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D'Elia Sergio - 28 settembre 1993
Sull'adozione di un codice sociale dei detenuti
PARLAMENTO EUROPEO, Commissione delle Libertà pubbliche e degli Affari interni

Sergio D'Elia: Audizione pubblica sull'adozione di un codice sociale dei detenuti

SOMMARIO: »Considerare il carcere in termini di risarcimento di un danno subito, e calcolarlo sui venti, trenta anni di pena o sull'ergastolo, non tiene conto della perdita di senso (della misura) che il tempo e il lavoro hanno subito nella società dell'informazione . »Ai fini di una maggiore sicurezza sociale, basterebbe concentrare la repressione sui soli comportamenti che costituiscano un reale pericolo per la società . »Possiamo concepire una riforma del sistema sanzionatorio e penitenziario che configuri una gamma di soluzioni ad personam . »E' necessario pensare ad una Carta europea dei diritti dei detenuti che superi lo stato caotico ed estremamente differenziato dei codici penali e penitenziari esistente in Europa e che miri ad armonizzare le normative dei vari paesi, uniformandole al grado più alto di umanità e di civiltà giuridica .

(BRUXELLES, 28 settembre 1993)

Il carcere nella società postindustriale

Chi si occupa del carcere, di un codice sociale o delle regole minime di trattamento dei detenuti, di umanità o di diritti nell'esecuzione delle pene, si scontra sempre con un muro di argomenti che dicono: nel nostro paese non vi è certezza della pena, le carceri sono un colabrodo, i criminali sono in libertà, più garantiti delle vittime, mentre la società è indifesa.

Tali argomenti hanno sempre un'ottima stampa e si fa una fatica immane a discuterli. Eppure occorre farlo, anche perchè molti favorevoli a un carcere più duro come molti fautori della pena di morte sono animati spesso da nobili sentimenti e da motivazioni valide: non esprimono in modo diretto e irriducibile il proprio favore; la loro opinione è occasionale e fluttuante, condizionata - ad esempio - dal fatto che lo Stato non tutela, la Giustizia non funziona, un'altissima percentuale di reati rimane impunita e il carcere non svolge un ruolo rieducativo.

Il principio sacrosanto della certezza della pena - ma anche del diritto e dell'alternativa alla pena - non è nè di destra nè di sinistra. Anche noi affermiamo: più ordine e sicurezza, una giustizia che funzioni, una maggiore certezza della pena. Discutiamo però a quali condizioni: non possono essere la discrezionalità del magistrato di sorveglianza, ma neanche la pena dell'ergastolo o i trentanni di reclusione.

Le due concezioni dominanti della pena, quella retributiva e quella rieducativa, sono in crisi.

Perchè, considerare il carcere in termini di risarcimento di un danno subito, e calcolarlo sui venti, trenta anni di pena o sull'ergastolo, non tiene conto della perdita di senso (della misura) che il tempo e il lavoro hanno subito nella società dell'informazione. I dieci anni di carcere di 50 anni fa non "corrispondono" ai dieci anni di oggi: la libertà, le merci, le conoscenze, le relazioni sociali di cui un individuo allora, in dieci anni, poteva godere o essere privato, con la velocità e i mezzi di comunicazione propri del nostro tempo e delle nostre società, equivalgono oggi ad un complesso di "beni" infinitamente maggiore.

D'altra parte, il carcere non riesce ad assolvere alla funzione di "rieducazione" e "risocializzazione" che molti ordinamenti gli assegnano. I luoghi e i tempi della detenzione costituiscono la migliore scuola del delitto. L'alternanza discrezionale di afflizioni e di premi, il sistema di scambio tra buona condotta e misure alternative, che caratterizzano il trattamento penitenziario, fanno dei detenuti quelle persone che quando stanno dentro fanno di tutto per uscire e quando sono fuori fanno di tutto per rientrare.

Carcere: l'emergenza è nelle leggi

In Italia, ad esempio, vi sono oggi oltre 50.000 detenuti contro i 26.000 presenti due anni fa, il doppio di quanti gli istituti possano ospitare; il 31% di essi sono tossicodipendenti, il 15% stranieri extracomunitari, il 60% imputati in attesa di giudizio. Al primo posto dei reati per cui si finisce in carcere - la situazione non è diversa in altri paesi europei - vi sono quelli legati alla droga: pochissimi sono i reati di traffico, moltissimi quelli di rapina o scippo commessi per pagarsi la dose e il consumo personale di droga.

A ben vedere, l'emergenza che finisce nel carcere - il sovraffollamento, le condizioni igieniche, l'Aids - ha origine nelle leggi, nelle scelte di politica criminale e penitenziaria. La vera emergenza, purtroppo, sta nel diritto penale, nella ipertrofia che lo sta soffocando: sempre nuove ipotesi di reato, spesso crimini senza vittime, ma anche delitti che non costituiscono un torto reale al gruppo sociale, e pene detentive per tutti i reati e per tutti i condannati.

Non occorre essere dei rivoluzionari, basta avere un pò di buon senso per adottare una politica che, a partire da una visione minimalista della repressione penale, può arrivare a risultati eccezionali. Ai fini di una maggiore sicurezza sociale, basterebbe concentrare la repressione sui soli comportamenti che costituiscano un reale pericolo per la società e a proposito dei quali gli altri controlli si siano rivelati inefficaci.

