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Taradash Marco - 9 maggio 1993
RAPPORTI FRA MAFIA E POLITICA
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA

RELAZIONE DI MINORANZA DEL DEPUTATO MARCO TARADASH

SOMMARIO: Dopo aver criticato la relazione di maggioranza che da una parte esprime una condanna politica, sulla base di procedimenti giudiziari ancora nella fase istruttoria, di un settore della Dc e dall'altra ripropone lo schema di una mafia che vedrebbe una un potere "separato", provvisto di una struttura gerarchica contrapposto ad una società civile intaccata da complicità, connivenze e contiguità, il deputato della "lista Pannella" Marco Taradash propone una lettura del tutto diversa di questo fenomeno criminoso. Questa lettura è basata su due presupposti: a) le distorsioni del sistema politico italiano hanno trovato in Sicilia uno specifico moltiplicatore nella particolare natura del fenomeno consociativo che sin dagli anni cinquanta ha risucchiato il Pci in un sistema di governo degradato; b) le leggi antiproibizioniste sulla droga hanno modificato la natura stessa della criminalità organizzata rafforzandola enormemente dal punto di vista economico e proiettandola in una dimensione internazionale. All

o schema della connivenza fra mafia e settori pubblici "deviati" va dunque sostituito quello della coabitazione fra criminalità organizzata e sistema dei partiti. Non è possibile di conseguenza analizzare il fenomeno dell'intreccio tra mafia e politica senza aprire il capitolo della politica, di quella siciliana in particolare; la commissione si è invece limitata ad ascoltare i pentiti e ad effettuare una ricostruzione storica basata esclusivamente su alcune ordinanze di rinvio a giudizio. La relazione analizza quindi, nella seconda parte, l'intreccio fra sistema partitocratico e mafia e la gestione consociativa degli enti politici ed economici, denunciando l'assenza di ogni forma di controllo all'interno dell'Assemblea regionale siciliana e la corresponsabilità dell'opposizione comunista con le degenerazioni partitocratiche e la crescita dei poteri mafiosi. Nella terza parte si analizza il rapporto fra narcotraffico, proibizionismo e crescita del potere mafioso. A partire da queste considerazioni, l'unica p

ossibilità di sconfiggere la mafia è affidata al rinnovo profondo del sistema politico, »sostituendo alle degenerazioni consociative e partitocratiche la moralità della lotta politica, della decisione e del controllo e sttoponendo »a una drastica revisione la strategia proibizionista che da un lato si è rivelata impotente dinanzi alla diffusione della droga illegale e del suo consumo, dall'altro ha favorito e favorisce l'espansione e il consolidamento di organizzazioni criminali .

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COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA

RAPPORTI FRA MAFIA E POLITICA

RELAZIONE DI MINORANZA DEL DEPUTATO MARCO TARADASH

PARTE I

1. Con la relazione sui rapporti fra mafia e politica (mafia e politica in Sicilia, per dire meglio) approvata a larghissima maggioranza, coi voti favorevoli di DC, PDS, PSI, Lega Nord, PSDI, PRI, PLI, Verdi, Misto, la Commissione antimafia ha perso una grande occasione di pulizia, piegandosi ad uno degli ultimi - è da augurarsi - compromessi possibili del regime partitocratico e consociativo. Oltre a una altrettanto veemente quanto generica denuncia dei collegamenti fra politica, pubblica amministrazione, libere professioni e criminalità organizzata, la commissione ha espresso una condanna politica, sulla base di procedimenti giudiziari ancora nella fase istruttoria, di un settore della Democrazia Cristiana, quello gravitante lungo l'asse (del resto molto contorto) Lima-Ciancimino-Andreotti. A ciò - senza ascoltarli, e senza conoscere le argomentazioni difensive - ha aggiunto valutazioni molto negative su alcuni fra i parlamentari che sono oggetto di inchieste giudiziarie, e sul giudice Corrado Carnevale, g

ià presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione. Questo ha tranquillizzato le coscienze di molti e ha dato soddisfazione ai nemici attuali (anche interni alla Dc) di Lima Ciancimino e Andreotti. Sulla verità è così calato il sipario del trasformismo e degli opportunismi.

2. La relazione si svolge lungo un binario parallelo a quello delle indagini giudiziarie e, come un treno ad alta velocità, le supera, definendo una volta per tutte le responsabilità dei politici sospettati di compromissioni dirette coi poteri mafiosi. In questo modo, da un lato la relazione si espone a giustificate proteste quanto al mancato rispetto dei diritti della difesa e della presunzione di non colpevolezza degli inquisiti; dall'altro - e questo è ancora più grave perché impedisce il vero giudizio politico - preclude la possibilità di addentrarsi seriamente nei meandri di quell'intreccio fra partiti, comitati d'affari e mafia che ha contrassegnato la storia politica ed economica siciliana del dopoguerra.

3. Nella parte che rientra più propriamente nella sua competenza, quella dell'analisi politica e dell'acquisizione delle responsabilità di sistema, la relazione si sfilaccia. Il metodo scelto comporta censure ed omissioni di ogni genere. Così la relazione si diffonde - in termini peraltro molto generici, e senza mettere a fuoco un capitolo decisivo, quello dello scontro fra le correnti democristiane legate da un lato a Lima, dall'altro a Ciancimino - sui legami fra mafia e politica fino al 1964, anno in cui Lima cessa di essere il sindaco di Palermo; mentre sul trentennio successivo vediamo salire la nebbia delle allusioni. Non a caso. Pagine e pagine sono dedicate alle complicità massoniche, tutte da verificare e comunque collaterali, di "servizio", rispetto ai fenomeni dell'accumulazione e della spartizione, mentre si resta nel vago a proposito delle complicità politiche, tutte verificate.

4. A partire dagli anni '80, da quando si è messa in moto la legislazione antimafia, fino ai nostri giorni, è prevalsa un'idea della mafia come "antistato", come un potere "separato", provvisto di una struttura gerarchica piramidale, militarmente organizzata, in grado di minacciare con le sue incursioni ogni settore della vita del Paese. Questa idea di mafia presupponeva e imponeva leggi di emergenza a ripetizione (ne sono state contate 115) e un'azione di contrasto imperniata sulle forze dell'ordine e la magistratura. Affidata quasi esclusivamente alla descrizione che ne danno i pentiti, la mafia si conforma alle sue rappresentazioni letterarie, con le sue "cupole" e "commissioni" riunite in sessioni periodiche, con procedure decisionali di natura democratica (questo concetto lo si ritrova non soltanto nelle dichiarazioni dei pentiti ma anche nel lessico di alcuni magistrati); oppure la mafia viene rappresentata come una sorta di associazione segreta, con riti pagani di iniziazione, una setta complottarda,

separatista, golpista, una superloggia massonica intorno alla quale gravita una miriade di altre logge. A questa società del crimine viene contrapposta una società politica e civile destinata alla sconfitta - insieme con i suoi apparati giudiziari, politici, produttivi - in quanto intaccata al suo interno da connivenze, complicità e contiguità.

5. E' lo schema che ci ripropone la relazione di maggioranza. Uno schema assai semplice in realtà, ma che non aiuta minimamente a spiegare il livello di degrado della vita pubblica in Sicilia (l'indagine della commissione è per il momento limitata a questa regione) e nel resto del paese. La lettura del fenomeno politico-mafioso che propone questa relazione di minoranza è del tutto diversa.

6. Occorre in primo luogo prendere atto del fatto che le distorsioni del sistema politico italiano hanno trovato in Sicilia uno specifico moltiplicatore nella particolare natura del fenomeno consociativo, che, in forma ufficiale o - più spesso - sotterranea - ha sin dalla fine degli anni cinquanta risucchiato il principale partito di opposizione, il Pci, in un sistema di governo degradato, caratterizzato dalle più disinvolte pratiche spartitorie, consentendo alla criminalità organizzata di crescere e irrobustirsi all'ombra dello sfruttamento partitocratico delle risorse pubbliche.

7. In secondo luogo le leggi proibizioniste sulla droga hanno modificato, a partire dalla metà degli anni settanta e per tutti gli anni ottanta, la natura stessa della criminalità organizzata. Con il controllo del traffico e dello spaccio di droga le organizzazioni di tipo mafioso - orientate al controllo e al governo, anche economico e politico, del territorio in cui sono insediate - si sono da un lato economicamente rafforzate e strutturalmente trasformate; dall'altro hanno ampliato il raggio della loro azione, sino a diventare fenomeni di carattere nazionale e internazionale.

8. Allo schema della connivenza fra mafia e personaggi o settori pubblici "deviati" va dunque sostituito quello della coabitazione fra criminalità organizzata e sistema dei partiti. Anche nella relazione di maggioranza troviamo questa espressione, ma in tutt'altro senso: la "coabitazione" di due poteri, quello legale e quello criminale, nella casa comune occidentale, sotto lo stesso ombrello anticomunista. Una interpretazione risibile, che può piacere soltanto a chi intenda lavare le mani sporche nell'acqua fresca degli alibi ideologici. In realtà la coabitazione che si è sviluppata nel corso degli anni è stata quella fra un sistema consociativo orientato alla distruzione della legalità e alla spartizione del denaro pubblico da un lato, famiglie mafiose ingrassate e foraggiate dal proibizionismo sulla droga, e quindi messe in grado di sedersi alla tavola delle decisioni e delle spartizioni, dall'altro.

