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Sofri Adriano - 29 ottobre 1993
Quel normalissimo paradosso
di Adriano Sofri

Il digiuno dei radicali visto da Adriano Sofri

SOMMARIO: "Di tutte le forme che i radicali hanno praticato e prestato - no, regalato - agli altri, questa mi sembra la più significativa e felice", afferma Adriano Sofri, ricordando quei momenti in cui il digiuno era considerato, al più, un "capriccioso disfattismo". Analizzando forme, contenuti, valori del digiuno come arma nonviolenta dei radicali, Sofri ricorda poi quella "alternanza morbosa" che era "il rapporto tra i radicali, i digiunatori radicali, e la pubblicità, i media e il loro pubblico". Oggi che "il digiuno è andato per il mondo sulle proprie gambe", "non è più [...] un'arma radicale". Sofri si esercita quindi in sottili digressioni sul tema del digiuno:"la storia dei digiuni radicali è anche un capitolo della storia dell'eccesso, della difficoltà e della diffidenza per la sobrietà, per la misura..."

(1994 - IL QUOTIDIANO RADICALE, 29 ottobre 1993)

A Firenze, mentre scrivo questo pezzo, il preside di un liceo scientifico, in dissenso con lo sciopero e l'occupazione della scuola da parte degli studenti, fa un digiuno. Tre urrà per il preside: i suoi colleghi del '68 avevano il tic di chiamare la polizia. Un'autorità che reagisce attraverso il digiuno pubblico e motivato è un buon segno di cattivi tempi. Naturalmente, può far pensare al peggio: governi che digiunano contro i propri governati, padroni contro i dipendenti, genitori contro i figli. Forse ci si arriverà, quando anche il digiuno diventerà un rituale, e il ricatto delle armi sarà soppiantato dall'arma del ricatto. Ma, intanto, tutto intorno digiunano persone senza autorità, minatori di Sulcis, licenziati arrampicati su una ciminiera, parenti di detenuti e detenuti, donne in nero e francescani. Di tutte le forme che i radicali hanno praticato e prestato - no, regalato - agli altri, questa mi sembra la più significativa e felice. Ho fatto in tempo a conoscere un modo di vivere, e un modo di pens

are, per i quali il digiuno volontario e "politico" era la più ridicola, se non la più offensiva delle stravaganze. Un modo di vivere accompagnato dall'incubo della pancia vuota e della fame; e un modo di pensare combattivo, che la fame voleva finalmente farla fare agli altri. Roba da mangiatori di chiodi e da pazzi, o, tutt'al più, un capriccioso disfattismo: ecco che cos'era il digiuno. Ce n'erano certo esempi canonici, il digiuno della malattia, per purgare il corpo, e quello della penitenza, per purgare l'anima. Oppure l'esempio delle situazioni estreme, senza alternativa, della disperazione: nelle mani di un nemico feroce e indegno si poteva, anche un combattente avrebbe potuto, lasciarsi morire. I prigionieri irredentisti irlandesi lo facevano, l'hanno fatto lungo tutto il secolo.

I radicali - viene anche a me di dire, ingiustamente, Pannella: come se non ci fossero stati tutti gli altri, e con tanto coraggio e intelligenza. Ma è una distrazione comprensibile, Pannella sembra fatto per il digiuno, e viceversa, grande quanto Gandhi era minuscolo. Pannella mi ha sempre fatto pensare a Mynheer Peeperkorn, l'"uomo di formato" della "Montagna incantata". I radicali dunque hanno fatto del digiuno uno strumento positivo, un modo, con una di quelle formule che piacciono loro, per dare corpo alla speranza. E anche quando la loro lotta è diventata drammatica - è avvenuto infatti più volte, nonostante la retorica invidiosa o bonariamente fessa delle brioches coi cappuccini - hanno serbato intera questa qualità positiva, e con essa la scelta di caricare su sé la responsabilità delle inadempienze o delle cattiverie altrui. Immagini fastidiose, quelle dei corpi macilenti, che allo stesso modo delle idee fastidiose o sacrileghe cui davano voce - l'affermazione di coscienza contro l'aborto clandestin

o o il matrimonio come ergastolo, l'inevitabilità della morte per fame o l'invalicabilità delle trincee ideologiche - venivano normalmente rimosse. Normalmente, dico, nonostante la loro spettacolarità: così come sono ciclicamente spettacolari le figure scheletriche degli agonizzanti per fame, e poi subito raschiate via. Normalmente, e non per qualche complotto odioso e odiatore. I radicali erano come i mendicanti di strada, con le loro piaghe e il loro fetore, ai quali alternamente si lascia l'obolo nel cestino - ma dall'alto, alla larga! - e si gira la testa dall'altra parte. Invisibili e ingombranti. Avevano ragione forse, ma che modi! (la non violenza era infatti molto più scandalosa ed eretica della violenza: ortodossissima anzi, quest'ultima). Immagino, e lo sento nell'infinito e rassegnato racconto dei radicali - rassegnato a non riuscire a spiegarlo, a spiegarselo - che quella invisibilità sia passata dentro di loro, li abbia costretti mille volte a toccarsi e chiedersi se esistessero davvero, e chi f

ossero, e perché lo sguardo degli altri non ne fosse impigliato.

