(Stralci dalla conferenza-dibattito tenutasi a L'Aquila nell'aprile 1994. Nulla di sostanzialmente nuovo, ma...)
Parlare di "federatio balcanica" (alla latina, come "Federatio Helvetica", ma senza volontà "colonizzatrice" rispetto alla grande tradizione slava, greco-cirillica) può apparire - dinanzi agli avvenimenti che incalzano nella ex jugoslavia e nell'intera area balcanica - una provocazione inutile, o almeno l'appellarsi a una utopia impossibile.
Se è provocazione, è necessaria, anzi urgente; e se dobbiamo richiamarci all' utopia, è utopia possibile: perché si presenta come unico sbocco concepibile da una spirale senza uscita, da una tragedia altrimenti senza scampo. E trovo valido sollevare in questa sede i problemi relativi alle vicende d'oltreadriatico. Non so a quali risultati possa concorrere questo nostro dibattito abruzzese, ma esso esprime una volontà di conoscere e capire, di dialogare e di confrontarsi importante, non perché le regioni possano ambire ad avere una "politica estera", ma perché è nelle bene che realtà istituzionali, sociali, economiche, come quella abruzzese si abituino a una sensibilità di frontiera, uscendo da isolamenti comunque inaccettabili in termini di spessore civile ed anche di interesse economico.
L'Europa e la stessa Italia sono allenate ad esperienze analoghe a quelle in atto nell'exjugoslava: nel nostro Sudtirolo o, con l'EIRE, in Gran Bretagna: ma queste due vicende escono dal confronto con qualche vantaggio: il caso del Sud Tirolo come il caso dell'Eire sono circoscritti, chiusi entro confini ristretti, interessano un pugno di persone. La vicenda dell'exjugoslavia riapre invece un dramma storico, la eterna "questione balcanica", che investe un'area enorme, popolata e - con la caduta delle barriere politiche e un ingresso nell'economia di mercato meno traumatico e difficile di quanto non lo sia nell'exURSS - in via di tumultuoso sviluppo
La "questione balcanica" - ripetiamo - per la sua estensione e profondità storica non può essere circoscritta, come i due casi sopra ricordati (o anche quelli, ugualmente densi di spessore storico, della Catalogna e del Paese basco, che investono la Spagna); nei Balcani è accesa una miccia che può far deflagrare la polveriera d'Europa; come è stato del resto per un secolo, dalla metà del secolo scorso alla fine della prima guerra mondiale, o forse anche oltre. In quest'area divisa, o meglio frammentata in Stati dai confini etnici e culturali incerti, convivono decine di popoli, razze, religioni: nella sola Jugoslavia sono presenti, non a fianco a fianco ma dentro un reticolo di enclaves e di sottoenclaves, una quindicina di etnie con altrettante lingue e 5-6 religioni. Pensare di poter ridisegnare in questo contesto divisioni "nazionali" raggruppando popoli, lingue e religioni in aree delimitate e separate è, oltreché immorale, impossibile. Recentemente, ci ha provato Ceaucescu, che sperava distruggere le en
claves alloglotte presenti in Romania con la distruzione di centinaia di villaggi con le loro cultura e irripetibili, splendide diversità storiche e civili: l'operazione, condannata da mezzo mondo, fu forse una delle cause della caduta del dittatore romeno.
Purtroppo, la crisi etnica, religiosa, civile e culturale balcanica non è curabile coi sistemi usuali. Diciamo che in quei paesi non è stato collaudato quel minimo di sistema democratico che ha storicamente consentito e consente ai paesi dell'Europa occidentale di superare le loro crisi etniche senza giungere al massacro generalizzato. Quanto accade nell'exJugoslavia, per ragioni storiche e culturali profonde, dunque non è solo un dramma jugoslavo o balcanico: è una delle peggiori tragedie del mondo di oggi, il mondo del dopo comunismo.
Se questi sono i termini della questione, se questa è la profondità di questioni dinanzi ai quali ci troviamo a dover prendere posizione, ebbene, allora noi siamo profondamente convinti che non vi sia una soluzione possibile al dramma che scuote i Balcani se non reinventandone, o meglio capovolgendone i termini. Riflettere su possibili vie d'uscita è dunque urgente, in ogni sede, con senso di responsabilità, con spregiudicatezza e, forse, fantasia. La disattenzione dell'Europa ufficiale, della CEE ad esempio, è stata deleteria, vile e irresponsabile; ma ancora più grave e negativo è stato il silenzio, o la disattenzione dei ceti, delle avanguardie culturali, dei cosidetti intellettuali nei nostri paesi: segno non ultimo della decadenza profonda in cui esse versano, ormai da molto tempo.