9. Una ulteriore precisazione è necessaria: la consociazione è avvenuta non soltanto fra i partiti ma anche fra le istituzioni, o meglio, i poteri dello stato e del parastato: potere politico, potere sindacale, potere giudiziario, potere finanziario (le banche), potere repressivo (certamente i servizi segreti). Potremmo senz'altro aggiungere la Chiesa. All'interno di queste istituzioni ci sono stati, in ogni settore, uomini liberi e coraggiosi, che, contrastati dalla struttura, hanno tentato di sottrarsi al condizionamento ambientale e di percorrere, spesso solitariamente, le strade della legalità. Molti di loro sono stati uccisi, altri rimossi.

10. Totò Riina e i suoi accoliti rappresentano il volto feroce e militare della mafia, quello che garantisce le regole del malaffare: dal controllo del territorio, al narcotraffico, al monitoraggio mafioso degli appalti. Ma Cosa Nostra è parte di un sistema ben più imponente e potente di quanto sino ad oggi ci si ostina a negare, all'interno del quale procedure, diritto e legge valgono soltanto come merce di scambio.

11. Una coabitazione fra poteri di tal fatta, difficile, ma necessaria ad entrambe le parti, è soggetta a crisi profonde, al mutare delle alleanze interne ed esterne, all'esercizio di una violenza sistematica. E' aperta la questione se in Sicilia la politica sia stata in rapporto di sudditanza rispetto alla mafia o viceversa, e fino a quando. Sta di fatto (e qui non occorre il conforto delle verità giudiziarie) che le risorse gestite nell'Isola sono servite a foraggiare contemporaneamente apparati di partito e apparati mafiosi. Il costo di questa operazione perpetrata per decenni è stato altissimo in termine di vite umane perdute, di saccheggio del territorio, di frustrazione delle speranze e di negazione dei diritti per intere generazioni.

12. Per questo non è accettabile l'assenza - nella relazione della maggioranza - della descrizione di un regime politico, di un metodo affaristico, di un sistema di potere in cui si intrecciano esponenti di partito, pubblica amministrazione, imprenditoria. Se altrove questo regime ha prodotto malaffare e comportamenti di stampo mafioso, in Sicilia si è trovato a dover gestire i suoi affari in un ambiguo rapporto di concorrenza e di alleanza con le cosche mafiose. Non è perciò possibile, se si voglia comprendere la vischiosità e complessità del fenomeno politico-mafioso, evitare il confronto con la struttura partitocratica, costituitasi a Milano, come a Roma, a Napoli o a Palermo, in struttura mafiosa di saccheggio sistematico del denaro pubblico, della legalità, dell'onestà, e delle libertà civili e di impresa.

13. E' certo giusto affermare che Cosa nostra è cosa palermitana e siciliana innanzitutto, e non può essere dimenticato che la mafia ha fondato il suo potere innanzitutto sulla violenza e sulle armi, oltre ad essere stata, almeno per un lungo periodo, un fattore importante nel controllo del voto elettorale. Ma non si comprende la sua forza, la sua durata, la sua potenza se il fenomeno non viene ricondotto ad una dimensione nazionale, quanto meno "romana". Poco o nulla invece la relazione di maggioranza dice del ruolo, catastrofico per la Sicilia e provvidenziale per Cosa Nostra, dell'assemblea regionale siciliana, e delle centinaia di leggi regionali di spesa, contrattate fra maggioranza e opposizione, che hanno ingrassato il regime politico-mafioso. Manca ogni riferimento critico ai meccanismi che hanno consentito il moltiplicarsi della spesa pubblica a fondo perduto e alle responsabilità (magari senza "complicità") di chi ha permesso che gli stanziamenti straordinari per il Mezzogiorno affluissero alla maf

ia, perché non vi era alcun progetto economico di investimento dei fondi, né alcun controllo sulla destinazione. I comitati di affari consociativi hanno gestito, a Roma e in Sicilia, decine di migliaia di miliardi, che in larga misura sono stati intercettati dalla criminalità organizzata, mentre le leggi sulle procedure di appalto e le relative deroghe hanno reso normale, ovvio, visibile e non sanzionabile, l'accaparramento mafioso del mercato delle costruzioni.

14. Se determinati fatti si sono verificati in Sicilia è perché avvenivano anche a Milano. Certo, in forma diversa e meno sanguinosa; ma non sempre: si pensi all'omicidio Ambrosoli, ai "suicidi" di Sindona e di Calvi. E se è vero che moltissimi processi contro la mafia sono stati "aggiustati" (e certamente questo è accaduto in primo e secondo grado di giudizio) non è forse perché in quegli stessi decenni i processi contro le organizzazioni a delinquere di stampo mafioso, ma non mafiose, che operavano in altre città italiane, non venivano neppure celebrati?

15. La forza militare della mafia, la ferocia, gli eccidi, non devono dunque oscurare la forza dirompente di un sistema politico che in Sicilia ha dettato e detta, in quanto tale, comportamenti mafiosi. Farlo significherebbe perdere anche l'odierna grande occasione di sconfiggere politicamente la mafia. L'attuale indebolimento della mafia viene descritto come il risultato di una più attenta lotta da parte dello Stato. Ma è davvero così? Se oggi la mafia è in difficoltà, il fatto è dovuto ad un accentuarsi della lotta dello Stato contro la mafia, oppure all'indebolimento complessivo del sistema partitocratico del nostro Paese? Mafia e partitocrazia non sono forse state in Sicilia due facce di una stessa medaglia, e non è quindi logico che indebolendosi la partitocrazia si indebolisca anche la mafia?

16. Sono domande aspre, ma sono domande cui una commissione che indaga per la prima volta direttamente sui rapporti fra mafia e politica non avrebbe dovuto sottrarsi. Questo non si è voluto fare, per non segnare alcun salto di continuità col passato. La commissione ha ascoltato alcuni famosi pentiti della mafia, attendibili o no che fossero, e non ha ascoltato i politici. La ricostruzione storica è stata ripresa pari pari da alcune ordinanze di rinvio a giudizio o sentenze, come se fosse possibile delegare alla magistratura, che svolge un ruolo istituzionale ben definito, di accertamento delle responsabilità personali, il compito di fornire il quadro d'insieme. Ma esso è costituito da vicende, storie, legami, che il più delle volte non hanno alcuna rilevanza penale e che rappresentano la base sommersa di quanto potrà emergere alla luce delle inchieste giudiziarie. Per fare un esempio: sarebbe mai possibile capire lo scandalo del Banco Ambrosiano, che morti e feriti ha pure provocato, senza analizzarne il con

testo politico? Oppure denunciare il ruolo avuto dai partiti della maggioranza governativa nella difesa pubblica, parlamentare, di Roberto Calvi, presidente del Banco, e tacere del ruolo del principale partito di opposizione, il Pci, debitore a sua volta di alcune decine di miliardi verso il Banco?

17. In altre parole, è possibile analizzare il fenomeno dell'intreccio fra mafia e politica senza aprire il dossier della politica, e della politica siciliana in particolare (visto l'orizzonte predeterminato della relazione)? Non sarebbe utile, ad esempio, una narrazione minuziosa delle vicende del Partito repubblicano siciliano, una formazione politica inondata dai sospetti (e ultimamente anche dagli avvisi di garanzia e dagli arresti), e da cui soltanto di recente i vertici nazionali, che pure hanno sempre goduto di una immagine di pulizia e rigore, hanno preso le distanze? E non sarebbe necessario chiedersi se i più esposti capicorrente o capibastone della Democrazia Cristiana siciliana, da Lima a Ciancimino, da Gioia a Drago, fossero potenti in quanto intrattenevano legami con le cosche mafiose o in quanto controllavano il sottogoverno, vale a dire l'accesso alle risorse pubbliche?

18. Lo sforzo costante di autocensura che caratterizza la relazione conduce invece a richiamare le affermazioni di un pentito, secondo cui la mafia avrebbe deciso - per dare un avvertimento trasversale alla Dc - di votare nel 1987 candidati anche del Partito radicale oltre che del Psi ("senza intese con questi partiti" si precisa untuosamente). Innanzitutto il riferimento è falso in linea di fatto: sia Gaspare Mutolo che Francesco Marino Mannoia hanno affermato che il voto si indirizzò unicamente verso il Psi. In secondo luogo, sarebbe bastato un semplice raffronto dei risultati elettorali ottenuti nel corso del tempo dalle liste del Partito radicale in Sicilia per smentire questa affermazione. Sollevare un po' di polvere, o lanciare qualche schizzo di fango a casaccio: tutto è utile per velare la realtà.

19. Proprio perché la Commissione non ha voluto intraprendere il difficile cammino della verità, e non si è data modo di cercare le giuste risposte, le considerazioni che seguono non possono avere nessuna pretesa di esaurire la questione dei rapporti fra mafia e politica in Sicilia e in Italia. Sono piuttosto una indicazione di metodo, una "simulazione" di laboratorio su ciò che occorrerà fare per scrivere davvero, un domani, in una Italia non più partitocratica, una relazione su questo tema.

PARTE II

Consociativismo e partitocrazia

20. Se gli accordi politici e di sottogoverno tra partiti di maggioranza, Dc in primo luogo, e il Pci sono una costante della storia della Repubblica italiana, in Sicilia il consociativismo ha assunto subito caratteri particolari, influenzando tutti gli aspetti della vita economica e civile della Regione. Tant'è vero che più volte i "patti" tra la Dc e il Pci siciliani hanno aperto la strada a svolte politiche nazionali.

