRI - Dunque, tu rivendichi l'intuizione precoce del "processo", la sua metodica "incardinazione" negli anni, il primato della legalità. Ora, il processo reale è arrivato così tardi, e a ridosso di una tale alluvione di "sostanza", di furti e di roba, da soverchiare o far trascurare le regole. La tua posizione rischia di apparire, nonostante i precedenti, sospetta di una solidarietà postuma col vecchio regime. A te, e alle tue mani pulitissime, il vecchio regime potrebbe essere tentato di offrire una specie di globale segreteria onoraria, da spendere, se non per la sua conservazione, almeno per limitare i danni. D'altra parte, se le nuove formazioni politiche vanno per le spicce con le idee e le parole, non sei forse tu, coniatore di formule estreme - la partitocrazia, l'ammucchiata, lo sfascismo - e di parole drastiche, ad avere preparato loro la strada?

PANNELLA - Intanto sono meno persuaso di te della solidità e della crescita ulteriore delle formazioni politiche che hanno cristallizzato la psicologia della rivolta. Qualche mese di informazione seria ne farebbe afflosciare la novità, per inadeguatezza: esse riempiono un vuoto di dialogo, di lotta. Si costituiscono un ambiente che rifugge dalle discussioni vere, dai contraddittori - gli attacchi sì e i più virulenti: ma mai i dibattiti. Hanno bisogno di essere soli. Traggono conforto dall'anatema e coraggio dall'isolamento. Che noi stiamo a cavallo fra due schieramenti, che finiamo tirati di qua e di là, non mi sembra davvero un rischio. Ricordati per cominciare che questa sensazione non è nuova, né effetto degli anni che passano. Ci fu rinfacciata anche nel '68-'69, quando a qualcuno apparimmo appartati, e condannati a ruoli di fiancheggiatori o mosche cocchiere o anime belle strumentalizzabili, finché non apparve come avessimo tenuto e preparato la via maestra: così nella parabola che portò dal voto parla

mentare sul divorzio, nel 1970, alla sua conferma nel referendum, nel 1974. Come ci eravamo arrivati, al '68? La nostra controinaugurazione dell'anno giudiziario - "2 grammi di hashish 2 anni di carcere" - è del gennaio 1965. Per anni, ogni settimana riportavamo in sede il nostro carniere di una decina di denunce ricevute per affermare i diritti, di manifestare, di circolare. E venivano i processi, e segnavano ciascuno un traguardo: si può camminare in 30 in fila indiana; per manifestare pubblicamente occorre notificarlo, e non chiedere permessi; e così via. Era la nostra clamorosa provocarietà legalitaria. Sull'Enel, la giustizia, Cefis, Mattei, con le cifre: e più grosse, guarda, rivalutazione fatta, di quelle attuali di Tangentopoli. Nel '63 eravamo molto meno numerosi dei monarchici, quando manifestavamo per il loro diritto a manifestare davanti a Montecitorio. O quando il partito repubblicano espulse Pacciardi "fascista", e ci proponemmo di digiunare per il suo diritto di parola, e presentammo denunce c

ontro la congiura del silenzio che gli si chiuse addosso: e Dio sa se eravamo suoi avversari. Nel '64, quando il Parlamento soppresse quatto quatto l'arresto obbligatorio per il peculato di distrazione, e protestammo contro la "Repubblica fondata sul peculato". Quando, con la sola compagnia di Umberto Terracini, unico a votare contro la reintroduzione della legge sull'Ordine dei giornalisti e la responsabilità dei direttori iscritti all'Albo, intraprendemmo una sistematica campagna di disobbedienza civile, Spadaccia, i Rendi, io. Fummo responsabili dei più vari fogli e foglietti, dell'Umanità Nova del grande Armando Borghi, del trotskista Bandiera rossa di Maitan, del primo Falce e martello ciclostilato di Brandirali, fino alla direzione di Lotta continua, con Pasolini e tanti altri. Non eravamo "seri", non ci occupavamo abbastanza di operai e di contadini, di economia... C'era attorno a noi un pullulare di imprese e di firme, da Bordiga all'underground agli obiettori di coscienza. Il mio primo articolo sul

l'aborto è del gennaio del '68, ma sull'aborto avevo presentato una mozione di minoranza al congresso radicale del '61!

