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Pannella Marco - 17 giugno 1993
La nostra battaglia non è finita
di Marco Pannella

SOMMARIO: Dai primi incontri ai tempi della Lega Italiana per l'Istituzione del Divorzio fino alla campagna "per la giustizia giusta", Marco Pannella ripercorre le occasioni di incontro con Enzo Tortora e le battaglie condotte insieme. L'ultima iniziativa, prima di morire, la costituzione della "Fondazione Enzo Tortora" »volta a assicurare in Italia ed in Europa quella difesa ed affermazione dei diritti fondamentali, a cominciare da quelli alla propria immagine, alla propria identità, alla propria onorabilità e reputazione per ogni persona, senza i quali non v'è vita civile e democratica possibile in una società contemporanea . Ma questa fondazione rischia di scomparire perchè nessuno ha mostrato interesse ai suoi propositi.

(Enzo Tortora, "Lettere dal carcere", Un carteggio inedito con interventi di Enzo Biagi, Francesco Cossiga, Indro Montanelli, Marco Pannella, Sergio Zavoli, allegato a EPOCA del 17 giugno 1993)

Ci conoscemmo ai tempi della Lega Italiana per l'Istituzione del Divorzio (LID), che Tortora fu tra i pochissimi ad aiutare in modo militante al momento giusto. Eravamo poi divenuti sufficientemente amici da esser ospite di Enzo, alcune volte, nei miei passaggi milanesi. Una sera quasi altercammo. Enzo era stato amico del commissario Luigi Calabresi, con il quale anch'io avevo avuto occasioni sporadiche di incontro e di dialogo, ma amico ero stato soprattutto di Pino Pinelli. Pino era morto da poco, Calabresi non era stato ancora assassinato. Non avevo certezze, se non una: Pino era entrato in piene condizioni di salute in Questura, ne era uscito cadavere. Per Enzo la sua morte non poteva che esser dovuta a suicidio o a un mero incidente. "Se dovessi pensare che in uno Stato come il nostro, e da parte di un cittadino e di un poliziotto come Calabresi, una qualsiasi altra spiegazione possa esser fornita, mi crollerebbe il mondo addosso." Come sappiamo , gli crollò. Per anni non ci vedemmo più tranne nel

1979 quando mi invitò ad una delle sue "tribune elettorali", consistenti in un dialogo fra lui "barbiere" ed il politico suo cliente, dal quale egli esclude qualsiasi riferimento ai problemi della giustizia e delle legislazioni dell'emergenza, che pure sempre più avevano caratterizzato la nostra e la mia azione. Ma il clima, l'atmosfera anche prima e dopo l'intervista furono da parte sua più che cordiali, affettuosi.

Mi scrisse da Regina Coeli, poi dal carcere di Bergamo, ricevendo la nostra lite di un tempo ("vivevo in un altro mondo, che non c'era..."), sgomento e tramortito, nell'incubo riuscito di una epopea della giustizia italiana. Camorristica e partitocratica, corrotta intellettualmente prima ancora che moralmente, stragista e profittatrice, in perfetta osmosi con il ceto politico dominante, malgrado che al suo interno, più ancora forse che da noi, si manifestassero resistenze e oppressioni verso centinaia e centinaia di magistrati capaci ed onesti, troppo spesso tentati e vinti dalla rassegnazione e dalla rabbia.

Non ebbi pregiudizi, nè nei suoi confronti ed a suo favore, nè contro i magistrati. Nè me li chiese, o mi rimproverò di non averne avuti. Il mondo carcerario, le ordinarie storie dei carcerati e di imputati, cominciarono ben presto, mediati e arricchiti dalla sua cultura, che era autentica e autenticamente illuminista e liberale, a fargli ripetere il voltairriano "tali le carceri, tale il Paese", o la goethiana verità sui mostri prodotti nel mondo dai sonni della ragione. Giravamo, noi radicali, nelle carceri, da sempre e - allora - da soli. Accumulammo informazioni, atti di giustizia, che studiavamo. Eravamo ancora impegnati a ottenere i processi per gli imputati del "7 aprile", ed Enzo ne scopriva la verità, non dissimile per molti versi da quella che lo aveva investito come un ciclone caraibico, divellendolo come un fuscello. Ancora cinque mesi dopo il suo arresto, sulla stampa ed alla televisione, grandinavano calunnie, diffamazioni, falsità. Il festival turpe dei "pentiti" subordinati, ricattati, n

utriti, unica fonte giornalistica per quasi tutte le testate, incalzava, lo "pugnalava", in "una immonda Piedigrotta", mentre i muri delle sue celle divenivano riedizione delle pagine kafkiane, di Castelli e di Processi mortali. Dalle sue lettere, i tasselli del puzzle si componevano via via con gli altri: la tangentopoli napoletana del dopo terremoto, del Valenzi II, del caso Cirillo, di questo spostarsi sul fronte napoletano e campano del golpismo piduista, di "unità nazionale", dello scalfarismo sfascista, dopo l'esito per loro disastroso del "caso d'Urso", l'azione terroristica ed i disegni folli del terrorismo di Senzani, la necessità di un diversivo di taglia, adeguato, per depistare e il dibattito e lo scontro politico, e la feroce spartizione dell'immenso bottino finanziario e di potere e sottopotere delle sovvenzioni statali nell'universo camorristico dei ceti dominanti a Napoli, in Campania, per tanta parte a Roma. Di tutto questo Enzo, a lungo, restò all'oscuro, non metabolizzando il suo organismo

intellettuale e fisico una così complessa realtà politica di regime; in un certo senso egli restò costretto ad una simbiosi con l'universo giudiziario e criminale, giornalistico e televisivo, che ogni giorno lo sottoponevano puntualmente a tortura.