21. Un caso clamoroso di consociativismo ante litteram è stato il cosiddetto "milazzismo". Silvio Milazzo, democristiano dissidente, venne eletto per tre volte, tra il 1958 e il 1960, presidente della Regione contro le indicazioni del suo stesso partito, dando vita a governi sostenuti da una maggioranza comprendente alcuni democristiani in rotta con Roma (una frangia che poi darà vita all'Ucs, l'Unione cristiano sociale), monarchici, missini, socialisti e comunisti. I comunisti non entrarono direttamente nella giunta, ma il loro apporto "dall'esterno" fu determinante. La pur breve esperienza milazziana avrà effetti politici, economici e sociali di lungo periodo. Col "milazzismo" cessa in pratica l'opposizione politica in Sicilia, e il Pci inizia ad integrarsi in forma subalterna nel sistema di potere creato dalla Democrazia Cristiana.

Si è scritto che il governo Milazzo sarebbe nato anche dalla volontà di Enrico Mattei e dell'ENI di ottenere permessi per la ricerca del petrolio in Sicilia, rifiutati dal governo nazionale in perfetto accordo con le "sette sorelle". E si è più volte parlato (ne riferisce anche la relazione della maggioranza) di infiltrazioni mafiose nell'operazione Milazzo. Ha scritto il giornalista Pietro Zullino, su "Epoca" del 16 maggio 1971: "Milazzo va a Mosca e viene ricevuto da Kruscev. I retroscena finanziari di questa manovra daranno luogo a scandali clamorosi e chiariranno che il Pci è sceso a patti con la mafia. La Sicilia diventa per anni una terra di transito di denaro e agenti segreti. L'Italia appoggia clandestinamente Ben Bella contro i francesi d'Algeria e la Francia stessa. Capitale di questo gioco è Palermo. Molti anni dopo, quando i democristiani chiederanno alla commissione Antimafia di indagare sui retroscena dell'operazione Milazzo, una strana maggioranza guidata dai comunisti dirà no".

22. Ma, al di là di una, come abbiamo visto mai accertata, diretta influenza mafiosa sull'operazione politica, dalla stagione milazziana la Sicilia ha ereditato il definitivo degrado dell'idea di autonomia e la consuetudine all'intrigo politico, al trasformismo, all'affarismo politico. L'opposizione veniva meno proprio mentre si andava costituendo, sulla scomparsa del vecchio blocco agrario e la fine del movimento contadino, un nuovo blocco sociale formato dai costruttori e dall'imprenditoria edile, dal personale politico-amministrativo, da professionisti e da grossi commercianti, che avrebbe tratto alimento costante da una Regione inondata dai flussi di denaro pubblico.

23. E' sicuramente nella gestione della "roba" pubblica che si può ritrovare la più immediata e più durevole influenza del "milazzismo" sulla successiva storia politica, economica e sociale della Sicilia. Capostipite è la Sofis, storicamente la prima società finanziaria pubblica costituita in Italia. Siamo nel 1957. La Sicilia, sotto il profilo economico, esce da questa esperienza con le ossa rotte. Si tratta di una fase politica che pone al centro di tutto la Regione imprenditrice, cioè l'intero apparato dei partiti chiamato a gestire discutibili iniziative industriali. La Sofis, attraverso i cosiddetti crediti partecipati, acquisiva quote ed azioni di società nate già fuori da logiche di mercato. Si trattava, in particolare, di aziende in difficoltà economiche, le quali venivano finanziate dalla stessa Sofis, che poi, invece di chiedere la restituzione delle somme prestate, acquisiva quote delle suddette società. Frequenti erano le occasioni in cui le iniziative imprenditoriali sorgevano solo per usufruire

delle prebende e dei finanziamenti erogati dalla Sofis.

24. Dietro la Sofis c'erano i nomi di alcuni personaggi che per un abbondante trentennio condizioneranno la vita della Regione: l'avvocato Vito Guarrasi, il professor Francesco Pignatone (attuale commissario straordinario di tre enti economici regionali: Ente minerario siciliano, Ente per lo sviluppo industriale e Azienda asfalti siciliana), l'avvocato Francesco Morgante (socio di minoranza della società Italkali, l'azienda, controllata dalla Regione, che gestisce l'estrazione e la commercializzazione dei sali minerali della Sicilia) e l'ingegner Domenico La Cavera, in quegli anni presidente degli industriali siciliani. La Sofis interpretò, sotto il profilo economico e imprenditoriale, una perfetta forma di consociativismo fra i poteri, che troverà puntuale rispondenza nella politica siciliana. Al di là degli apparenti scontri tra partiti di maggioranza e opposizione, si esprimeva, in realtà, una totale convergenza di scelte e di interessi tra partiti di maggioranza e di opposizione.

25. Sulle ceneri della Sofis, intorno alla metà degli anni '60, e quindi nell'epoca del centrosinistra, vengono istituiti gli enti economici regionali: l'Ems, Ente minerario siciliano, l'Espi, Ente siciliano per la promozione industriale, l'Azasi e l'Esa. Quest'ultimo, l'Ente di sviluppo agricolo, subentrò all'Eras, l'Ente per la riforma agraria siciliana, che nel 1955 aveva 1192 addetti. Ricorda il senatore Giuseppe Alessi, ex presidente della Regione e dell'Assemblea regionale siciliana: »Una turba ogni mattina faceva la fila alla sede dell'ente solo per apporre la firma di presenza e quindi andare via, non avendo né funzioni né tavolo di lavoro". A proposito degli enti regionali e della Sofis Alessi parla di "scandalosa pratica": "L'Ems distribuisce stipendi vistosi ad impiegati assunti con criteri politici... Lo stesso deve dirsi della Sofis . Nel 1959 il numero dei dipendenti regionali era salito a 3356, contro gli 822 di dieci anni prima, la stragrande maggioranza a seguito di assunzioni a chiamata dir

etta di natura clientelare. Oggi sono oltre 23 mila, assunti in larga misura sulla base di concorsi sistematicamente truccati.

26. Mentre crescono a dismisura le risorse gestite dai partiti, per il tramite della pubblica amministrazione, e l'assistenzialismo corrode le fondamenta della società e dell'economia, la mafia diventa il naturale interlocutore di un sistema politico che fonda la propria capacità di consenso sugli sprechi e l'inefficienza dello Stato, ovvero di quella stessa pubblica amministrazione che il sistema dei partiti ha ridotto a un guscio vuoto. Scrive Alfio Mastropaolo ("Tra politica e mafia. Storia breve di un latifondo elettorale, 1993"): »Se sotto il profilo della produzione normativa il centrosinistra non merita un giudizio troppo seccamente negativo, è nell'incapacità di far corrispondere alle norme i comportamenti adeguati che probabilmente consistette il suo limite maggiore. Le risorse gestite dalla pubblica amministrazione e dai partiti crebbero a dismisura, il clientelismo venne elevato a sistema, mentre la cultura e la pratica dell'assistenzialismo pervasero senza residui società ed economia, con un impr

essionante moltiplicarsi di sprechi e inefficienze, di corruzioni, quasi volutamente ad offrire all''onorata società' l'opportunità di ricavarsi pingui e confortevoli nicchie e di trovare l'occasione per un rilancio su vasta scala .

27. Il 27 gennaio del 1975 Graziano Verzotto formalizza le sue dimissioni dalla presidenza dell'Ente minerario siciliano. Il padre padrone dell'Ems, che aveva lasciato un seggio senatoriale per la poltrona dell'Ente minerario, è costretto a fuggire dall'Italia dopo essere stato coinvolto nello scandalo dei fondi neri della Banca Unione di Michele Sindona. Ma al di là del suo coinvolgimento in vicende giudiziarie, per Verzotto si è chiusa un'epoca. La nuova era politica in Sicilia porta l'impronta del nuovo patto di "solidarietà autonomistica" tra la Dc e il Pci. In anticipo rispetto al resto del Paese, in Sicilia si sperimenta dunque una formula politica che vede assieme, scopertamente, la Dc e il Pci. Non si tratterà, ancora una volta, di un governo con i comunisti in giunta regionale, ma di un governo con i comunisti nella cosiddetta maggioranza programmatica. Gli artefici più noti di questa nuova fase politica sono il Dc Rosario Nicoletti, allora esponente di punta del partito in Sicilia (e oggi, a quasi

dieci anni dalla sua morte, chiamato in causa dai pentiti di mafia), e Achille Occhetto, segretario regionale del Pci siciliano.

28. L'idea della "solidarietà autonomistica" nasce nel 1975, quando manca ancora un anno alle elezioni regionali che verranno celebrate nel 1976. Mentre a Roma il Pci si propone ancora come il partito alternativo al "sistema di potere democristiano" (secondo la formula coniata da Enrico Berlinguer), in Sicilia il segretario regionale del partito, Occhetto, sigla con il segretario regionale della Dc, Nicoletti, il "patto di fine legislatura". Obiettivo dichiarato: individuare un pacchetto di priorità, vincolando una spesa di mille miliardi verso quegli obiettivi. Il "patto di fine legislatura", che coinvolge anche socialisti e partiti laici, non riguarda quindi tanto l'approvazione di leggi di grande respiro politico (per esempio, riforma della pubblica amministrazione, riforma del sistema della riscossione delle imposte, ecc.), ma, più che altro, l'approvazione di leggi di spesa. Si inaugura una nuova stagione consociativa fatta non, come nel passato, di condizionamenti indiretti dall'opposizione, ma di un

diretto potere di decisione del maggior partito di opposizione sulle più importanti leggi di spesa.