Bene, in tutto questo lungo e paziente itinerario noi eravamo, per i più, proprio "a cavallo", ibridi senza autonomia: per gli uni, rappresentanti delle contraddizioni borghesi, dunque, potenzialmente, "i peggiori"; per gli altri, complici dei comunisti. Andammo avanti, recuperammo noi alla politica il nome glorioso delle Leghe - sopravvissuto solo stancamente nella Lega delle Cooperative - passammo per drogati, per strani, per froci, in due o trecento persone - pochi, ma abbastanza per rendere improprio parlare schematicamente della "generazione" del '68: e di noi nel '68 e nel '69 i testi scolastici continuano a non fare parola - fuori dal Parlamento costruimmo il processo parlamentare che doveva portare al divorzio, con un giornale come ABC coinvolgemmo le masse, le nostre masse fatte anche di gente con le vene varicose. Ingrao, ancora lui, incredulo in tutto ciò che noi muovevamo come "sovrastrutturale", ostile a che il Parlamento accogliesse quei temi, quando poi un giorno vide la Camera votare, e da un

lato tutta la Dc e il Msi di Almirante, senza assenti, e dall'altro noi tutti, e la vittoria nostra per sei voti, ammise di essersi emozionato. Era il 1967, missini e democristiani avevano sollevato la pregiudiziale di incostituzionalità per impedire l'avvio alla legge Fortuna-Baslini. Anni prima di vincere nel referendum noi, gli extraparlamentari, i referendari, avevamo avuto la maggioranza in quel Parlamento.

Non rivado con tanta maniacale intensità a questa storia per prolissità, o vanità araldica: questa storia continua a operare in noi. E' come se una combinazione di ciò che è stato pre-visto, di ciò che è stato auspicato e di ciò che è stato combattuto - oltre che della sorte - ci dotasse di una intelligenza di ciò che accade e che può o non può essere fatto. Questa intelligenza - lo dico per renderne più chiara la modestia effettiva - sta alla nostra vita come la "disonestà" sta alla classe dirigente che cade. Colposa per lo più disonestà in quest'ultima, immeritata in noi l'intelligenza delle cose, si traduce nella spinta e nella possibilità di governare quello che accade. Questo ha a che fare con la misura, la moderazione che evocavi come una nostra evoluzione attuale, e insieme con la responsabilità che avrei avuto nel gioco al rincaro degli anatemi verbali. Stavo ascoltando l'altro giorno alla Camera un giovane deputato della Rete di Siracusa, lo sentivo gridare "LADRI di giustizia!" e così avanti. E rip

ensavo allo scandalo della prima volta in cui avevamo pronunciato in tv la parola: aborto. Mi ricordavo l'esordio di Emma Bonino e mio stesso, nel '74: "Noi abortisti, drogati, omosessuali, traditori della patria", e a ognuna di quelle parole corrispondeva un'infamia, un processo, un'indegnità subita. Tanto allora avevano fatto male e scandalizzato gli altri e noi quelle parole, quanto ora suonavano come la scappatella di un bravo ragazzo le invettive del giovane deputato della Rete.

Il problema è quello di un potere che finisce. Gli stessi regimi totalitari e feroci cadono quando si liberalizzano, si illudono di un'evoluzione, e la piazza plebea che si scatena in una sera riempie il suolo delle cimici che ancora la mattina aveva all'occhiello. Senza la responsabilità dei cittadini comuni questo meccanismo è sempre pronto. Per questo dicevo alle piazze mobilitate dei mesi scorsi: autobullonatevi, prima di bullonare i vostri capi, da voi eletti e tenuti lì per vostro conto. C'è una parte, sottomessa o interna che sia a un regime, che tende a diventarne erede finendolo, come a piazzale Loreto. Ho parlato per anni di un antifascismo del dopoguerra che non era erede dell'antifascismo, bensì del fascismo.