Vi è di più, dobbiamo andare più a fondo. La questione balcanica ha risvolti che la rendono ancor più complicata. Ciò che accade in realtà, ma che non viene ancora avvertito in tutto il suo spessore, è che le vicende exJugoslave, ma più generalmente balcaniche, hanno riportato a galla, intatte, situazioni e questioni che affondano nelle radici profonde della secolare storia Europea. Ritorna d'attualità il Trattato di Parigi del 1856, che, ponendo fine alla Guerra di Crimea cui aveva partecipato anche il Piemonte di Vittorio Emanuele e Cavour, fece affiorare all'indipendenza nazionale la Romania, il Montenegro, la Serbia, ecc.; paesi, regioni che si separavano, sia pure informalmente, dall'Impero ottomano in decadenza; e ritorna il Congresso di Berlino, che conchiudeva la guerra turco-russa del 1877-1878, con il quale conquistavano indipendenza completa e definitiva Serbia, Montenegro, Romania, Bulgaria, e persino si abbozzava il distacco dalla Sacra Porta dell'entità Bosnia-Erzegovina. Ma, quel che è più gra
ve, ancora una volta attorno ai Balcani riesplodono e tornano a misurarsi gli equilibri di potenza di Stati non balcanici ma profondamente interessati, e da sempre immersi, nella polveriera balcanica. La Russia in primo luogo, alla quale la crisi del comunismo consente di riprendere - e questo è un fatto straordinario - la vecchia politica panslava e panortodossa degli zar. Un po' defilata, riappare però anche la Turchia, per la quale è oggi ovvio dare un'occhiata a quanto succede ai mussulmano-bosniaci, per quanto laicizzata sia l'interpretazione dell'Islam che quelle genti forniscano. Ovviamente c'è la Grecia, sensibilissima a quanto accade alle sue frontiere nordoccidentali, albanesi e macedoni. E se sembrano mancare all'appello Francia e Inghilterra, scorgiamo, defilati e prudenti ma non assenti l'Austria erede degli Absburgo e la Germania, sempre attenta a mantenere aperte le comunicazioni con l'Europa dell'Est e magari con l'Asia Minore, fino alla Turchia. E, a nutrire le gelosie di questi Stati, antic
hissime spaccature si ripresentano intatte, come quella tra cattolici e ortodossi, antiche ambizioni mostrano di non essersi in realtà mai spente, come quella della "Grande Serbia", il bastione antiislam sempre coccolato da tutte le potenze europee, addestrato ad esserlo da un terribile orgoglio etnico nutrito di potenza e di attitudine militare.
E' pur vero che il dramma delle lotte interetiche sconvolge paesi dovunque nel mondo: a parte il Sud Africa, dobbiamo dare una risposta alla tragedia del Rwanda, conteso tra tutsi e hutu, a quella che vede i curdi tentare di delegittimare la dominazione dei turchi o dell'Irak in regioni intere del Medio oriente e allo scontro tra armeni e kazaki nel Caucaso: in realtà è impossibile fare una mappa delle fratture interetniche che lacerano l'intero mondo. La domanda del perché queste fratture si presentano così esplosive può interessare un etnologo, un sociologo, un antropologo (e delle loro opinioni si deve certo tener conto): ma non un politico, non nella sfera della politica.
E' da tempo circolante e fiorente una rivista che a questi problemi guarda con occhio, come si dice, "politologico": è la rivista "Limes", che al caso Jugoslavo ha prestato attenzione, già nel suo primo numero del I^ febbraio 1993. Ebbene, proprio l'impostazione data ai problemi da tale rivista ci convince che lo scopo, l'obiettivo della politica non può coincidere (dico "coincidere", il che vuol dire non debba tenerli presente e valutarli) con i referti antropologici, culturali o anche politologici. La politica è "agire" "in sé", in quanto cerca di superare i dati con cui deve confrontarsi ricomponendoli e gestendoli verso soluzioni che quei dati superino e rimodellino secondo prospettive istituzionali e statuali. Altrimenti, sarebbe, appunto, solo sociologia, o antropologia. E infatti dalle tante pagine (utilissime, peraltro) dedicate da "Limes" alla questione Jugoslavia e Balcani, non si trarrebbe altra conclusione che non sia l'arroccamento del nostro paese su posizioni di vigilanza prebellica, e magari
la ripresa netta e decisa della politica balcanica che fu, nelle sue ultime formulazioni, del fascismo e di Mussolini, il cui protettorato sulla Croazia trovava ben altre e profonde ragioni che non fossero il desiderio di dare una corona ad un ramo cadetto dei Savoia, e le cui incursioni in Albania trovavano appunto fondamento nelle stesse ragioni di "geopolitica" che formano il sale e il pepe delle elucubrazioni dei politologi di "Limes".