29. Il Pci viene così definitivamente integrato nei circuiti del potere in maniera coinvolgente e duratura, e partecipa a pieno titolo al degrado costante della vita politica siciliana. Sono questi gli anni - per citare solo uno dei tanti esempi di spesa parassitaria-consociativa - del boom delle cooperative. Ci sono le cooperative edilizie, ci sono le cooperative agricole, ci sono le cooperative di produzione e lavoro, e via continuando in quasi tutti i settori dell'economia. Si consolida in quegli anni un sistema di economia assistita completamente al di fuori da ogni razionale logica di mercato. E se fino ad allora l'edilizia non era stata poi un grandissimo affare ecco che, invece, lo diventa. Ci sono tutte queste cooperative che devono lavorare, e lavorare comunque, soprattutto grazie a finanziamenti regionali. Ha scritto di recente Umberto Santino, direttore del Centro di Documentazione Giuseppe Impastato di Palermo: »La lotta politica è ferma dagli anni settanta (compromesso storico, trasversalismi et

c.). Il rapporto tra mafia, politica e pubblica amministrazione non si pone tanto come casistica di collusioni occasionali e corruzione episodica, ma come terreno complesso e variegato che va dalla compenetrazione organica tra attori criminali e gruppi politico-amministrativi, con una sostanziale identificazione, alla contiguità e alla convivenza, dalla cointeressenza allo scambio. Le prove tecniche spesso non ci sono, ma c'è quanto basta per promuovere lotta politica. Ma dov'è l'opposizione? .

30. Nel 1975 si inaugura dunque la stagione degli accordi di fine legislatura. Accordi siglati dai partiti di maggioranza e di opposizione, che verranno di fatto, con denominazioni sempre nuove, mantenuti fino ai nostri giorni. Dopo le elezioni regionali del 1976 l'accordo tra maggioranza e opposizione diventa più esplicito e, in un primo momento, i comunisti si preoccupano del modo di incidere sulle scelte legislative. Sono gli anni in cui le Commissioni dell'Ars diventano dei luoghi di contrattazione. In certi casi, alcune di queste Commissioni sono presiedute da parlamentari comunisti. Il risultato è che i disegni di legge che escono dalle commissioni vanno in aula solo per assolvere alla formalità di voto. L'ottava legislatura, dall'8 luglio 1976 all'8 luglio 1981, vara ben 458 leggi. E' una delle più feconde stagioni, dal punto di vista legislativo, che si ricordino dall'inizio dell'autonomia ai nostri giorni.

31. L'attività delle Commissioni è frenetica. Vengono esaminati 1.065 disegni di legge in 2.335 riunioni delle commissioni. Sono solo due i disegni di legge respinti dall'aula: il rinnovo parziale del finanziamento di quattro posti di assistenti universitari convenzionati con la facoltà di magistero di Palermo; la nomina di una commissione parlamentare d'inchiesta sulla gestione dell'assessore regionale dei Lavori pubblici. La commistione tra il potere esecutivo e il legislativo è completa. Circa il 90 per cento delle leggi passa con il voto favorevole del Pci. Pci che il 13 agosto del 1976 concede la benevola astensione al nuovo governo regionale (Dc, Psi, Pri e Psdi) presieduto dal democristiano Angelo Bonfiglio. Su 12 assessori, ben 5 negli anni successivi verranno coinvolti in vicende giudiziarie.

32. Il 21 marzo del '78 nasce il governo presieduto da Piersanti Mattarella. E' una maggioranza esapartita della quale fa organicamente parte il Pci. La tesi oggi corrente è quella secondo cui Mattarella venne appoggiato dai comunisti perché si proponeva come l'esponente del rinnovamento democristiano e della rottura con le contiguità mafiose, e che per queste stesse ragioni venne duramente osteggiato da Salvo Lima e dai suoi seguaci. Questa tesi non ha alcun fondamento storico. Basti ricordare il duro scontro dentro la Dc che portò, nel novembre del 1977, alle dimissioni dalla direzione regionale degli uomini di uno dei maggiori leader della Dc siciliana, Nino Gullotti. Gullotti era contrario all'apertura al Pci decisa dai leader delle altre correnti del partito: Salvo Lima per gli andreottiani, Attilio Ruffini per i dorotei, Rosario Nicoletti per i forzanovisti, Piersanti Mattarella per i morotei.

33. A seguito di questo scontro l'allora presidente della Regione, il Dc Angelo Bonfiglio, vicino a Gullotti, venne costretto cedere il posto a Piersanti Mattarella, candidato di Lima e degli altri leader democristiani, e appoggiato dal Pci. Il 9 febbraio del 1978 votano a favore di Mattarella la Dc, il Psi, il Pci, il Psdi e il Pli. Pci e Pli non ottengono assessorati, ma fanno parte a pieno titolo della maggioranza politica che sorregge il governo. Poco dopo, il 16 marzo 1978, il Pci entrerà nella maggioranza anche a Roma, nel governo della "non sfiducia" guidato da Giulio Andreotti.

34. Il partito comunista non si limita ad appoggiare il governo Mattarella, ma, senza rimetterne in discussione la natura, si inserisce in tutti i gangli del potere regionale. Alcuni direttori regionali (cioè direttori degli assessorati) hanno in tasca la tessera del Pci. E nelle commissioni legislative - alcune delle quali presiedute da comunisti - l'apporto del Pci è determinante, come e più che negli anni precedenti. In una democrazia parlamentare i deputati delle opposizioni giocano un ruolo fondamentale nelle commissioni. Ma nella Sicilia della "solidarietà autonomista", come già accennato, le commissioni si sono sostituite al potere esecutivo. I pareri delle commissioni, di fatto, divengono tutti vincolanti. In pratica, la gestione del potere si trasferisce dal governo, che non decide quasi nulla, alle commissioni legislative, che decidono tutto. Il Pci siciliano, nel 1979, è dentro come non mai a tutti i meccanismi del potere reale della Sicilia.

35. Quando a Roma entra in crisi il compromesso storico, anche i comunisti siciliani sono chiamati a rompere gli accordi con la Dc. Tirarsi fuori ora è difficile, ma gli ordini romani vanno rispettati. A turno, i dirigenti del Pci siciliano cominciano a prendere le distanze dal governo Mattarella. Un attacco concentrico che culmina in un comunicato diffuso dal comitato regionale del Pci il 20 novembre del 1979: "La paralisi politica e amministrativa e il malgoverno hanno raggiunto livelli che la società siciliana non può più tollerare". Eppure si parla di un governo, quello Mattarella, sostenuto anche e soprattutto dal Pci.

36. Il presidente della Regione Piersanti Mattarella viene ucciso il 6 gennaio 1980, probabilmente perché è impegnato nel tentativo di risanare il settore degli appalti pubblici e di depurare il suo partito dagli inquinamenti mafiosi. Dopo l'omicidio il Pci lascia cadere i precedenti giudizi negativi sul suo governo, e, Mattarella viene esclusivamente ricordato come un martire dell'antimafia. E tuttavia è da ricordare che il tentativo di mantenere in vita l'esperienza della solidarietà autonomista fu fatto essenzialmente dalla corrente andreottiana, che aveva instaurato un rapporto molto stretto con importanti settori del Pci.

Di quel governo faceva parte fra gli altri l'on. Mario D'Acquisto, democristiano ed esponente di punta degli andreottiani siciliani, che ricopriva la carica di assessore al Bilancio. D'Acquisto, oggi vicepresidente della Camera dei Deputati, verrà in seguito preso a bersaglio dal Pci, prima sull'onda delle polemiche per le responsabilità politiche e morali dell'omicidio del generale Dalla Chiesa, poi come responsabile dell'annientamento del pool antimafia di Palermo e della nomina di Pietro Giammanco a capo della Procura di Palermo. Ma all'epoca i rapporti erano di piena e aperta collaborazione. Tant'è vero che lo stesso on. D'Acquisto, presidente limiano della Regione, fu invitato nel 1982 a parlare ai funerali di Pio La Torre, dove venne clamorosamente contestato dalla folla. E poco dopo sarà invitato a sottoscrivere, con le altre forze politiche e sindacali, un vago e unanimistico "patto di solidarietà civile tra le forze democratiche per la sicurezza delle istituzioni".

37. Per frenare il declino d'immagine e di azione politica del Pci torna nel 1981 in Sicilia, alla segreteria regionale, l'on. Pio La Torre, già dirigente regionale del movimento contadino, della CGIL e del Pci dal dopoguerra agli anni sessanta. La Torre, che oggi viene ricordato soprattutto per aver guidato la campagna contro l'installazione dei missili Cruise a Comiso, si batté con forza per liberare il Pci da tutte le incrostazioni consociative sedimentatesi nel corso degli anni. La Torre viene ucciso il 30 aprile dell'82, probabilmente per le stesse ragioni per cui due anni prima era stato eliminato Mattarella: Cosa Nostra era allora preoccupata che in Sicilia si potesse costituire un governo credibile, ed è ora preoccupata che si possa ricostituire una opposizione credibile.

Nella requisitoria giudiziaria, depositata nel 1991, sui "delitti eccellenti" di quegli anni, si legge: "Emergono chiaramente dalle risultanze istruttorie le difficoltà che La Torre dovette riscontrare, all'interno del partito siciliano, nella sua opera di moralizzazione, che egli considerava indispensabile per potere poi affrontare senza compromissioni né debolezze interne i gravi problemi dell'isola e soprattutto, - ancora una volta - quelli della criminalità mafiosa".