LE SETTIMANE CHE CI ASPETTANO

PANNELLA - Tangentopoli passerà da una decina a una ventina di Procure della repubblica. Arresti da prima pagina andranno in nona per ragioni di spazio.

Frana tutto. Ci sono suicidi. In questo terremoto esploderanno entro marzo conflitti sociali aspri, vissuti con grande autenticità di sofferenza e di allarme, ma con interpretazioni subalterne e inadeguate. Con quella cultura di tutti che fino a poca fa presentava come grandi conquiste sociali le pensioni a 40 anni, a 45 anni. Occorrerebbe un senso del dramma, ed è quello che più manca, per evitare che questa tensione sociale porti a un ciclo di repressione e di attacchi e a un ulteriore incattivimento. Il Tg3 e la sua piazza, metà popolo metà corte dei miracoli, opposta all'inadeguatezza di coscienza di tutte le autorità, e alla portata del deficit. Chi deve metterci una pezza al giorno non può farcela, e d'altra parte non può farcela un mondo politico dominato dalla paura. Orlando lo dice, che ha paura, di essere ammazzato, della morte. Ma, senza dirlo e guardarla in faccia, il Parlamento intero è spaventato.

Ci sono grosso modo tre tipi di politici emergenti. Il primo è Segni, uomo di una sola disciplina, perbene, senza altra esperienza, passione, formazione. Il secondo sono i tecnici del governo, dalle Usl ai ministeri, che sono, la gran parte, gestori del potere e delle repressioni. Il terzo sono i monodisciplinari della denuncia, della rivolta, dell'anatema e della presa della Bastiglia, magari vuota. Io penso che in questo punto venga fuori la nostra esperienza di fomentatori di diritto, la nostra attenzione al governo istituzionale e giuridico, l'esperienza del momento referendario unita alla consapevolezza che di per sé è nullo; che determinante è il trittico del diritto e della nonviolenza; del referendum; e delle istituzioni, del parlamento. Un paio di centinaia di persone , più o meno, che hanno governato pochi soldi per grandi aspirazioni, che hanno imparato a far fruttare le comunicazioni, e che hanno accumulato anche capacità in grande, alcuni andando altrove, altri restando da noi. Mi sento ripetere

, negli ultimi tempi, un ritornello che per scherzoso che sia, diventa perfino imbarazzante: dovresti fare il segretario della Dc, del Psi, il ministro di questo e di quell'altro. Se accettassero piuttosto di prendere in considerazione Emma Bonino e Marco Taradash, Roberto Cicciomessere e Adelaide Aglietta, Gianfranco Spadaccia e Giovanni Negri... Non parlo del primo segretario radicale, Sergio Stanzani, il primo, con Franco Roccella, che incontrai sedicenne, io studente, lui presidente dell'Unuri. E i tanti che fanno la loro parte altrove, come Rutelli o Corleone fra i Verdi. Fra i dirigenti di oggi, il gruppo "storico" copre solo il 6-7 per cento: indizio provvisorio ma significativo di una riuscita.

L'ESTREMISMO SENILE, I GIOVANI TACITURNI, E LA TERZA ETA' RADICALE

SOFRI - Io vengo da anni troppo pregiudicati per aver voglia di pronunciarmi sulla vita pubblica italiana. Ma sono stato colpito sempre di più dall'emergere inarrestabile di un sentimento, di un risentimento, che chiamerei, non per il gusto di una formula facile, estremismo senile Dell'estremismo ha la drasticità, la semplificazione, la voglia di fare piazza pulita - un'estensione contagiosa di uno spirito da tassista anziano: ci vorrebbe una bella bomba sotto a Montecitorio...All'opposto dell'estremismo giovanile cui appartenni, soprattutto della sua fase iniziale, questo è chiuso, sfiduciato, spesso vendicativo e incattivito, più attaccato al piccolo piacere di "fargliela pagare" (naturalmente se la sono cercata) che alla fiducia cordiale di cambiare il mondo e se stessi. Questo sentimento avaro si è cristallizzato in formazioni politiche nuove e per altri aspetti molto diverse, ma ha anche impregnato formazioni e ambienti tradizionali. L'esagerazione cercata e insieme spuntata del suo linguaggio è diventa