Perchè egli era altro che innocente. L'innocenza di un individuo, in genere, pur sempre s'inquadra in un contesto nel quale in qualche misura egli vive, egli passa o è passato. E', insomma, colui che interpreta il ruolo dell'innocente in un dramma dove i colpevoli sono altri, ma che è pur sempre dramma comune. Invece Enzo era totalmente, antropologicamente, esistenzialmente, sul piano della cronaca, "estraneo", "alieno" alla vicenda ed ai fatti, misfatti, invenzioni, crimini in cui l'avevano coinvolto. Magistrati, giornalisti, pentiti, testimoni, opinione pubblica di regime, avvocati, coimputati, "innocenti" e colpevoli, "omonimi" e politici coinvolti, potevano esser tutto, fuori che "estranei", come lui. Incapace quindi di capire l'insieme, inchiodato a scoprire ogni volta, sgomento, la nullità, l'impossibilità di ogni nuova accusa, che viveva invece, immediatamente, con la forza di una condanna.

Riacquistò forza e intelligenza adeguate solo dopo che lo strappammo dal carcere, lo volemmo eletto al Parlamento europeo, occupammo il suo spazio, la sua casa, i suoi giorni, vivemmo e facemmo vivere il suo processo come nostro, e di tanti. Leonardo Sciascia s'era convinto anche prima di me, di molti di noi, non solamente della mostruosità dell'intera vicenda, ma della assoluta innocenza di Enzo. Tortora parlamentare europeo, esponente politico, militante del Partito Radicale, imputato non connivente nemmeno con le "prudenze" processuali e tattiche, cui quasi tutti si rassegnavano e si rassegnano nel processo italiano, ha dato vita a comportamenti che il nostro Paese non ignora ma non comprende ancora. Ne ha nozione, non conoscenza. Si sa, ma non si comprende cosa questo significhi, abbia significato, che, secondo la tradizione del Partito Radicale e della nonviolenza, ma in un contesto senza precedenti per gravità, egli si dimise dal Parlamento europeo per protesta contro il voto assolutamente unanime

, scandalizzato, veemente, contrario alla autorizzazione a procedere contro di lui, ed al suo arresto, emesso da parlamentari di dodici Paesi, e di ogni famiglia politica. E tornò in tal modo agli arresti domiciliari, dopo esser stato condannato da un plotone di esecuzione più che da un Tribunale di un Paese civile come "cinico mercante di morte", camorrista e via bestemmiando, mentre quasi tutti temevano un giudizio di appello e di cassazione di ordinaria ingiustizia. Vivemmo insieme da compagni, da colleghi, da fratelli. Dissentendo spesso nelle analisi, nelle opportunità da scegliere, specie per quel Partito Radicale che egli finì quasi per amar troppo, tanto gli pareva impossibile che il regime corrotto e corruttore, violento e antidemocratico per tanti versi, potesse avere la stessa feroce efficacia che aveva avuto conto di lui, anche contro quel suo Partito. Egli restava in verità disarmato rispetto alla concreta, specifica nequizia di questo tempo, di questa società. Si alternavano in lui disperazione

e entusiasmi, dinanzi alle cronache italiane. L'ignobile, e anticostituzionale, "legge Vassalli" che ha liquidato il risultato referendario sulla giustizia giusta e la responsabilità civile dei magistrati, autentico anche se marginale "colpo di Stato" avallato dal Presidente Cossiga, gli inferse l'estrema pugnalata. L'80 per cento del Paese gli aveva dato ragione e giustizia e speranza. Con un colpo di spugna tutto era tornato come prima, peggio di prima. O così gli apparve.

Ma non volle andarsene rassegnato, battuto. Così scrivemmo insieme un appello ed un articolo che il Corriere della Sera pubblicò annunciando la costituzione di una "Fondazione Enzo Tortora" volta a assicurare in Italia ed in Europa quella difesa ed affermazione dei diritti fondamentali, a cominciare da quelli alla propria immagine, alla propria identità, alla propria onorabilità e reputazione per ogni persona, senza i quali non v'è vita civile e democratica possibile in una società contemporanea. Volta anche -nelle sue e nostre intenzioni- a lanciare un "premio Nobel" per la giustizia che, incredibilmente, manca nel mondo. Per anni abbiamo cercato di ottenere che questa Fondazione vivesse, avesse aiuti ed incoraggiamenti adeguati. Il 30 giugno dovremo invece, probabilmente, annunciarne la scomparsa. Perchè il Paese, i suo intellettuali, i suoi "partiti", le sue forze "democratiche e civili", le sue istituzioni, anche, l'opinione pubblica, disinformata, non hanno mostrato alcun interesse. La "Fondazione"

doveva anche occuparsi di salvaguardare sul piano giudiziario la onorabilità e la memoria di Enzo. Epoca, i suoi lettori, ci aiuteranno ad impedire quest'altra pugnalata?

Marco Pannella

 
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