38. Con gli assassinii di Mattarella e La Torre cessa probabilmente la possibilità di distinguere fra omicidi di mafia e omicidi politici. O forse era già cessata con l'omicidio di Michele Reina, il segretario provinciale della Dc, andreottiano, ucciso nel marzo 1979 mentre tentava di portare i comunisti nella maggioranza anche al comune di Palermo. Scriveva sul Corriere del 7 gennaio 1980 Leonardo Sciascia, a commento dell'omicidio di Piersanti Mattarella: »Io sono stato tra i pochissimi a credere che Michele Reina, segretario provinciale della democrazia cristiana, fosse stato assassinato da terroristi. Terroristi magari un po' sui generis, come qui ogni cosa; ma terroristi. Può darsi abbia allora sbagliato, ma non credo fossero assolutamente nel giusto coloro che invece erano sicuri che Reina fosse stato ucciso dalla mafia. Oggi, di fronte all'assassinio del presidente della regione Mattarella, quella mia ipotesi, che quasi mi ero convinto ad abbandonare, mi pare che torni ad essere valida.

»Non mi pare insomma di trovarmi di fronte ad un delitto di mafia, anche se su nessun dato di fatto posso in questo momento appoggiare la mia impressione. Non sono, d'altra parte d'accordo con coloro che lo vedono come un delitto terroristico a partecipazione mafiosa. O è mafia o è terrorismo. O mafia camuffata da terrorismo o terrorismo che, inevitabilmente e confortevolmente, ci si ostina a vedere come mafia .

39. L'analisi del comportamento del Pci nei confronti dei partiti della maggioranza formale è essenziale per comprendere la natura dell'intreccio politico-mafioso in Sicilia, che è molto più complesso di quanto non facciano intendere le interessate ricostruzioni odierne. Ed è importante notare, a proposito dei delitti eccellenti in Sicilia, dalla fine degli anni settanta ai primissimi anni ottanta, una profonda diversità di vedute tra due autorevoli dirigenti del Pci. Il 15 agosto 1985 il senatore del Pci, Emanuele Macaluso scrive un articolo su l'Unità dove vengono esaminate le conseguenze che la solidarietà nazionale produsse nella vita politica della Sicilia. Macaluso sottolinea la divergenza di opinioni con il suo compagno di partito, il deputato regionale Gianni Parisi. Parisi afferma che »dopo un periodo di attesa e di speranza di assorbire e sterilizzare i comunisti, si mise in moto una forte reazione di settori politici e di mafia, prima paralizzando ogni azione di rinnovamento e poi con la violenza

. I grandi delitti (Reina, Mattarella, Giuliano, Terranova, Costa) sarebbero quindi stati compiuti per impedire che l'accordo coi comunisti venisse riproposto in termini nuovi.

40. »Io ho avanzato l'ipotesi - sostiene invece Macaluso - che nel '79 la ripresa dell'opposizione del Pci (a Palermo e a Roma) e l'opposizione al sistema di potere in punti nodali dell'apparato statale fece saltare vecchi equilibri e fece scattare la strategia dell'omicidio con lucidità per piegare i poteri pubblici a trattare, ad attenuare l'offensiva antimafiosa . Se l'interpretazione di Macaluso è quella giusta, durante il periodo di "solidarietà autonomista" la mafia aveva avuto buon gioco, essendo venuta meno nel Paese una opposizione ai partiti che ne rappresentavano più direttamente gli interessi. In Sicilia con il governo Mattarella e a Roma con il governo Andreotti, entrambi appoggiati dal Pci, la mafia si sarebbe sentita in qualche modo garantita, tanto da avviare tutta una serie di azioni cruente quando questa fase entra in crisi.

41. In un articolo sul Corriere della Sera (19 settembre 1982) Leonardo Sciascia aveva fatto una ipotesi ancora più radicale sul retroscena degli omicidi "politici" degli ultimi anni:

»Il rapporto di reciproca protezione tra uno stato in sclerosi di classe e una mafia in funzione di sottopolizia e avanguardia reazionaria, cui veniva lasciata a compenso l'esazione di determinati tributi, si è certamente infranto. Per due ragioni. Una, perché lo stato - disordinato, inefficiente, disfatto quanto si vuole - non è più in sclerosi di classe. Ragione politica, dunque. L'altra - ragione che si potrebbe dire morale, anche se nasce da precauzione e da calcolo - che la gestione della droga, pur essendo fonte di redditi ingenti, ha spaventato quegli uomini politici che, ormai appagati di quel che già avevano in potere e in beni, non volevano correre ulteriori e meno protetti rischi .

42. Aggiungeva Sciascia: » Non ci vuole grande perspicacia per capire che quello della droga è un nodo che deve venire al pettine, anche in un paese come l'Italia in cui pare che il pettine non ci sia. [...] E qui è il caso di chiarire che molto probabilmente gli uomini politici indicati generalmente come mafiosi - dall'Unità ad oggi - non sono mai stati propriamente "dentro": l'hanno protetta e ne sono stati elettoralmente protetti, ne hanno agevolato gli affari e sono stati compartecipi dei profitti: che poi i loro successi, nelle fazioni interne di partito e nelle elezioni, e i loro profitti negli affari, comportassero violenze ed omicidi, loro hanno finto di ignorare [...].

»Ma la droga non era più "qualche omicidio"; era una rete di omicidi vasta e continuata. E credo che anche una parte della mafia, pur minoritaria, sentisse allo stesso modo. La parte ancora radicata nel mondo contadino.

»In coincidenza all'emergere di questo crinale di divisione, c'è stata l'enunciazione della teoria del "compromesso storico". Teoria che che non ha fatto bene al partito comunista, ma ne ha fatto alla democrazia cristiana. Coloro che, nella democrazia cristiana, alla realizzazione del "compromesso storico" aspiravano, hanno coinvolto tutto il partito nell'ansietà di farsi assolvere, dal rigoroso e quasi ascetico partito comunista, dai tanti peccati commessi dal 1948 ad oggi, il peccato di mafia incluso.

»Da queste cose insieme, e da altre, viene il tentativo di sganciarsi, di defilarsi [...] A sua volta, da questo tentativo di sganciamento dei politici, la mafia ha paura .

43. La segreteria La Torre rappresenta una parentesi nella vita del Pci siciliano. La strategia consociativa ritrova impulso quando il nuovo segretario regionale, Luigi Colajanni propone, nell'ottobre del 1982, in una lettera aperta agli industriali siciliani, la versione siciliana del "patto tra i produttori", una "alleanza tra le forze produttive contro la mafia e per lo sviluppo" che sarà sancita due anni dopo, nel dicembre 1984. Si tratta di una sorta di accordo politico-imprenditoriale che, tra le altre cose, mette assieme, in associazione temporanea di imprese, alcune aziende della Lega delle Cooperative con aziende del gruppo Cassina (proprio l'impresa di quel conte Cassina che ininterrottamente, per quarant'anni, ha gestito i grandi appalti di Palermo e che la relazione di minoranza della prima commissione parlamentare antimafia definiva "un pilastro del sistema di potere mafioso a Palermo), mentre nascono i primi consorzi fra le cooperative "rosse" e i chiacchieratissimi cavalieri del lavoro di Cata

nia.

44. Dopo alcuni anni di autocritica e di lacerazioni interne, e mentre il declino elettorale si sommava a quello politico, nel 1991 il PDS, erede del Pci, ha rilanciato, prima a Palermo e poi nel resto della Sicilia, una versione aggiornata del "patto tra i produttori", attraverso un "Comitato permanente della Sicilia produttiva contro la mafia e per lo sviluppo". E l'attuale governo regionale, guidato dal Dc Giuseppe Campione, vede per la prima volta ufficialmente al governo anche gli ex comunisti. Anche questa volta si è parlato di governo di svolta e di rinnovamento. Ma il governo Campione ha mantenuto metodi e criteri della vecchia partitocrazia. Ne è esempio l'elezione dei componenti dei Coreco, comitato regionale di controllo. Anche nei nuovi organismi il criterio seguito nella designazione dei componenti è stato quello della lottizzazione secondo il manuale Cencelli. I partiti - e tra questi anche il Msi - si sono spartiti tutte le poltrone disponibili. Stessa cosa è accaduta con le nomine dei commiss

ari negli enti regionali e nelle Usl, nonché della nomina dei presidenti delle nove Camere di commercio dell'isola.

45. A maggior ragione vale per il consociativismo siciliano quanto ha scritto Ada Becchi ("Mezzogiorno, una strategia per il PDS", 1991) a proposito di quello meridionale: »Qui stanno i nodi del consociativismo meridionale. Perché la sinistra è stata complice del degrado delle istituzioni e delle amministrazioni. E' stata complice dell'innalzamento del grado di protezione fino ai vertici inimmaginabili delle molteplici attività a finanziamento pubblico. Complice senza fungere da protettore, visto che i protettori erano saldamente incardinati nel potere centrale e non potevano non esserlo. Ergo socio di minoranza. La sinistra è servita nell'edificare le basi del nuovo potere clientelare o lobbistico nel mezzogiorno: ha contribuito a rendere poco visibile il meccanismo che le consolidava. Ha perso, a causa del suo parziale coinvolgimento, in capacità di contrattaccare, di proporre obiettivi e schemi alternativi. E quindi ha perso voti, e, elettoralmente più debole, è diventata via via un socio accessorio, un c

ommensale che ci si può dimenticare di invitare .

La gestione consociativa e clientelare degli enti politici ed economici regionali ha causato guasti enormi. All'interno dell' Assemblea regionale, è mancata per decenni una qualunque forma di controllo. L'opposizione, Pci in testa, è pienamente corresponsabile delle degenerazioni partitocratiche e della parallela crescita dei poteri mafiosi.