Si potrebbe, quindi, togliere allo Stato il ruolo di supplenza e la presa a carico di tanti conflitti, ritornando a soluzioni più conviviali, solidali, comunitarie. Riparazioni individuali e attività di pubblica utilità sono certamente più convenienti per lo Stato e per i cittadini, più confortanti per le parti nei processi.

Se mi rubano la macchina, il mio interesse è recuperarla o essere risarcito. Non mi appaga l'intermediazione astratta dello Stato, nè il moralismo della sanzione penale. La polizia che arresta il colpevole, l'istruzione del processo, il giudice penale che lo condanna, la detenzione per un anno, il giudice civile per il risarcimento, e poi le pene accessorie: che spreco! Quando, per i reati minori, tutto potrebbe risolversi in un rapporto diretto tra le parti, ferma restando l'azione di polizia e il ricorso al giudice civile in caso di disaccordo.

Proposte

Intanto, possiamo concepire una riforma del sistema sanzionatorio e penitenziario che configuri una gamma di soluzioni ad personam. La gravità dei reati e la pericolosità sociale personale devono essere i criteri di giudizio sul se dell'azione penale e sul se, sul quantum, sulle modalità di esecuzione della pena detentiva. In ogni caso, va affermata la certezza del diritto, della pena e della alternativa alla pena, e per farlo si deve agire sul piano del processo e del giudizio, non già del tribunale di sorveglianza.

Per i reati meno gravi e per i condannati meno pericolosi, il giudice del processo stabilisce direttamente una sanzione alternativa al carcere (oppure fissa un periodo di prova, nel caso di rinuncia o di sospensione dell'azione penale) scegliendo tra le attuali pene accessorie, misure di prevenzione, misure di sicurezza, lavoro di pubblica utilità e misure alternative alla detenzione, da considerare come sanzioni autonome. In caso di violazione delle prescrizioni imposte, il condannato va in carcere (o sotto processo nei casi di rinuncia all'azione penale) o è sottoposto ad altra misura più restrittiva.

Per i reati più gravi e i condannati più pericolosi, si possono applicare pene non superiori nel massimo a 10, 15 anni, come sono mediamente previste in Europa, ed eseguite certamente.

Per i reati di non particolare gravità e per condannati non particolarmente pericolosi, è possibile adottare un sistema misto: applicare in sentenza una pena detentiva di un certo periodo, alla fine del quale, salvo casi di gravi infrazioni commesse in carcere, scatti automaticamente una misura alternativa.

Nella Comunità Europea, i massimali di pena variano dai 10 ai ventanni; in alcuni paesi c'è l'ergastolo, in altri no; in alcuni le pene accessorie sono inesistenti se non come sanzioni autonome; in altri c'è la condizionale a metà pena; in tutti vi sono norme sull'espatrio per i detenuti e misure di sicurezza che impediscono la libertà di circolazione non solo a livello comunitario ma addirittura all'interno dello stesso paese.

E' necessario pensare ad una Carta europea dei diritti dei detenuti che superi lo stato caotico ed estremamente differenziato dei codici penali e penitenziari esistente in Europa e che miri ad armonizzare le normative dei vari paesi, uniformandole - si spera - al grado più alto di umanità e di civiltà giuridica.

Nota sull'Italia

Nelle carceri italiane vi sono duemila detenuti che sono sottoposti all'articolo 41 bis, una norma che può essere applicata in via eccezionale, su richiesta anche del ministro dell'Interno, quando ricorrano "gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica". Questo regime speciale è in vigore da un anno e mezzo! E comporta un solo colloquio al mese attraverso il vetro antiproiettile e il citofono, due ore d'aria al giorno e nessuna socialità, niente posta da altri detenuti anche se familiari, niente pacchi viveri nè libri dall'esterno, niente pentole in cella e neanche il fornello per farsi un caffè.

Secondo una recente sentenza della Corte Costituzionale, l'applicazione dell'articolo 41 bis nei confronti dei detenuti - molti di essi sono indagati, non sono imputati nè rinviati a giudizio - è da considerare illegale.

Nella sentenza la Corte stabilisce che "i provvedimenti di applicazione dell'articolo 41 bis devono recare una puntuale motivazione per ciascuno dei detenuti cui sono rivolti": invece, sono tutti uguali, nessuna motivazione ad personam.

"Non possono disporre trattamenti contrari al senso di umanità": ma, per un'ora di colloquio coi vetri divisori e il citofono, i familiari - anziani e bambini - vengono preventivamente denudati e perquisiti.

"Il ministro non ha competenza in ordine alla sottoposizione a visto di controllo della corrispondenza": a detta dei magistrati di sorveglianza, invece, la posta è censurata "senza che sia previsto un intervento, neanche in via di ratifica, dell'autorità giudiziaria".

"I provvedimenti restrittivi possono essere impugnati tramite reclamo al Tribunale di Sorveglianza": in questo anno e mezzo, molti detenuti a Pianosa e all'Asinara non hanno potuto esercitare questo diritto; i loro reclami non sono stati inoltrati dal carcere oppure non sono stati ammessi dai giudici.

"Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l'ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale". Siamo ridotti all'osso, ma da questa considerazione amara della Corte Costituzionale ci tocca partire per sanare il deficit di legalità e di diritto nelle carceri che ministri dell'Interno e della Giustizia hanno prodotto in questi anni in Italia.

 
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