ta il tono dominante dei mezzi di comunicazione, anche i più compassati: ha unito un presidente della repubblica a suoi strenui avversari, decani del giornalismo a studiosi fin li appartati. Questo estremismo senile può avere fisionomie e gesti ignobili o nobili, il professor Miglio o il giudice Caponnetto, ma è sintomo di una condizione comune profonda e piena di conseguenze. Certo è una reazione e una manifestazione del trapasso di regime. E' anche, a mio parere, una causa di quella scarsa visibilità dei giovani, di una loro mancata presa di parola, che scioccamente si attribuisce all'adesione a valori d'ordine e di comodità - come se i primitivi sondaggi della vigilia del '68 non presentassero una generazione di studenti tutti scuola casa e chiesa. L'ansia pubblicitaria di riproporre alle generazioni successive di ragazzi un impossibile (mi auguro) "nuovo '68" ha giocato anch'essa una parte nella messa ai margini dei giovani - e nella reciproca scelta di tanti ragazzi in gamba di starsene altrove, com'è s

uccesso nel volontariato ravvicinato che è stato la qualità più preziosa degli altri anni '80. Ma l'estremismo senile è invadente, esso schiaccia e contraffa' il diritto dei giovani a un'interpretazione fresca e radicale del mondo, e a una distanza da quello che gli adulti ne hanno fatto. Non penso né a regole biologiche né sociologiche. Penso che i giovani hanno di fronte una generazione di adulti che è stata allegramente travolta dall'idea di arricchire e vantarsene di fronte alla prima telecamera, e penosamente travolta, mezz'ora dopo, da un avviso di garanzia e dalla perdita di reputazione, della faccia, che nel villaggio globale è tornata ad essere il valore principale, eclissando il confronto con la propria coscienza su cui per un migliaio e mezzo di anni si erano costruite la morale e il senso di colpa. Adulti che si ammazzano perché non possono più guardarsi nello specchio del teleschermo o dei dirimpettai; oppure non si ammazzano, fanno i nomi dei propri amici colleghi e parenti e ripartono da zero

come conduttori televisivi, Contro questo ceto di uomini adulti e maturi tuonano con sdegno vero e retorica demagogica uomini vecchi e vecchissimi, inflessibili e pronti a descrivere il mondo come il più oscuro dei complotti, la più fraudolenta delle truffe, la più ribaltabile delle volgarità. I giovani accorrono numerosi o no, votano per gli uni e per gli altri, gremiscono le aule in cui il mondo viene loro spiegato, prendono appunti - e stanno zitti. Premono in un punto o in un altro, ma senza rompere il guscio. Naturalmente niente è casuale, e nessun moralismo compensa i motivi profondi che fanno esplodere un movimento nutrito, piuttosto che da solidarietà remote e avventurose simpatie, da un astio fiscale e una disgustata insofferenza per i forestieri di ogni risma. Parole d'ordine secche come slogan da stadio, e una promessa più o meno imminente di autorizzarli a menare le mani; questa una delle offerte più consistenti del mercato civile attuale ai giovani. Ora, in questo vario ma trasversale estremismo

senile io vedo l'attenuazione, se non la rimozione, del conflitto fra generazioni che, eccessi o no, alimenta la vivacità di una società; e la subordinazione dei giovani, caso mai, ad un conflitto interno alle generazioni maggiori. E ci vedo un riflesso allarmato della più forte diversità fra i nostri anni e la fine dei '60, fra l'arrivo allora all'età della ribellione dei figli del boom demografico, e la longevità combinata sul crollo della natalità dei nostri giorni. L'Italia, che è arrivata tardi a questa tendenza matura, se ne è rivalsa come al solito con gli interessi, e registra record di longevità e di rarefazione giovanile, e manifestazioni psicologiche febbricitanti di quella inversione. Ai nostri anziani, che abbiano un potere o lo applaudono e lo fischino - o gli tirino le pietre, anche per questo il limite d'età è salito di molto - i nostri ragazzi non appaiono né interlocutori interessanti né una losca minaccia. I giovani cui molti fra loro pensano, o che intravvedono come fantasmi notturni, ha