PARTE III

Narcotraffico e Proibizionismo

46. Scriveva Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera del 19 settembre 1982: »Più di vent'anni fa, ho dato della mafia una definizione che credo resti di sintetica esattezza. "La mafia è un'associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo stato".

Dopo più di vent'anni, quel che vedo di cambiato è questo: che in fatto di droga la mafia non è più intermediaria, ma produttrice; e che nell'intermediazione fra il cittadino e lo stato, e nel servirsi lei stessa dello stato, non gode della stessa sicurezza di cui godeva prima .

47. E' falso il luogo comune secondo cui la mafia tradizionale avrebbe a lungo rifiutato di occuparsi del traffico di droga, per ragioni "morali" o di costume. E' vero piuttosto che soltanto a partire dalla fine degli anni settanta il commercio internazionale della droga ha assunto una ampiezza e una dimensione tali da provocare arricchimenti clamorosi e improvvisi, con la conseguenza di radicali mutamenti sia nei rapporti di forza fra le cosche, sia negli equilibri fra mafia e politica. Un certo conformismo scientifico, un certo moralismo politico, combinandosi con la ragion di stato della politica internazionale e con interessi diffusi di natura politico-finanziaria, hanno reso difficile fino ad oggi un'analisi delle mutazioni strutturali che il fenomeno del narcotraffico ha provocato all'interno della mafia e nei suoi rapporti col potere politico.

48. Ecco come Diego Gambetta descrive le origini del narcotraffico (La mafia siciliana, 1992): »Due stereotipi persistenti - che i mafiosi, come Don Corleone nel "Il Padrino", fossero riluttanti a imbarcarsi nel commercio di droga e che in Sicilia si occupassero esclusivamente di faccende rurali fino agli anni '60 - sono semplicemente falsi. I siciliani sono stati implicati in traffici di droga per moltissimo tempo. Persino prima della guerra, nel 1935, Serafino Mancuso fu condannato da un tribunale degli Stati Uniti a quarant'anni di carcere per spaccio di stupefacenti. Espulso nel 1947, tornò ad Alcamo dove riprese insieme con il fratello ciò che doveva essere un'attività di lungo periodo. [...] Nel 1960 Salvatore Mancino (fratello di Rosario), Angelo La Barbera e Pietro Davì furono avvistati a Città del Messico e successivamente espulsi dagli Stati Uniti e dal Canada per traffico di stupefacenti. Nello stesso anno furono sequestrati a New York dieci chili di eroina; le tracce puntavano verso Salemi, nella

Sicilia occidentale. Se qualcosa andava storto in queste spedizioni particolari, l'uomo da contattare era Salvatore Greco, "il Lungo". L'elenco dei sequestri e degli arresti prosegue goccia a goccia, senza quasi mai saltare un anno, fino agli anni '70 quando si ingrossa e diviene un torrente .

49. Durante gli anni settanta infatti la produzione internazionale del papavero da oppio e quella delle foglie di coca si impenna. Cresce allo stesso tempo la domanda di eroina sui mercati europeo e americano. Le cosche mafiose più attente ai nuovi mercati illegali decidono di investire di più nel traffico internazionale della droga. Negli anni ottanta alla mafia siciliana viene attribuito il controllo del 30% del traffico mondiale di eroina verso gli Stati Uniti.

Ha dichiarato Tommaso Buscetta il 17.11.92 davanti alla Commissione parlamentare antimafia: »Cosa Nostra cominciò il traffico di droga nel '78. Ci fu un salto di qualità. Prima c'era il contrabbando di sigarette, poi si entrò nella fase del contrabbando di droga. E lo fecero con grande rilevanza. Quando uscii [dal carcere] nell'80 vidi che i valori si erano persi: chi aveva ville al mare, ville in montagna. Il traffico di droga ha deviato Cosa Nostra, ha fatto perdere i valori. Non ridete, per favore. Io sono nato così, difficilmente si può cambiare, e credevo in quella cosa .

50. Nel libro citato di Gambetta troviamo un'attenta analisi delle confessioni dei più importanti pentiti di mafia in merito al traffico di droga e alle sue conseguenze destabilizzanti all'interno di Cosa Nostra: »Buscetta e Contorno dicono che i confini delle famiglie mafiose divennero irrilevanti: a ciascuno era concesso di associarsi, finanziariamente o in altro modo con chiunque altro, che fosse mafioso o no. Se un'autorizzazione della famiglia era necessaria, questa riguardava solo il traffico in generale e non il come o con chi: secondo Buscetta, "i più anziani ed i meno intraprendenti partecipano in misura irrisoria o addirittura vengono esclusi dai benefici del traffico di stupefacenti". Quando gli si chiese se un capomafia poteva impedire alla sua famiglia di intraprendere una certa attività, Contorno rispose che in linea di principio poteva, ma che Bontade non era stato per esempio in grado di imporre un qualsiasi divieto perché i profitti erano così alti che chiunque voleva prendervi parte ed egli

era impotente contro tanta gente: "La maggior parte lo faceva perché i soldi erano moltissimi, era meglio dei fabbricati, meglio di qualsiasi cosa. Per cui se investivano cento milioni subito ne facevano trecento, allora chiunque si buttava nel traffico della droga [...]. Si triplicava, non era come le sigarette; perciò tanti si buttavano nel traffico, tantissimi".

51. »Secondo Buscetta, la presenza di esterni ebbe ripercussioni negative: "Per le esigenze del traffico, è stato necessario ricorrere anche a uomini non mafiosi e ciò è stata causa non ultima della confusione che si è venuta a creare". Ma se era impossibile fare a meno di esterni in tutte le operazioni del traffico, anche farli entrare tutti non era praticabile. Trovare il giusto compromesso non era facile: la famiglia di Bontade, ad esempio, pagò cara l'eccessiva liberalità nelle affiliazioni: l'alto numero di affiliati, che nel corso degli anni '70 crebbe da cinquanta a centosessanta membri, destabilizzò l'autorità di Bontade e fu quasi certamente tra le cause della guerra di mafia scoppiata all'inizio degli anni '80. Quanto sia stato micidiale per loro questo cocktail alla droga si desume dal numero dei morti della guerra degli anni '80 (cinquecento è una stima prudente); da quello di coloro che si pentirono per salvarsi la pelle e da quanti sono finiti in prigione di conseguenza .

52. Negli anni ottanta il traffico di droga si è dunque inserito strutturalmente nell'attività mafiosa, creando nuove - altrimenti inimmaginabili - potenzialità finanziarie, nuove forme organizzative, nuovi modelli di rapporto col mondo politico. Si è citata l'opinione espressa da Leonardo Sciascia all'indomani della catena di delitti a cavallo degli anni ottanta. Ecco cosa pensa oggi uno storico della mafia come Michele Pantaleone ('il manifesto', 29 dicembre 1992): »La mafia non ha bisogno attualmente del potere politico per accumulare ricchezza. La ricchezza della mafia viene dai traffici di droga. Non sono d'accordo con il sociologo Arlacchi, che sostiene che gli appalti pubblici rappresentano la fonte principale dell'accumulazione mafiosa. La mafia diventa imprenditrice solo per poter giustificare le immense ricchezze accumulate illegalmente. La mafia, dicevo, ha bisogno del potere politico per garantirsi l'impunità .

53. Il pentito Leonardo Messina ha dichiarato davanti alla Commissione parlamentare antimafia (4 dicembre 1992) che »Mentre la mafia tradizionale si accontentava di stare vicino agli onorevoli - c'è stato sempre contatto tra politici e Cosa Nostra, sono stati sempre molto vicini - ora è un atteggiamento di ricchezza. Prima il boss, il mafioso, non era così ricco e importante. I politici si sono trovati ad averlo imposto; un po' gli è convenuto perché fanno lo stesso nostro lavoro in un certo senso . Messina si riferisce - è da immaginare - alla rapina della cosa pubblica, con cui identifica la politica, almeno quella Sicilia. Ma da dove nasce questa nuova forza e la nuova strategia mafiosa, o per meglio dire dei corleonesi, verso la "politica"? A questa domanda Messina risponde: »Principalmente dalla ricchezza che hanno avuto dal traffico degli stupefacenti, perché c'è una ricchezza immensa, e anche dai corleonesi che sono in una fase di trasformazione di Cosa Nostra. Stanno organizzando uomini che non prese

ntano più a nessuno. [...] Cosa Nostra è destinata in un certo senso a scomparire, a indossare una nuova veste .

54. Catania rappresenta un caso esemplare della svolta che la ricchezza legata al traffico di droga ha impresso ai rapporti fra mafia e politica, o per meglio dire fra mafia, politica e quell'imprenditoria cresciuta sfruttando i "servizi" forniti sia dal sistema partitocratico che da quello mafioso. Il fenomeno è stato studiato dal sociologo Raimondo Catanzaro, le cui tesi si possono così riassumere: Catania ha vissuto a lungo su un'alleanza molto stretta fra un gruppo di imprenditori emergenti che si erano sostanzialmente arricchiti con lo sventramento della città operato dall'amministrazione locale, retta egemonicamente dalla Democrazia Cristiana, e dal principale gruppo che la dominava, quello dei dorotei capeggiato da Drago. Alla metà degli anni '70, questo equilibrio fra gruppi imprenditoriali e ceto politico si spezza, proprio a causa del grande potere economico del settore imprenditoriale. La classe politica locale non è infatti più in grado di garantire alla imprenditorialità locale capacità di espa

nsione su mercati diversi da quello locale. Sarà la mafia a risolvere la crisi.