Continuando a districare il nodo balcanico, dobbiamo anche ricordare che i prodromi di quanto accade oggi vanno trovati nella politica degli Stati gravanti politicamente sull'area, a partire dall'URSS (ma non solo). Lenin e Stalin affrontarono il problema delle nazionalità e diedero una certa sistemazione al grosso delle situazioni da sbrogliare: va alla politica sovietica, credo, il merito di aver dato a molte delle popolazioni minori dell'Impero persino una certa maggior coscienza di sé, anche con l'introduzione e lo sviluppo a livello scolastico della scrittura relativa ai tanti e vari idiomi parlati nei suoi confini. Ma non possiamo e dobbiamo dimenticare né le vicende dei tedeschi del Don, né quella dei Tatari: o, peggio, le vicende della Polonia nell'immediato dopoguerra, quando i confini di questo Stato vennero letteralmente trasferiti di centinaia di chilometri per dare origine ad una gigantesca operazione di "pulizia etnica", seconda solo alla barbarie dell'Olocausto, o al mito dell'Anschluss panger
manica di Hitler. Presentimenti e prefigurazioni dell'oggi furono anche nella soluzione data alla questione dei Sudeti della Boemia. Anche quì c'erano tutte le caratteristiche di quella "pulizia etnica" che oggi si invoca per la Bosnia, o per l'intera Jugoslavia.
In definitiva, come possiamo dimenticarlo?, la cultura della "pulizia etnica" di Milosevic e dei serbo-bosniaci, ecc., o di Stalin, è null'altro che la cultura della "razza pura", dell'"Anschluss", dell'"Olocausto" o dello sterminio degli zingari, di matrice hitleriana. Se oggi accettassimo il principio della politica di "pulizia etnica" di Milosevic, dovremmo allora riabilitare Hitler, compiere una gigantesca opera di "revisione" storica quale nessuno degli storici revisionisti si è mai sognato di compiere.
Certo, quella della pulizia etnica è una ossessione dei popoli balcanici. Nella loro storia, anche quella recente, la storia di questo secolo, e anche nella storia dei suoi migliori uomini, noi avvertiamo sempre l'incombere di questa condanna. Nel momento in cui cade l'Impero absburgico sotto la spinta centrifuga dei nazionalismi, questi si scontrano l'uno contro l'altro armato, in una disputa o in dispute senza fine. Pochi sono coloro che guardano più lontano, verco forme di convivenza federative o associative. Ma vorrei qui almeno ricordare la figura di Frano Supilo, il croato amico dell'Italia, di Leo Ferrero, seguace o ammiratore di Mazzini, che lavorò per una Grande Jugoslavia, una federazione croato-serba, concepita sul modello del risorgimento italiano. Il suo disegno si scontrava già, però, con le pretese egemoniche degli ungheresi, i favoriti dalla corona austriaca e riottosi a cedere le prerogative concesse loro da Vienna. Disegni federativi, magari come federazione dei popoli slavi sotto l'ala del
la grande madre russia, ve ne furono: ma se osserviamo bene, già quei progetti avevano in sé il vizio culturale di essere concepiti in termini etnici, di monocultura, e non curavano assolutamente i problemi relativi alla presenza di altre etnice o cultura minoritarie: penso ai Rom, ad es., ecc. Insomma, antiche ineluttabili aspirazioni si vengono a fondere, sembra inestricabilmente, con spinte reazionarie di gigantesca valenza storica.
E tuttavia dobbiamo ripeterlo con grande fermezza: nessun ridisegno delle frontiere - in quelle regioni (ma non solo, come sappiamo benissimo anche noi in Italia) - può assicurare una perfetta redistribuzione etnica, vale a dire una "purezza" etnica assoluta. Una soluzione monoetnica in questa come in altre sedi è quanto di più inaccettabile vi sia: per la considerazione, che va pur fatta, che il nostro tempo non è più così terribilmente sensibile agli stimoli del nazionalismo romantico, cui si deve la nascita delle nazioni, o di molte nazioni europee (e penso a Germania e Italia, oltreché a quelle nate dalla disgregazione dell'Impero Absburgico). Nessuna delle guerra "etniche" che oggi dilaniano vari paesi del mondo - da quella che separa in SudAfrica bianchi da neri, né quella che si svolge barbaricamente in Rwanda, né questa tra serbi e croati o bosniaci - può avere, riesce ad avere un qualsiasi alone di romantica bellezza o di eticità: la coscienza del mondo vede in questeb guerre solo l'aspetto barbari
co, di carneficina senza senso, Nè a mia conoscenza c'è ancora un Byron che si dica disposto a morire per la santa causa di una delle etnie in lotta. La coscienza mondiale guarda con orrore, anche se impotente: e non a caso, in forme sia pure appena abbozzate, l'ONU cerca di fornire strumenti di controllo e pacificazione delle situazioni più drammatiche e insostenibili.
