di Ernesto BettinelliSOMMARIO: Due concezioni dello Stato a confronto.
Dal prevalere dell'una o dell'altra é diretta conseguenza tutta la politica inerente la giustizia e la sicurezza.
Un utile referente teorico per i legislatori e per i militanti abolizionisti
(CAMPAGNA PARLAMENTARE MONDIALE PER L'ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE ENTRO IL 2000 - Partito Radicale/Lega Internazionale per l'abolizione della pena di morte entro il 2000)
Le reiterate, clamorose ed"esemplari" esecuzioni in alcuni stati USA ripropongono il dibattito sulla pena di morte. Si confrontano le opinioni di sempre. Da una parte, gli assertori della sua opportunità-utilità approfittano delle emozioni popolari diffuse, che i mass media contribuiscono ad esasperare, per rilanciare le solite, antiche argomentazioni: la pena capitale è l'unico mezzo per ripagare la società dell'insostenibile violenza subita da chi, violando il patto di convivenza, compie trasgressioni irrimediabili e incommensurabili (reati particolarmente efferati, quali: omicidio premeditato, stupro contro minori). Si tratta -affermano costoro- di un'evidente questione di giustizia: è "giusto" che quanti non tengono in nessun conto la vita altrui siano eliminati. Altrimenti risulterebbe menomata la stessa forza-supremazia dello Stato, titolare esclusivo del potere di rispondere alle domande di giustizia; né si potrebbero placare le tentazioni di vendetta privata che, in una spirale incontrollabile, verre
bbero a turbare la tranquillità sociale con ulteriore grave delegittimazione dell'"effettiva" autorità dello stato.
Si è richiamata per prima questa concezione essenzialmente "retributiva", perché è quella che riesce più facilmente a far presa sui sentimenti della cosiddetta "gente comune", quella delle interviste-flash televisive o giornalistiche, quella che prevale nei sondaggi d'opinione. Non è, in effetti, troppo difficile provocare reazioni diffuse favorevoli alla pena di morte ponendo, ad esempio, in alternativa i "diritti" (aspettative) delle vittime con le "pretese" ad una pur parziale indulgenza (nel senso della comminazione di una pena non capitale) nei confronti del reo.
Il successo della dottrina retributiva è anche assecondato da fattori ambientali-istituzionali: negli stati dove vigono forme di governo ad investitura diretta da parte del corpo elettorale la ricerca del relativo consenso (non di rado a tutti i costi) induce i candidati a piegarsi agli umori di massa. Proprio le vicende americane di questi tempi sembrano confermare una tale impressione: il Governatore dell'Arkansas Clinton, aspirante candidato democratico all'elezione presidenziale, ha rifiutato di sospendere alcune esecuzioni capitali nel suo Stato, probabilmente per una valutazione non di mera giustizia, ma considerando (anche) i possibili svantaggi -in termini, appunto, di gradimento popolare- che una diversa decisione avrebbe potuto recare alla sua difficile campagna per la nomination.
Nello schieramento dei sostenitori della pena di morte non mancano ovviamente gli assertori delle tesi variamente definite: opportunistiche, realistiche, preventive. Esse si fondano sostanzialmente su un argomento presunto "empirico": la pena capitale costituirebbe un insostituibile strumento di difesa sociale, quale deterrente contro la commissione dei delitti più intollerabili. E' frequente che a supporto di questa convinzione si esibiscano testimonianze "inconfutabili", indagini, statistiche comparate e via dicendo. Lo scopo di questa impostazione è costringere a ragionare su un dilemma che, semplificando, si può così formulare: »è preferibile una sistema penale efficiente, in grado di prevenire o, quantomeno, limitare le più gravi propensioni a delinquere o un sistema penale meno efficiente, in quanto "controllato", cioè condizionato da opzioni esterne (ideologiche) rispetto alle esigenze, magari congiunturali, di politica criminale? .
Un simile approccio è indubbiamente insidioso, anche perché, non di rado, induce quanti sono contrari alla pena di morte ad accettare come terreno di confronto il metodo utilitaristico. E, in effetti, vi è chi si cimenta a dimostrare la superiore razionalità di un sistema che si affida a pene alternative; giacché -si motiva- non è tanto la durezza della pena che può trattenere dall'atto delittuoso, quanto la sua certezza e immediatezza. Anche questa replica viene frequentemente corroborata da dati empirici, altrettanto opinabili.