55. Ha osservato Raimondo Catanzaro (convegno del CORA "Antimafia? Antiproibizionismo", 1991): »Nel frattempo cosa era successo a livello della criminalità della città? Era accaduto un fenomeno di profonda trasformazione: dalla vecchia criminalità basata sul contrabbando di tabacchi, le rapine, la prostituzione eccetera si era cominciato a passare a forme criminali più centralizzate, più organizzate. La droga rappresenta il punto di svolta. Emergono i nuovi protagonisti della criminalità mafiosa catanese, i Ferrera detti Cavalluzzo, i Ferlito e i Santapaola. Questi soggetti, paradossalmente, rispetto ai politici presentano agli occhi degli imprenditori un grande vantaggio: per i collegamenti di mercato che hanno - il mercato della droga- sono in grado di garantire meglio dei politici locali la possibilità di penetrare su aree di mercato che non sono più quella limitata di Catania o della Sicilia orientale, e quindi di conquistare appalti, commesse, forniture ed altro. Questa, fra l'altro, era la cosa che a

veva intuito il Prefetto Dalla Chiesa quando parlava dei gruppi mafiosi catanesi a Palermo .

56. Sono gli anni del "patto fra i produttori" che lega negli stessi consorzi le cooperative rosse e le aziende catanesi dei Costanzo. Secondo l'analisi di Catanzaro, che conferma le valutazioni di Sciascia, di Pantaleone e altri, »è sulla base del crollo dell'egemonia di un'élite politica locale, dell'espansione di gruppi imprenditoriali che erano sorti come imprenditori assistiti, e dell'emer gere di alcune organizzazioni oligopolistiche del traffico di droga e della criminalità mafiosa nella città di Catania- che si spezzano quegli equilibri e si crea questa possibilità di sviluppo .

57. Mancano ancora studi approfonditi sulle modalità del traffico internazionale della droga. Come scrive Ada Becchi ("Proibito?", 1993), »Vi sono ragioni serie per ritenere che l'internazionalizzazione crescente delle attività illegali, cui la proibizione del traffico di droga ha fornito un contributo importante, non abbia rafforzato una singola mafia, ma abbia portato alla formazione di un mercato molto ampio e variegato. e sostanzialmente competitivo, dei servizi criminali a scala internazionale . Fenomeni di "divisione del lavoro criminale" avverrebbero anche su scala nazionale, col moltiplicarsi delle imprese criminali locali, di origine malavitosa, legale o mista.

58. Interessante a questo proposito è quanto dichiarato da Messina sempre nell'audizione del 4 dicembre 1992: »In precedenza, nei primi anni ottanta, anche noi delle famiglie interne eravamo autorizzati a trafficare in stupefacenti: oltre ad avere messo la quota, ognuno poteva prendere la droga e venderla nel proprio territorio. Da alcuni anni c'è stata tolta questa possibilità e soltanto chi ha agganci fuori dalla Sicilia può trafficare in droga . Messina spiega che oggi le "famiglie" non partecipano direttamente ai traffici, ma sono piuttosto azioniste di una organizzazione finanziaria che raccoglie le quote e distribuisce gli utili: »Bisogna considerare che noi non siamo gli artefici del traffico: "apparteniamo" quando la regione fa dei traffici su sigarette, droga ed altro e il mandamento chiama la famiglia alla quale domanda se vuole partecipare al traffico . Quanto si può ricavare dalla droga? »Tantissimo. Ci sono persone che hanno messo 200 milioni e oggi hanno 25 miliardi. I papà sono morti da dieci

anni ed hanno lasciato qualcosa al figlio, che, per esempio, nel giro di tre anni, dopo aver partecipato per 200 milioni con Stefano Bontade, ha venti miliardi di proprietà .

59. Alla domanda sulle ragioni di questa divisione del lavoro all'interno del sistema mafioso Messina, che non ha consulenti economici, dà una risposta romantica: »Non vogliono che la nostra gente si droghi, perché sono stati coinvolti alcuni nostri figli e pensano ai figli degli altri . In realtà è evidente che la centrale operativa del traffico di droga si è spostata nel corso degli anni dalla Sicilia alle altre regioni italiane. Basti pensare ai dati forniti davanti a questa Commissione dalla procura distrettuale di Milano sulla feroce lotta per il controllo del mercato della droga a Milano e nel suo hinterland. Lotta che ha provocato nel 1992 ben 322 morti per omicidio volontario nella guerra che impegna circa quaranta bande dedite allo spaccio degli stupefacenti.

60. Il culmine del coinvolgimento della mafia siciliana nel traffico internazionale della droga si sarebbe toccato intorno alla metà degli anni ottanta, per poi scemare successivamente. Secondo Giovanni Falcone ('Cose di Cosa Nostra', 1992), »Mentre qualche anno fa Cosa Nostra gestiva il 30 per cento del traffico mondiale di eroina verso gli Stati Uniti, nel 1991, secondo stime americane, la quota è scesa al 5 per cento. Altri gruppi sembrano prevalere adesso: cinesi, portoricani, curdi, turchi, armeni . Falcone riferisce dati americani; ammesso pure che i colpi infersi alle organizzazioni siciliane negli Stati Uniti abbiano ridotto la loro presenza sul mercato, le cifre assolute dei traffici restano altissime, visto il costante incremento del consumo negli USA nel corso degli anni ottanta. Quanto alla presenza mafiosa sui mercati europei, non risultano operazioni di polizia analoghe a quelle della Pizza Connection negli USA, ed è accertato il ruolo preminente assunto dalle mafie italiane nell'apertura, in a

ssociazione coi cartelli colombiani, del mercato europeo della cocaina, tuttora in fase sviluppo. E la mafia sembra essere stata la prima organizzazione internazionale a proiettarsi sui nuovi mercati nati dalla frantumazione del mondo comunista in Europa.

61. Qual è oggi la dimensione dei profitti legati al traffico di droga? Le valutazioni più attendibili sono quelle del GAFI, il Gruppo di azione finanziaria internazionale, istituito nel 1989 dal vertice dei sette paesi più industrializzati. Il GAFI stima che ogni anno nel mondo venga riciclata una somma, proveniente dal traffico di droga, oscillante fra i 120 e i 150 miliardi di dollari. Per l'Italia le stime più prudenti, quelle dell'ISTAT, parlano di un mercato che oscilla fra i 9500 i 13 mila miliardi, di cui circa 7 mila per l'eroina. In realtà soltanto il consumo d'eroina è in qualche misura sotto controllo, attraverso i dati forniti dai SERT (servizio per la tossicodipendenza) e da estrapolazioni sulla microcriminalità. Lo SCA (Servizio centrale antidroga) fissa invece in 15 mila miliardi all'anno la base minima del fatturato dei narcotrafficanti. Quanto al numero degli addetti al traffico di droga, l'ISTAT stima in 10 mila i grandi trafficanti e in 55 mila gli spacciatori di strada.

62. Intervenendo nel 1991 a Bruxelles davanti alla Commissione d'inchiesta del Parlamento europeo sulla criminalità organizzata legata al traffico di droga, Amato Lamberti, direttore dell'Osservatorio sulla Camorra di Napoli ha osservato: »La disponibilità di enormi capitali, dell'ordine di diverse decine di migliaia di miliardi di lire, sia pure distribuiti tra circa tre cento "clan" criminali, spesso in guerra tra loro, ha favo rito la trasformazione di questi clan in vere e proprie holding economico-finanziarie che operano nei più diversi settori produttivi, dal commercio, al mercato immobiliare, alla fornitura di servizi, all'industria delle costruzioni, all'intero settore agro-alimentare, ecc.

In pratica, questi clan, danno vita ad una miriade di società finanziarie con le quali operano sul mercato economico a tutti i livelli, ivi compreso quello finanziario, operando come delle vere e proprie banche. La disponibilità di denaro, inoltre, per mette di operare ulteriori investimenti sul mercato della droga, in modo da favorire sempre più alti livelli di con sumo di droga, anche attraverso l'immissione sul mercato di nuovi stupefacenti. Questo denaro favorisce anche ulteriori investimenti sul mercato delle attività illegali tradizio nali, quali il contrabbando, il gioco d'azzardo, la prosti tuzione, la produzione di merci falsificate nella "marca".

Infine, ma è un effetto di grande importanza, questa dispo nibilità di denaro proveniente dai traffici di droga, dopo essersi tradotto in società finanziarie ed imprese di co struzione e/o di fornitura di servizi, facilita il con trollo della spesa pubblica delle amministrazioni locali sia nelle regioni del Sud che nelle altre regioni d'Italia in cui queste organizzazioni si sono operativamente inse diate. Non bisogna dimenticare che il mercato della droga ha anche favorito la moltiplicazione dei "clan" mafiosi e dei "gruppi" criminali in tutta Italia .

63. Continuava Lamberti: »La necessità del con trollo e del continuo ampliamento del mercato della droga ha, per così dire, costretto queste organizzazioni crimi nali a compiere un salto di qualità, per rendersi sempre più efficienti e sempre più adeguate alle nuove esigenze. Da fenomeni locali e regionali si sono innanzitutto tra sformate in fenomeni nazionali e internazionali. La 'ndrangheta, la mafia calabrese, prima della droga era un fenomeno limitato ad una piccola area della Calabria, la provincia di Reggio Calabria. Oggi, in collegamento con la mafia siciliana, ma anche autonomamente, controlla la via medio-orientale del traffico di eroina che assicura l'approvvigionamento del mercato statunitense controllato dalla mafia locale. In Italia controlla il mercato della droga in intere regioni, come il Piemonte. In Europa ha basi operative accertate sia in Svizzera che in Germania e in Francia.