Ciò che occorre dunque è una politica nuova, nutrita di valori nuovi, capace di promuovere consapevole coesistenza tra popolazioni, culture, etnie e religioni diverse: una politica che non si limiti a proporre generici appelli alla tolleranza, ma si concretizzi in un vero e proprio progetto politico, ispirato ai principi, ai metodi e alle leggi del moderno federalismo, come lo conosciamo innanzitutto nella storia e nella loro costituzione degli Stati Uniti: o, per certi rispetti, nella storia della Svizzera. Dunque, e per farla breve, ciò che occorre è il progetto attuativo di una vera e propria Con-Federazione Balcanica, una sorta di CEE più funzionale e con strutture più cogenti, di tipo confederale o meglio ancora federale (i due concetti sono diversi, come è noto). Tale struttura avrebbe non solo il compito di consentire la coesistenza di vari popoli nei confini di un'unico Stato, ma anche di favorire la loro crescita civile ed economica, non più ristretta, come oggi avviene, da divisioni tra paesi tropp
o piccoli e disorganizzati per poter compiere un balzo decisivo nel moderno sviluppo.
Una delle ragioni degli attuali scontri (dimenticavo) si trova nello sforzo di ciascuno dei gruppi etnici, religiosi, culturali, di attribuirsi il massimo possibile delle risorse rese disponibili dal crollo delle vecchie barriere e dall'apertura all'ovest. Ciascun gruppo teme che siano gli altri ad approfittare delle nuove possibilità, dei nuovi sbocchi. Quella cui noi assistiamo in sostanza è una vera e propria guerra tra poveri. E' una visione miope, che va combattuta, innanzitutto facendo in modo che dai paesi sviluppati vengano sollecitazioni diverse, che favoriscano un approccio meno angusto alla questione.
Ma, prima di arrivare al tema specifico, alla Federatio balcanica, vorrei introdurre un altro argomento, apparentemente più ristretto, che però già indica una via possibile, realistica e vicina, per favorire un ravvicinamento tra i popoli balcanici e dunque per farci meglio capire le possibilità dell'altro, più grande e ambizioso progetto, quello politico. C'è infatti, già avviato e promettente un progetto unificante, centripeto, se non federante. E' il progetto di istituire una "Comunità europea dei grandi fiumi e delle vie navigabili", una Agenzia sovranazionale cui sia demandata, da accordo tra Pesi interessati, la gestione e il controllo ambientale ed economico di quel gigantesco sistema di vie d'acqua che, col Danubio, il Reno, il Rodano, ecc., già rappresenta il più importante sistema di comunicazione e di dialogo tra i paesi europei, ma la cui importanza e funzionalità può e deve essere ancor più sviluppata e potenziata. Già oggi, lo sappiamo, attraverso il Meno, il Reno, il Danubio, ecc., numerosi pa
esi dal Mare del Nord al Mar Nero comunicano e trafficano. Ma oggi occorre di più. E l'occasione da cogliere è lo stato di crisi che attraversa in particolare il Danubio. La circolazione e lo sfruttamento di questa via d'acqua è regolata da una vecchia Convenzione internazionale: oltreché essere insufficiente, essa viene ormai violata senza ritegno da questo o quel paese, che pensa di trarre il massimo immediato vantaggio dallo sfruttamento delle risorse del fiume, senza preoccuparsi di non intaccare i diritti degli altri paesi. La "deregulation" ha però messo in grave crisi gli equilibri ecologici e ambientali del fiume. Per contrastare questa tendenza l'oceanologo Jacques-Yves Cousteau ha lanciato un appello per la salvezza di quello che viene definito un vero e proprio "patrimonio dell'umanità". Il progetto Cousteau prevede misure per conservare nella sua integrità ambientale e sviluppare nelle sue potenzialità economiche la grande idrovia. Cousteau ha inviato un documento, ai governi coinvolti nonché all
a Commissione e al Parlamento CEE, che però rischia di restare lettera morta: anche in questo settore, i paesi dell'Est tendono a chiudersi ciascuno nel suo egoismo nazionale, mentre la CEE perde ogni giorno di più forza e capacità di intervento.
