di Massimo TeodoriL'intreccio tra malaffare e politica si fa regime
SOMMARIO: Il "male oscuro" della politica italiana si chiama "consociazione", con la sua pratica del "negoziato senza fine", che è stata la filosofia dominante sempre o ovunque. Anche Tangentopoli ha origine da questo modo di funzionamento della politica italiana, dove lo scontro reale è stato tra "bande di potere" con legami anche nel mondo criminale. Negli anni dell'unità consociativa si ebbe la ulteriore trasformazione autoritaria e corporativa dello Stato, imbarbarito anche dalle collusioni tra spezzoni dei suoi apparati con il terrorismo: l'unica alternativa fu quella offerta dai 4 deputati radicali, mentre il PCI fu sostanzialmente connivente: la teoria degli "opposti estremismi" faceva comodo per consolidare l'"intreccio compromissorio". Tutto avrebbe dovuto culminare con il caso D'Urso: se il magistrato fosse stato ucciso, era già pronta la soluzione "tecnocratica" sollecitata dalla P2. Si ripercorrono quindi le malefatte del regime consociativo, e le iniziative e denunce dei radicali, dall'affare Lo
ckheed alla vicenda Leone, dal "caso Cirillo" fino alle campagne contro Andreotti.
(1994 - IL QUOTIDIANO RADICALE, 23 novembre 1993)
Il male oscuro della democrazia italiana si chiama "consociazione". La consociazione ha riguardato partiti di governo e partiti formalmente all'opposizione, sostanzialmente "consociati", appunto, nella gestione del potere. La sua caratteristica è stata la trattativa continua, fonte di paralisi e di crisi. Il negoziato senza fine è stato la filosofia politica che ha dominato sempre ed ovunque, nelle istituzioni come nella società: negoziato all'interno dei partiti che hanno di volta in volta costituito la coalizione di maggioranza; negoziato tra questi e le forze formalmente all'opposizione, e poi anche negoziato tra i poteri politici ufficiali ed i poteri sotterranei criminali.
Ecco: la recente esplosione di Tangentopoli con le incriminazioni per reati gravissimi di natura finanziaria e criminale di buona parte della classe dirigente politica (e non solo politica) ha la sua radice in questo modo di funzionamento della politica italiana in cui lo scontro reale, per anni, non è avvenuto tra forze portatrici di obiettivi e proposte politiche contrapposte, ma tra bande di potere, ognuna con pezzi di partiti, pezzi del mondo economico e finanziario e giornalistico, e con legami anche nel mondo criminale.
Negli anni definiti dell'unità nazionale e del compromesso storico (1975-1980) i radicali hanno denunciato la politica dell'"ammucchiata", in cui l'unità consociativa si realizzava soprattutto con provvedimenti riguardanti la giustizia e l'ordine pubblico che trasformarono ulteriormente lo Stato in senso autoritario, di pari passo con quelle leggi in campo sociale (affitti, sanità) che consolidarono le strutture corporative ed illiberali dello stato occupato dai partiti.
Con soli 4 deputati in Parlamento, fino al 1979, i radicali si sono contrapposti all'imbarbarimento delle leggi e hanno resistito allo stato d'emergenza offrendo una speranza ed una prospettiva alternative sia alla violenza terroristica che all'ambigua ed inefficiente repressione tentata con le leggi eccezionali.
Al volto apparentemente feroce e repressivo dello Stato di quegli anni di unità nazionale, in cui si ritrovavano insieme democristiani e comunisti, socialisti e laici praticamente senza contestazioni ed alternative, faceva riscontro una sostanziale connivenza con il terrorismo da parte dei servizi segreti, di apparati dello Stato e di buona parte della classe dirigente. A questa, ed in particolar modo al PCI, che ne costituiva il nucleo duro, faceva comodo la destabilizzazione permanente e la teoria degli "opposti estremismi" al fine di consolidare l'intreccio compromissorio tra centro e sinistra per rendere necessaria ed indispensabile l'unità nazionale, agitando lo spauracchio della destra. E, come denunciavano i radicali già in quegli anni, dietro all'allarmismo si nascondeva la crescita della P2 e di altre simili consorterie, utilizzate e manovrate da uomini e correnti di partito per la gestione degli affari illegali e clandestini.
Questo fu l'essenza dello scontro sul caso Moro (primavera 1978) e sul caso D'Urso, il magistrato sequestrato (dicembre 1980) e salvato con una straordinaria iniziativa di dialogo, e senza trattativa alcuna con le BR, condotta dal Partito radicale. Se quella vita umana non fosse stata salvata, probabilmente il cadavere del magistrato sarebbe stato utilizzato per un'effettiva svolta di regime che si annidava dietro la proposta del "governo dei tecnici" insieme con la P2 che in quei mesi era al suo massimo splendore, potere e dominio sugli affari, sui servizi segreti e sulla stessa politica.
L'individuazione dell'importanza dell'intreccio tra malaffare e politica come fatto costitutivo del regime consociativo, e la sua vigorosa denuncia, è stato uno dei fili portanti della vita del Partito radicale. Così con l'affare Lockeed nel 1977 quando in Parlamento Pannella denunciava le responsabilità e le connivenze politiche che stavano dietro la vicenda e contribuiva ad impedirne l'insabbiamento. Così con la campagna di opinione pubblica che costrinse il presidente della Repubblica, Giovanni Leone a dimettersi anche in seguito all'effetto determinante del referendum sul finanziamento ai partiti. Così con la proposta di indagine sull'affare Sindona, avanzata dai radicali, che dava origini alla commissione d'inchiesta attraverso cui veniva messo in luce il bubbone P2. Così con l'inchiesta su Gelli e la P2 quando denunciavo la vera natura della loggia quale prodotto diretto delle degenerazioni dei partiti e conseguenza dell'intreccio con la partitocrazia. Così con la proposta radicale di inchiesta parlame
ntare (1985) sui fondi neri dell'IRI, la più grossa rapina di tutta la storia repubblicana, compiuta ai danni dello Stato, che poi si è rivelata essere uno dei grandi filoni di tangentopoli. Così con il "caso Cirillo", nel quale si è dipanato un vergognoso intreccio tra camorra, servizi segreti, Brigate Rosse e Democrazia Cristiana, denunciato subito dal Partito radicale come il fulcro della ruberia di migliaia di miliardi elargiti dallo Stato per la cosiddetta ricostruzione del terremoto della Campania. Così, infine, con le campagne apertamente condotte in parlamento e nel paese sulle malefatte di Giulio Andreotti, assolto più volte dalla giustizia speciale delle camere non solo dal voto dei suoi amici democristiani, ma anche dalla connivenza dei comunisti.