di Sergio D'EliaSOMMARIO: L'emergenza carceri è determinata dal sistema ipertrofico del diritto penale che prevede »sempre nuove ipotesi di reato, spesso crimini senza vittime, ma anche delitti che non costituiscono un torto reale al gruppo sociale. L'emergenza sta, inoltre, nella schizofrenia della restaurazione della pena detentiva per tutti i reati e per tutti i condannati e, poi, della discrezionalità della pena e delle misure alternative . Occorre invece una visione "minimalista" della repressione penale che applichi la sanzione solo ai comportamenti che costituiscono un reale pericolo per la società.
(IL MANIFESTO, 30 marzo 1993)
Dai dati forniti recentemente dal ministro di Grazia e Giustizia, in Italia vi sono, oggi, quasi 50.000 detenuti contro i 26.000 presenti all'inizio del '91, quasi il doppio della ricettività degli istituti di pena; il 31% di essi sono tossicodipendenti, il 15% stranieri extracomunitari, il 60% imputati in attesa di giudizio.
Il ministro Conso non lo ha rilevato, ma un dato è certo: al primo posto dei reati per cui si finisce in carcere vi sono quelli legati al proibizionismo sulle droghe. Reati gravi - pochissimi - come il traffico, reati meno gravi - moltissimi - come rapine e scippi commessi per pagarsi la dose, reati "inesistenti" come il consumo personale, che non fanno vittime che non siano, semmai, gli stessi autori del "delitto".
A ben vedere, l'emergenza sta nelle leggi, e nella politica criminale e penitenziaria. Sta, innanzitutto, nel sistema ipertrofico del diritto penale che soffoca a causa di quel che esso stesso produce: sempre nuove ipotesi di reato, spesso crimini senza vittime, ma anche delitti che non costituiscono un torto reale al gruppo sociale. L'emergenza sta, inoltre, nella schizofrenia della restaurazione della pena detentiva per tutti i reati e per tutti i condannati e, poi, della discrezionalità della pena e delle misure alternative.
Certo, al sovraffollamento delle carceri, ai detenuti in attesa di giudizio, ai tossicodipendenti e i sieropositivi, si può rispondere con misure demagogiche o di buon senso, mandando l'esercito o depenalizzando, costruendo nuove galere o aumentando gli organici di polizia penitenziaria e dei magistrati. In ogni caso, con misure tampone, più o meno "liberali", non si va da nessuna parte.
Occorre, invece, più coraggio, molto buon senso, una politica che parta da una visione "minimalista" della repressione penale: un controllo repressivo che si applichi ai soli comportamenti che costituiscono un reale pericolo per la società e a proposito dei quali gli altri controlli si siano rivelati inefficaci.
Occorre, innanzitutto, togliere allo stato il ruolo di supplenza, di terzietà, di presa a carico di tanti conflitti; e ritornare a soluzioni più conviviali, solidali, comunitarie: riparazioni, restrizioni, risarcimenti, attività di pubblica utilità, che si rivelino convenienti a livello delle risorse dello stato e degli individui, confortanti per le parti che, così, non si sentono più estranee in processi che li riguardano.
Se mi rubano la macchina, il mio interesse è recuperarla o essere risarcito. Non mi appaga l'intermediazione astratta dello stato, il moralismo della sanzione penale: la polizia che arresta il colpevole, l'istruzione del processo, il giudice penale che lo condanna, la detenzione per un anno, il giudice civile che lo obbliga a risarcire, e le pene accessorie. Che spreco! Quando, per i reati minori, tutto potrebbe risolversi in un rapporto diretto tra le parti, ferma restando l'azione di polizia e, in caso di disaccordo, il ricorso al giudice civile.
Infine, occorre pensare ad un'ampia riforma del sistema sanzionatorio e penitenziario che configuri una gamma di soluzioni ad personam. La gravità dei reati e la pericolosità sociale personale devono essere i criteri di giudizio sul "se", sul "quantum" e sulle "modalità di esecuzione" della pena detentiva, sul "se" anche dell'azione penale. In ogni caso, va affermata la certezza del diritto, della pena e della alternativa alla pena, e per farlo si deve agire sul piano del processo e del giudizio, non più del tribunale di sorveglianza.
Per i reati meno gravi e per i condannati meno pericolosi, il giudice del processo stabilisce direttamente una sanzione alternativa al carcere (o per un periodo di prova nei casi di rinuncia o di sospensione dell'azione penale) scegliendo tra pene accessorie, misure di prevenzione, misure di sicurezza, lavoro di pubblica utilità e misure alternative alla detenzione, trasformate in sanzioni autonome.
Per i reati non di particolare gravità e condannati non particolarmente pericolosi, è possibile prevedere in sentenza una pena detentiva di un certo periodo, alla fine del quale, salvo casi eccezionali di gravi infrazioni commesse in carcere, scatta automaticamente una misura alternativa.
Per i reati più gravi e i condannati più pericolosi, si possono prevedere pene non superiori nel massimo a 10, 15 anni, come son previste mediamente negli altri paesi europei, ma eseguite certamente.
Molti, in questi anni, nell'affossare la legge Gozzini, hanno argomentato che nel nostro paese le carceri sono un colabrodo, i criminali sono più garantiti delle vittime, mentre la società è indifesa. Il principio sacrosanto della certezza della pena - ma anche del diritto e dell'alternativa alla pena - non può essere affidato ai fautori del cappio e dell'"ordine pubblico". Anche noi affermiamo: certezza della pena. Anche noi diciamo: superiamo la legge Gozzini (che cosa ne è rimasto più?). Discutiamo a quali condizioni: non possono essere quelle della discrezionalità del magistrato di sorveglianza, ma neanche quelle della pena dell'ergastolo o dei trentanni di reclusione.