In verità, come ha autorevolmente avvertito Bobbio (in due fondamentali saggi sulla e contro la pena di morte, ora inseriti a cura dell'Autore nella raccolta L'età dei diritti, Einaudi 1990), la posizione abolizionista è tendenzialmente irriducibile, in quanto si fondi sull'imperativo etico "non uccidere". Il quale, se può non valere in modo assoluto per gli individui (si pensi alle ipotesi discriminanti classiche della legittima difesa o della forza maggiore), diviene viceversa categorico per lo Stato, ove evidentemente si aderisca a una precisa concezione del ruolo dello Stato quale forma più elevata di integrazione sociale.
Ecco allora che in questa dimensione -l'unica possibile per chi rifiuti l'ipotesi della pena di morte- il discorso non può essere ancorato al tema pur imprescindibile della "funzione della pena"; ma deve procedere oltre: deve affrontare alla radice la questione della funzione-giustificazione dello stato. E proprio la presenza nell'ordinamento della pena capitale assume un significato connotativo, nel senso che è un elemento essenziale per la (ri)qualificazione positiva delle forme di stato, soprattutto in un momento storico in cui le vecchie categorie (gli stati di democrazia classica contrapposti agli stati socialisti e/o autoritari) meritano di essere aggiornate (o, forse, più opportunamente archiviate).
Le funzioni -e conseguentemente l'organizzazione- che uno stato può autoassegnarsi sono, in effetti, di vario livello e ambizione.
In una prospettiva minimale -che oggi pare avere un revival storico- le funzioni dello stato possono limitarsi al perseguimento di obiettivi di sicurezza e giustizia per i propri cittadini. Con il termine "sicurezza" si può fare riferimento semplicemente a una situazione efficiente di ordine pubblico o di pace sociale o, più latamente, a condizioni di sufficiente benessere per la maggior parte della comunità. Analogamente la parola "giustizia" può avere un contenuto concettuale più o meno pieno: può individuare l'attitudine-capacità dello stato a garantire l'eguale rispetto delle proprie regole (aspetto formale); può segnalare anche la volontà di perseguire risultati di eguaglianza sostanziale, tali da evitare fratture sociali troppo profonde. L'organizzazione dello stato -nel mondo cosiddetto "occidentale"- si informa anche ad alcuni "principi" (procedurali) irrinunciabili. Il più importante è certamente quello del consenso, in virtù del quale le decisioni politiche-normative sono assunte da soggetti istitu
zionali comunque legittimati democraticamente (in via diretta o indiretta, a seconda delle forme di governo prescelte). A corollario e temperamento di questo principio ve ne possono essere altri, indirizzati soprattutto a circoscrivere o controbilanciare il potere delle diverse autorità/apparati o a salvaguardare ben determinate posizioni individuali e/o sociali (principio della separazione dei poteri, principio autonomistico ecc.).
E', questa, la forma di stato comunemente definita "liberale": uno stato "di principii" che, peraltro, rivela, a seconda delle congiunture storiche, identità e realtà variegate in rapporto alla cultura che le sottostanti società riescono ad esprimere. Si intende in particolare dire che una simile forma di stato si preoccupa soprattutto dell'efficienza della convivenza attuale e assai poco di preservare anche per le future generazioni l'indicazione di alcune mete e/o limiti che si possono tranquillamente riconoscere come trascendenti, in quanto sono il presupposto della condizione elementare di umanità.
Si tratta appunto dei "valori", che molto spesso vengono confusi con i principi; ma che, in verità, si distinguono da questi per la loro forza superiore, giacché stabiliscono il contesto in cui i medesimi possono operare. I valori sono sottratti a prove empiriche, non possono essere (ri)verificati attraverso procedure consensuali/maggioritarie. L'adesione ad essi avviene una tantum, nel momento magico e irrepetibile (lo stato nascente) della fondazione di una forma di stato che, rispetto al mero, asettico, stato liberale di principi, è più evoluta, in quanto scommette su livelli di integrazione sociale più profondi. Essi si piegano infatti al riconoscimento permanente delle indefettibili condizioni di umanità.