Anche la camorra, la mafia napoletana, prima della droga era un fenomeno regionale di limitate dimensioni. Oggi, in collegamento con i narcotrafficanti sudamericani controlla una quota consistente del traffico di cocaina in Italia e in Europa. Ha impiantato basi operative in Spagna dove la merce viene accantonata prima di prendere la strada dei più diversi paesi del Nord Europa e dell'Italia. Le nuove esigenze operative hanno portato la camorra a trasferire le direzioni strategiche dei diversi clan fuori da Napoli e dall'Italia. Michele Zaza e Mario Iovine si erano stabiliti in Francia in Costa azzurra, Ernesto Bardellino tra Santo Domingo e Brasile; Ammaturo in Spagna; Iacolare in Argentina; Nuvoletta in Germania. I tutti questi paesi oltre a gestire segmenti del traffico di droga hanno operato investimenti finanziari e produttivi e stabilito relazioni con apparati di controllo sociale e personalità del mondo della politica e della finanza. Anche la mafia siciliana assume importanza internazionale con la

droga, quando assume il controllo del traffico di morfina-base dal medio e dall'estremo Oriente verso gli Stati Uniti e della raffinazione della morfina-base in eroina. Anche in Sicilia il peso della mafia, già notevole, diventa ancora più importante grazie alla aumentata disponibilità di denaro.

64. »La droga, inoltre, facilita la saldatura tra i diversi traffici illegali gestiti dalle diverse organizzazioni mafiose. La camorra che gestiva il contrabbando di sigarette riutilizza ampiamente questa struttura molto articolata anche per quanto riguarda la droga, così come già aveva fatto per le armi. La rete del contrabbando di tabacchi viene anzi messa a disposizione anche di altre organizzazioni, come la mafia siciliana, per quanto riguarda la droga. Si creano così interconnessioni, joint venture, che allargano a dismisura le dimensioni del business droga.

Le organizzazioni di tipo mafioso non sono però le uniche operanti sul mercato italiano, soprattutto a livello di spaccio al minuto. Si può anzi dire che, tranne che in alcune regioni, le organizzazioni mafiose preferiscono dedicarsi esclusivamente al controllo dell'approvvigionamento, della raffinazione, della vendita all'ingrosso. Sul territorio lo spaccio è lasciato ad altre organizzazioni criminali, spesso di recente costituzione ad opera di criminali tradizionali o di sbandati, o di giovani violenti, senza cultura e prospettive sociali, in cerca di una qualche realizzazione economica. C'è anche spazio per organizzazioni gestite da stranieri. In Italia la cocaina è venduta direttamente anche da organizzazioni boliviane, equadoregne, colombiane. L'hashish da organizzazioni tunisine, marocchine, senegalesi, tanzaniane, turche, libanesi, pakistane. Le amfetamine, come l'estasi e l'ice, sono vendute da giovani spesso scolarizzati in tutti i luoghi di aggregazione ricreativa dei giovani, come le discoteche,

ma non si hanno notizie sulle organizzazioni che assicurano produzione e rifornimenti .

65. L'ultimo rapporto del Dipartimento di Stato USA sulla lotta al narcotraffico (1993) conferma il ruolo determinante della mafia siciliana fra le organizzazioni criminali mondiali: »Il gruppo più potente e meglio organizzato è la mafia siciliana che non soltanto traffica in eroina e cocaina ma usa la sua rete mondiale per trarre vantaggio dal differenziale dei prezzi di queste droghe negli USA e in Europa. I baratti divengono più comuni. La stessa rete ha messo in grado la mafia di diventare l'agente d'affari di molte altre organizzazioni. Stando a quanto si dice, per un tasso del 20 per cento o più, la mafia garantisce la sicurezza dei suoi depositi, che includono investimenti in azioni, titoli di stato, immobili, e una serie molto diversificata di affari, molti dei quali divengono la copertura per il riciclaggio del denaro. La difficoltà di identificare queste società di copertura nasce dal fatto che molte di esse hanno solide tradizioni, e generalmente svolgono un'attività legale che genera fondi. La ma

fia investe in Spagna, Francia, Lussemburgo, Lichtenstein, Olanda, Svizzera, come in Italia. Un obiettivo preferito in ogni paese è l'industria delle costruzioni, controllata direttamente o costretta a comperare merci e servizi da società controllate dalla mafia .

66. Il Sole 24 Ore ha intervistato, il 3 maggio 1993, John Costanzo, capo della Dea (Drug Enforcement Agency) a Roma:

»D - Le organizzazioni italiane sono ormai fuori dal mercato?

R - La mafia ha subito una bella stangata, ma non è a terra: ha preso solo un brutto colpo. Io sono pessimista da 24 anni, praticamente da quando lavoro per la Dea, perché assisto all'avanzata continua del business della droga. L'unica preoccupazione che non ho è quella di perdere il posto. I miei colleghi italiani, invece, sono generalmente più ottimisti.

D - Quali effetti avrà l'uscita di scena dei vari Riina, Madonia, Alfieri?

R - Il business del traffico di droga non si ferma. L'Ibm forse si blocca se l'intero consiglio di amministrazione viene rimosso? .

CONCLUSIONI

67. C'è dunque una grande, abissale, distanza fra l'analisi che troviamo nella relazione della maggioranza e quanto è accaduto in Sicilia dal dopoguerra sotto l'ombrello di Cosa nostra. In una prima fase il rapporto tra politica e mafia in Sicilia è stato probabilmente molto simile a quello intercorso a suo tempo tra il latifondo agrario e le "sottopolizie" mafiose che operavano in difesa dell'ordine costituito contro i contadini ribelli e i loro sindacalisti, con la differenza che tale apporto si era trasferito dai lotti agricoli a quelli politici e partitocratici.

Questa relazione di minoranza ha cercato di delineare quale sia stata l'evoluzione di questo fenomeno; come Cosa Nostra abbia cessato ad un certo momento di essere una "sottopolizia" al servizio dei "latifondisti" partitocratici che si spartivano - e con essa spartivano - appalti, costruzioni, ricostruzioni, fondi straordinari, fondi CEE e così via; come abbia potuto ribaltare - grazie in particolare al traffico di droga - il rapporto di forza col sistema dei partiti. Come probabilmente oggi aspiri a "scomparire per indossare una nuova veste", come dice il pentito Messina.

68. Del tutto reticente nella sua analisi delle distorsioni politiche (fino a riproporre la ridicola interpretazione di un potere mafioso alimentato dalla contrapposizione fra Pci e fronte anticomunista, e destinato perciò a deperire dopo il crollo dell'impero sovietico), la relazione della maggioranza non si interroga neppure, anche se il tema è stato all'ultimo minuto recuperato, sul modo in cui negli anni Ottanta il traffico di droga si è inserito nella struttura di Cosa nostra, su come abbia travolto e scompaginato le relazioni tradizionali fra le cosche, e fra mondo politico e mondo criminale. Dare attenzione al fenomeno del narcotraffico è invece indispensabile proprio per comprendere come siano saltate certe relazioni tradizionali tra mafia e politica, come nuove e più vaste alleanze siano sorte, e come, di conseguenza, dobbiamo modificare le forme della lotta politica e legislativa contro la mafia, scongiurando il pericolo che Cosa nostra e le nuove narcomafie si rifondino in tutto il loro potere nel

le altre regioni italiane.

69. Occorre dunque rinnovare dalle sue basi il sistema politico, sostituendo alle degenerazioni consociative e partitocratiche la moralità della lotta politica, della decisione e del controllo (politico ma anche giudiziario). Essenziale a questo fine è una riforma del meccanismo elettorale, in senso uninominale maggioritario ad un turno, in modo da ridurre al massimo le possibilità di influenza dei gruppi mafiosi nella elezione di propri rappresentanti negli organismi rappresentativi. La riforma recentemente varata dall'Assemblea regionale siciliana non è adeguata allo scopo, proprio perché mantiene in vita il sistema dei partiti e delle fazioni. Essenziale è anche una radicale modifica del sistema degli appalti pubblici, visto che il sistema delle anticipazioni (denaro fornito dallo Stato alle imprese, prima dell'inizio dei lavori) e l'uso distorto dell'affidamento in concessione che, introdotto nella legge n. 219 del 1981 per la ricostruzione dei territori colpiti dal terremoto (con appalti e subappalti a

trattativa privata ed imponenti anticipazioni) e poi esteso a tutto il territorio nazionale, ha determinato una corruzione generalizzata, mafiosa o di stampo mafioso.

70. Ugualmente decisivo è sottoporre a una drastica revisione la strategia proibizionista. Questa da un lato si è rivelata impotente dinanzi alla diffusione della droga illegale e del suo consumo; dall'altro ha favorito e favorisce l'espansione e il consolidamento di organizzazioni criminali sempre più potenti, sia economicamente che politicamente, attive su tutti i mercati illegali e sempre meglio capaci di intervenire - con effetti devastanti per il tessuto civile del paese - sui mercati legali.

71. Il largo voto alla relazione della maggioranza dimostra che è mancato il coraggio di compiere quegli atti di verità e di chiarezza che sono necessari per costruire un futuro diverso, in Sicilia e nel mezzogiorno, come nel resto del paese. Eppure in gioco è la stessa democrazia: la possibilità di fare politica sulla base del voto libero e del consenso, di intraprendere e lavorare dentro le regole del mercato economico, di vivere e operare in una società che consenta progresso individuale e sociale, e in cui il timone del cambiamento non sia retto da poteri invisibili.

 
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