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Teodori Massimo - 13 maggio 1994
Da quel giorno iniziò il terremoto per la prima Repubblica
EDITORIALE DI MASSIMO TEODORI

SOMMARIO: Il referendum sul divorzio ebbe un effetto che andò ben al di là della materia stessa del divorzio. Gli italiani si dimostrarono molto più maturi di quel che pensavano i rispettivi rappresentanti politicie ruppero le tradizionali fedeltà partitiche. La Dc per la prima volta risultava battuta e, di conseguenza, si dischiudeva un nuovo orizzonte politico che avrebbe reso possibile una maggioranza politica prescindendo dai democristiani e dai missini, loro alleati antidivorzisti. Ma la politica referendaria dell'alternativa non piacque allora ai partiti, così come non sarebbe piaciuta nei decenni successivi...

(IL MESSAGGERO, 13 maggio 1994)

Il 14 maggio non ricorre solo il ventennale del divorzio sancito dal referendum vinto dai divorzisti con il 59,3 per cento dei votanti. Va anche ricordato come l'anniversario della prima prova referendaria della Repubblica che ebbe allora degli effetti sconvolgenti sull'intera vita politica, così come in seguito sarebbe accaduto con tutti i più importanti referendum, da ultimi quelli elettorali che, nel giugno 1991 e nell'aprile 1993, hanno segnato le tappe decisive del tramonto della prima Repubblica.

A favore del divorzio, votato in Parlamento il 1· dicembre 1970, si era battuta una minoranza politica. C'era voluta la tenacia del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini per imporre alle Camere riluttanti la discussione e l'approvazione di una proposta di legge rimasta per lunghi anni dormiente. Ed era stata soprattutto la spinta del movimento popolare organizzato intorno alla Lega per l'istituzione del divorzio (Lid) di Mauro Mellini e Marco Pannella a costringere i parlamentari laici e di sinistra a schierarsi per la riforma. Allora tutte le classi dirigenti dei partiti non ritenevano possibile il divorzio in Italia in particolare la maggiore forza laica il Pci - era più attento ad intrecciare buoni rapporti con la Chiesa e il mondo cattolico, seguendo la vecchia politica concordataria dell'art. 7, che non a patrocinare i diritti civili. Anche il referendum abrogativo, richiesto dai cattolici integralisti di Gabrio Lombardi nel gennaio 1971, non era uno strumento politico ben accetto da

i partiti tradizionali. La legge attuativa del referendum era stata approvata solo nel giugno 1970 come contropartita del divorzio e per la sua prima applicazione dovettero passare ben tre anni. Le maggiori forze politiche non gradivano che i cittadini potessero esprimersi al di fuori dei consueti schemi elettorali in cui la fedeltà partitica veniva ribadita con il voto necessariamente dato a un simbolo di partito.

Prima ancora che l'avversione ad un pronunciamento sul divorzio con quel che comportava nella valutazione dell'orientamento culturale, civile e religioso popolare, l'ostilità dei partiti si indirizzava all'istituto referendario, così estraneo alla tradizione elettorale italiana e pertanto ritenuto pericoloso. Non è dunque un caso che da allora in poi i referendum sarebbero stati promossi da minoranze politiche, parlamentarmente marginali e culturalmente non conformiste, in alcuni casi dai cattolici integralisti e per lo più dai radicali con la strategia dei diritti e delle libertà civili.

Nel 1974, fino all'ultimo momento i partiti tentarono di scongiurare il referendum. Non lo voleva la maggioranza della Dc, non lo volevano i socialisti e gli stessi partiti laici, e fece di tutto per bloccarlo il Pci di Enrico Berlinguer il quale denunziò »le conseguenze dannose che avrebbe avuto per la pace religiosa del popolo italiano, l'unità delle masse lavoratrici, le sorti del regime democratico . E quando il 12 e 13 maggio si arrivò alle urne con il clamoroso risultato che ribaltava tutte le catastrofiche previsioni sull'immaturità civile e l'appartenenza religiosa degli italiani, i partiti dell'arco costituzionale tentarono subito di »sanare la lacerazione che, a loro avviso, si era prodotta nel tessuto della politica italiana.

Qual'era, in realtà, il trauma politico causato dal referendum? Duplice, mi pare, il significato del voto referendario sul divorzio. Da un lato, era stato provato che gli italiani erano molto più maturi di quel che pensavano i rispettivi rappresentanti politici, e particolarmente sul tema della famiglia, così cruciale in un paese cattolico. Dall'altro, il comportamento degli elettori aveva infranto le tradizionali fedeltà partitiche, la Dc per la prima volta risultava battuta e, di conseguenza, si dischiudeva un nuovo orizzonte politico che avrebbe reso possibile una maggioranza politica prescindendo dai democristiani e dai missini, loro alleati antidivorzisti.

Pertanto, quel referendum ebbe un effetto che andò ben al di là della materia stessa del divorzio. Ruppe per la prima volta quella vischiosità elettorale che aveva reso per tanto tempo gli equilibri politici immobili. Il Pci, nonostante la strategia dell'accordo con i cattolici, beneficiò in massima parte degli spostamenti elettorali indotti dalla vittoria laica. Nelle elezioni amministrative del giugno 1975 si verificò una grande avanzata delle sinistre e furono possibili »giunte rosse in tutte le grandi città a cominciare da Roma. Alle elezioni politiche del 1976 il Pci passò dal 27,1% dei 1972 al massimo storico del 34,4%, percentuale che sommata a quella di Psi, Pri, Psdi, Dp e Pr avrebbe consentito, con il 53% del consenso popolare, una maggioranza laica di sinistra.

Ma la politica referendaria dell'alternativa non piacque allora ai partiti, così come non sarebbe piaciuta nei decenni successivi. Le ragioni dell'avversione furono e rimangono molteplici. Perché con il suo carattere antipartitocratico il referendum contesta le strategie parlamentari; perché costringe a decidere su obiettivi di riforma di minoranze che altrimenti sarebbero ignorati; e perché rivoluziona i comportamenti di voto innescando nuove dinamiche elettorali. E così è stato anche nell'ultima stagione con il referendum sulla preferenza unica del giugno 1991 e con quello sulla riforma elettorale dell'aprile 1993, entrambi approvati con un voto plebiscitario.

Oggi si è ben consapevoli che non vi sarebbe stata la decisiva riforma elettorale che ha sovvertito l'intero sistema politico senza i referendum attivati da minoranze che hanno agito fuori e attraverso i partiti tradizionali. Anche gli spostamenti post-referendari sono stati eloquenti. Dopo il referendum del 1991, alle elezioni politiche del 1992 la Dc è passata dal 33,6% al 29,7%, il Pci dal 28,3% al 16,1% del Pds, e la Lega si e affermata massicciamente al Nord con un 8,7% nazionale. E dopo il referendum del 1993, si è verificata la rivoluzione del 27 e 28 marzo che è troppo vicina per dover essere qui richiamata. Vero è, comunque, che i referendum del 1991 e del 1993 hanno non solo mutato le regole elettorali ma son serviti anche ad aprire, come già nel 1974, una prospettiva politica diversa che, poi, è stata colta da quelle forze politiche che sono state percepite come le più nuove.

 
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