La tensione maniacale dedicata dai radicali ai media, tempestiva e anticipatrice, aveva una motivazione esterna - senza informazione non c'è efficacia - ma anche una interna e forte: che senza comunicazione si è cancellati e contraffatti, e che l'informazione è lo specchio in cui si distinguono i vivi dai fantasmi. Specchio deformante, certo, in cui si fanno a loro agio le smorfie i vampiri, e i vampirizzati scompaiono. Fino al punto in cui l'azione dei radicali - ma dopo quanto! al costo di quali eccessi di zelo! - diventava troppo evidente, e allora il gioco degli specchi si volgeva di colpo sulle loro figure e le faceva rimbalzare dappertutto, moltiplicate, ubique, onnipotenti. Così, per cinque minuti, e poi si rispegneva la luce. E' appena successo di nuovo.

Di questa alternanza morbosa è stato fatto il rapporto fra i radicali, i digiunatori radicali, e la pubblicità, i media e il loro pubblico. Dentro di essa è cresciuta la tenacia e il narcisismo degli uni, il cinismo e il patetismo degli altri. Oggi, che il digiuno è andato per il mondo sulle proprie gambe, fra operai e francescani, fra detenuti e presidi e donne in nero, è naturale che i radicali lo guardino andare con orgoglio, e magari con un po' di gelosia e di rimpianto, com'è con le proprie creature più curate. E' anche vero, probabilmente, che il digiuno non è più, o è molto difficile che riesca a essere, un'arma radicale, e che la sua forza - intatta, per questo - valga più per coloro, soli o tanti, che vi si rivolgono, che non per i fini che si propongono. E' soprattutto un modo di raccogliere le forze, alla lettera - e del resto questo si avvicina già a un'efficacia pratica. E' vero che il nostro mondo è cambiato, e la figura scandalosa del digiunatore non si sovrappone più a quella, reale o retoric

a, dell'affamato, del prossimo con la pancia vuota. Non da vicino almeno. (Il digiunatore dei paesi ricchi in nome dei paesi della fame, o dei paesi provvisoriamente - del tutto provvisoriamente - pacifici in nome degli assediati di Sarajevo o di Mostar, ripete lo scandalo, ma passa, lo abbiamo appena visto, inosservato. Dunque l'avrà fatto solo per sé). Al contrario, i digiuni civili si confondono con la minaccia universale dell'obesità e la pusillanimità meticolosa delle diete e la sacra e maledetta protesta dell'anoressia.

Piuttosto, la storia dei digiuni radicali è anche un capitolo della storia dell'eccesso, della difficoltà e della diffidenza per la sobrietà, per la misura, e per la mediocrità, il compromesso. Le cose si mescolano infatti. Dell'alternanza fra digiuni - lunghi, e rigorosi, e fino della sete - e voracità: alla lettera, e metaforicamente; e dell'alternanza parallela fra clandestinità, rimozione (e contraffazione), e sovraesposizione, chiamata alla ribalta e al bis (e contraffazione). Quanto in tutto ciò sia imposto e quanto scelto, quanto sia derivato dall'ottusità altrui e quanto da una vocazione propria, quanto sia diventato distratto o deliberato pregiudizio altrui e quanto tic proprio, chi vorrà dirlo? Dovremmo provare a dirlo ciascuno per sé, per la propria vita personale, quelli di noi almeno che non hanno pieno il senso della misura, e non conducono un'esistenza del tutto ordinata, e non fanno di notte giorno. Sopra le righe, sotto le righe. Conoscevo uno, in una cittadina di provincia, che all'ora dell

a passeggiata saltellava sempre più veloce da una lastra all'altra del viale, finché non calpestava la connessione fra una piastrella e l'altra, allora gridava "Riga!" e ricominciava da capo, per punizione. La gente del posto lo chiamava così, Riga. Gran mattacchione, uomo d'ordine. Non so che fine abbia fatto, o se abbiano asfaltato il viale. In fondo, si tratta di crescere senza diventare grandi. Da piccoli, la vera domanda era: Che cosa farai di grande?

 
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