In quest'ottica si può dunque parlare di "stato di valori". E' certamente uno stato fragile, perché la sua durata e le sue prospettive di successo sono affidate quasi unicamente all'autoevidenza delle "verità" inserite nei cataloghi costituzionali e alla forza riservata nell'organizzazione costituzionale a quelle istituzioni di garanzia e saggezza (prive di immediata legittimazione consensuale) cui è assegnato il compito di perpetuare le verità medesime.
Tra queste rileva ai fini di questo scritto il valore personalistico, che si esprime normativamente in una duplice direzione: è un punto di riferimento costante per l'azione e la "libera" attività di tutti i soggetti, pubblici e privati, cui si rivolge la Costituzione; ed è un limite assoluto e definitivo alla potenziale, indiscriminata espansione degli stessi principi che pur presiedono all'assolvimento delle funzioni fondamentali di assicurare a tutti giustizia e sicurezza. Ma non comunque.
Lo Stato italiano non dà morte neppure ai più efferati criminali in quanto essi permangono persone, della cui indefettibile condizione umana dichiara di non poter disporre. E in coerenza con questa premessa la Costituzione esclude che chicchessia possa essere condannato alla privazione della capacità giuridica, della cittadinanza e del nome (art.22).
Il riferimento al "senso di umanità" (cui è subordinato ogni trattamento penitenziario rivolto, proprio per questo, alla "rieducazione del condannato") acquista allora -nel contesto della disposizione costituzionale (art.27) che non ammette la pena di morte- un significato per nulla retorico o pleonastico. E' il richiamo al valore assoluto.
Contro questa interpretazione si fa valere la deroga -contenuta nello stesso enunciato- che "salva" la pena di morte "nei casi previsti dalle leggi militari di guerra" (e dunque in tempo di guerra). Ciò starebbe a dimostrare che almeno in alcune situazioni pur eccezionali la pena capitale è valutata come utilizzabile e utile; sì che il valore personalistico cederebbe dinanzi ad altri "valori" superiori (ad esempio: la fedeltà e la disciplina dei militari a difesa della Patria).
Questa obiezione si supera leggendo la Costituzione storicamente e sistematicamente. La verità è che uno stato di valori non resiste all'ipotesi di guerra, anche quando essa viene, per così dire, formalmente costituzionalizzata, come si riscontra nella Carta italiana, che recepisce, non a caso, anche il valore pacifista. La guerra (anche quella subita) comporta inevitabilmente una "rottura" costituzionale, giacché è una manifestazione di palese negazione della condizioni di umanità. Pertanto si ha una sostanziale sostituzione di ordinamenti, sia pure attraverso procedure (principi) disciplinate dalla Costituzione.
La verità "autoevidente" dell'inammissibilità della pena di morte in uno Stato di valori, che, in quanto tale, assume la sua diversità (e superiorità) rispetto agli individui, comunità e generazioni che si propone di integrare, fu approvata in Assemblea costituente senza necessità di alcuna discussione: istintivamente si potrebbe dire.
Certamente oggi quella "verità" anche in Italia è insidiata, messa in discussione da pessimi maestri. Il rischio di una rottura dello "stato dei valori" può essere accentuato dall'eventuale successo di talune proposte di riforma costituzionale indirizzate all'instaurazione di una democrazia pseudoplebiscitaria, nella quale gli appelli al popolo, al senso comune della gente potrebbero dare spazio alle facili emozioni e rappresentazioni popolari. L'esperienza americana di questi tempi è in proposito assai preoccupante.
Non rimane che confidare sulle istituzioni della saggezza che, fino ad oggi, hanno ben assolto il compito della perpetuazione dei valori. L'allusione corre alla Corte costituzionale che -come è noto- ha fornito una interpretazione magis ut valeat al divieto costituzionale di pena di morte, quando ha ritenuto illegittime le ipotesi di concessione dell'estradizione per i reati puniti effettivamente con la pena di morte negli stati richiedenti (sent. n.54 del 1979).
da Il Corriere giuridico, 1992, n.8
Alfonso Pecoraro
parlamentare verde. Relatore sulla pena di morte nella Commissione giustizia alla Camera dei deputati, Italia.
In Italia la maggioranza assoluta dei parlamentari ha sottoscritto la proposta di legge per l'abolizione della pena di morte nei codici militari. Questo porterà il nostro paese a fare parte della rosa di sei che in Europa l'hanno già abolita totalmente dai propri ordinamenti. Vogliamo dare un forte segnale a quei paesi che ancora mantengono la pena capitale.