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Cesari Paolo, D'Elia Sergio, Di Lascia Maria Teresa - 1 aprile 1993
PERCHE' NON VANNO GIUSTIZIATI GLI STUPRATORI DI SARAJEVO.
di Paolo Cesari, Sergio D'Elia, Mariateresa Di Lascia

SOMMARIO: Bisogna impedire che i due criminali condannati dal tribunale di Sarajevo per efferati crimini vengano giustiziati »in una logica di disperazione tutta interna all'isolamento in cui questa guerra è lasciata . »Simili efferati delitti devono cessare di appartenere a una sola identità nazionale e etnica, a una sola storia del dolore: essi devono appartenere, nella responsabilità del giudizio e della pena, alla comunità internazionale. Il fatto che non esista ancora un tribunale costituito, non è una ragione per cedere alla solitudine della propria resa dei conti: bisogna sospendere il giudizio e l'esecuzione conseguente. Bisogna evitare di sporcarsi le mani con altro sangue .

(IL GIORNO, 1 aprile 1993)

"Il processo e la sentenza debbono essere un chiaro messaggio per tutti gli uomini che in questa guerra hanno commmesso crimini come il genocidio, gli stupri, gli assassinii, da qualsiasi parte siano stati commessi, perché verrà anche per loro il giorno del giudizio. Non riusciranno mai a sfuggire alla legge".

Con queste parole, drammaticamente ingenue, il presidente del Tribunale di Serajevo Teftedarija ha commentato le condanne a morte dei due criminali di guerra i cui atti efferati, gli stupri, gli omicidi compiuti, ci appaiono perfino impossibili tanto sono tremendi. In questi casi, la fucilazione, e comunque la pena di morte, sembra essere assolutamente inferiore alla pena di vivere: alla condanna a portarsi addosso per anni il peso e il ricordo dei propri crimini. Essi, infatti -guardati sospendendo per un attimo l'intreccio feroce di razzismo, pulizia etnica, fascismi e campi di concentramento- appaiono per quello che definitivamente sono: atti di follia. Una follia, però, tragicamente diffusa, insegnata, seminata: una follia da regime nazista che porta, questa volta, il nome dello stalinista Milosevic.

Il Partito radicale ha già chiesto, in un appello alle Nazioni Unite diffuso in tutti i parlamenti del mondo e tradotto in quindici lingue, che si costituisca un Tribunale penale internazionale "per processare i presunti responsabili di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale compiute sul territorio della Ex-Jugoslavia dal 1991" perché occorre "uno strumento di sanzione penale internazionale per punire i responsabili di tali atrocità, subordinando il principio di non ingerenza negli affari interni degli Stati al rispetto della dignità e dei diritti umani".

Nella stessa direzione, la "Lega Internazionale per l'abolizione della pena di morte entro il 2000", sta domandando alle Nazioni Unite di operare subito perché si affermi il diritto di ogni essere umano (e dunque anche del più crudele degli assassini) a non essere ucciso a seguito di una sentenza o misura giudiziaria, sebbene emessa nel rispetto della legge.

I "boia di Sarajevo", come tutta la stampa li ha chiamati, sono un caso esemplare: un banco di prova per il senso del diritto e l'equanimità del Tribunale che li ha condannati, dei cittadini della ex-Jugoslavia che attendono giustizia, e di quelli che - come noi - stanno a guardare chiedendosi cosa fare.

Ciò che non deve succedere, è che i due criminali vengano giustiziati in una logica di disperazione tutta interna all'isolamento in cui questa guerra è lasciata; tutta interna, cioè, al nostro crimine di guerra: l'indifferenza dell'Europa e del mondo.

Simili efferati delitti devono cessare di appartenere a una sola identità nazionale e etnica, a una sola storia del dolore: essi devono appartenere, nella responsabilità del giudizio e della pena, alla comunità internazionale. Il fatto che non esista ancora un tribunale costituito, non è una ragione per cedere alla solitudine della propria resa dei conti: bisogna sospendere il giudizio e l'esecuzione conseguente. Bisogna evitare di sporcarsi le mani con altro sangue.

Se fosse possibile, in attesa di un tribunale internazionale competente a giudicare e che in nessun caso preveda il ricorso alla pena capitale, bisognerebbe immaginare una forma di estradizione dei criminali, un passaggio ad un carcere fuori dal territorio dove si sono compiuti i delitti sotto la giurisdizione delle Nazioni Unite, o in uno Stato dove non si applichi la pena di morte nè in pace nè in guerra. Bisognerebbe avere il coraggio di immaginare una "contaminazione" di tutti gli Stati verso i reati più gravi, che persegua severamente e inesorabilmente i reati, ma abbia il rispetto della vita dei rei.

Per quello che ci riguarda siamo impegnati a mobilitarci con azioni nonviolente, appelli e mozioni parlamentari, perché alle vittime della guerra nella ex-Jugoslavia non sia dato come segno dei tempi l'esecuzione dei propri boia: questa distinzione almeno fra la forza delle vittime e la violenza degli aggressori va conquistata.

 
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