nno facce albanesi ed extraeuropee, di asiatici e di africani: sono del mondo in cui la maggioranza della gente ha meno di quindici anni. Chiusa, o sospesa, la partita italiana, o europea, fra vecchi e giovani, essa si gioca sottilmente e brutalmente fra le nostre società vecchie e le loro giovani. Davvero rovesciato, qui, il '68 giovanile innamorato del sud, del sole e del Terzo mondo è diventato un primo mondo spaventato, gretto, scostante per ora e pronto fra un po' al peggio.

PANNELLA - Non dubito che esista una peculiarità della condizione giovanile, ed è ragionevole il tuo modo di vederla. Io ho sempre pensato, sentito in un modo diverso. Mi è sempre parso che l'unità tra padri e figli, tra padri e figli elettivi, morali, fosse più interessante di quella fra coetanei; meno sociologicamente, più culturalmente configurata. Un'unità costituita sulle urgenze, più durevoli del riconoscersi e dell'affermarsi di ogni nuova generazione. Quando nel '76 fummo votati da 400 mila persone, 400 mila imprevisti "stravaganti", una mia intervista a Lietta Tornabuoni sulla Stampa si intitolava così: "Siamo soprattutto un partito di nonne". Di donne, cattoliche, della terza età. E' diventato sempre più esatto, oltre che vero. In tante famiglie la prima a votare radicale era la nonna. Abbiamo sempre fatto a meno di una evocazione diretta dei giovani, della condizione giovanile. Ci accorgevamo poi che fra i più giovani che si avvicinavano al partito la fiducia avvertita nei nonni aveva avuto un gra

n peso. Anche il mondo contemporaneo trae una forza a suo modo dai Penati. Mi sento vicino al Vecchio Testamento, all'Olimpo di Zeus, al cielo rinascimentale. Il giovanilismo, la retorica del fanciullo, la confusione fra verginità e innocenza, il putto decorativo quanto insignificante: di tutto ciò diffido. Perché non pensare all'innocenza come saggezza, come forza, come qualcosa che si conquista nell'arco di un'esistenza, piuttosto che come qualità originaria, volto senza storia, figure di neonati buone per tutti i manifesti del Terzo Mondo?

Ho proposto che si discuta sulla pensione femminile sette anni più tardi di quella maschile. Siamo tutti d'accordo, in astratto sul diritto e la promessa al non lavoro. Ma è più serio intanto far tesoro del giacimento della terza età, visto ufficialmente alla stregua delle discariche introvabili. Quando un giacimento di saggezza, di decenni di vita cumulata, vive nell'angoscia di una destinazione di abbandono, è naturale che si incattivisca, che non si riconosca. Torna anche a loro un'immagine esterna straziantemente diversa dall'identità che hanno dentro.

Abbiamo sostituito col diritto alla casa il diritto ad abitare. Un buon vecchio dovrebbe augurarsi di sgomberare presto per cedere la casa ai giovani promessi. Ho appena incontrato a Strasburgo il Presidente dell'organizzazione mondiale dei Rom, vive a Berlino, profugo dalla Serbia, è un iscritto radicale, mi hanno parlato del diritto alla casa e all'abitare secondo la loro esperienza, del nomadismo e dell'esilio.

Nel '68 dicevo che i cortei agili e corridori impedivano ai lenti e agli anziani di essere corteo. Pensa ai tuoi giovani, lascia che io pensi alla terza età. Sono spesso i più poveri e i più forti nostro contribuenti. Vorrei che conoscessi Ubaldo Gardi, uno degli ultimi arrotini italiani, un ottuagenario che può permettersi di mangiare poco, e di mandarci la pensione.

 
Argomenti correlati:
iugoslavia
corruzione
bosnia
macedonia
kossovo
pacifismo
referendum
pasolini pier paolo
giustizia
partitocrazia
stampa questo documento invia questa pagina per mail