Quello di Cousteau è' il più importante progetto politico-culturale concepito per i paesi dell'ex blocco sovietico: esso non solo e non tanto garantirebbe - come si propone esplicitamente - la salvaguardia e lo sviluppo di uno degli ecosistemi d'Europa, ma anche un rinnovamento profondo dei rapporti tra le culture e civiltà dei popoli interessati, in primo luogo, evidentemente, i Balcani.
Su questa indicazione di Cousteau si è sviluppato recentemente un ancor più ambizioso progetto del Partito radicale transnazionale. Il progetto radicale chiede infatti l'istituzione di strutture a livello sopra e transnazionale, dotate di poteri autonomi della gestione e della navigazione sul Danubio. La differenza tra il progetto Cousteau e quello radicale consiste nella decisa accentuazione posta sugli aspetti politico-istituzionali, vale a dire sulla creazione dell'Alta Autorità. Insomma, anche quì, solo un'Europa politicamente riorganizzata potrà salvare il suo territorio, l'ambiente, gli ecosistemi, sviluppare al meglio la sua economia, le sue immense possibilità, ecc.
E' dunque possibile, per i Balcani, parlare anche in termini di progetti e di ipotesi non centrifughi, non disperanti, non di guerra e conflittualità. E il progetto radicale sul Danubio è infatti già in via di sviluppo (anche con la collaborazione degli ambientalisti degli Amici della Terra), e presto ne sentiremo parlare. Su questo progetto quindi, mi auguro, potrà innestarsi ed essere avviato l'altro, il progetto di Federazione vero e proprio.
Su quali linee muoversi? Il progetto federale, o federativo, dovrebbe coinvolgere diversi settori:
a) la cultura: solo la cultura, con la sua presumibile vocazione all'invenzione e alla progettualità, può avviare il compito di rintracciare le ragioni storiche (che certo ci sono, apparentemente non visibili) dell'unità, opposte a quelle che spingono verso la divisione, come anche le forme e le strutture atte a realizzarla utilizzando ad es., positivamente e in modo adeguato, gli strumenti e i metodi di comunicazione messi a disposizione dalla linguistica e dalla telematica, col fine di favorire lo scambio infraculturale. Uno stretto legame con le forze intellettuali presenti nell'occidente è necessario e urgente: occorre favorire questo processo, renderlo più rapido.
b) l'economia,la cultura economica: essa dovrebbe essere incoraggiata, o stimolata a riflettere e inventare sui modi con i quali portare avanti uno sviluppo in scala subcontinentale e sono solo o non più "micronazionale", basandosi su esperienze passate anche parziali e settoriali, di cui esempio classico fu la "Tennessee Valley Authority" in America. Anche qui sarebbe necessario il contributo degl economisti dell'occidente più sensibili all'importanza di uno sviluppo economico, culturale e sociale a livelli globali, in un ambiente che può essere particolarmente ricettivo proprio perchè ha già raggiunto un notevole livello, non è cioè del tutto arretrato, sia in termini culturali che economici.
c) il mondo religioso: esso dovrebbe, date le sue particolarissime responsabilità, essere incoraggiato a promuovere la caduta delle divisioni che nell'area considerata sono serie e radicate: sarebbe questa la prima occasione in cui la coesistenza tra cristiani di diversa denominazione e mussulmani potrebbe cominciare a svilupparsi in modo costruttivo.
Il grande problema, rispetto a questo progetto, o disegno, o utopia, non è nei mezzi, negli strumenti acconci a realizzarlo: è sopratutto nella possibilità che vi sia, o si formi in tempi non storici ma politici, una classe dirigente capace di farlo proprio e di portarlo avanti con la necessaria costanza e sopratutto intelligenza. Questa è una responsabilità che investe in primo luogo le classi dirigenti degli stessi paesi balcanici. Se non comincia a formarsi, a coagularsi in quelle regioni, in quell'ambito, un embrione di gruppo dirigente che faccia proprio il progetto per svilupparlo nelle sue conseguenze, non vi è speranza che altri possa sostituirsi. Quel che noi possiamo fare è solo gettare un amo, o sparare un "razzo Very", che altri possa scorgere nella notte...Forse, altro potrebbe fare la CEE. Dalla CEE potrebbero partire impulsi importanti, anche in termini di autoconservazione di una istituzione che sta, altrimenti, agonizzando nell'impotenza. Se il disegno decollasse, invece, la CEE potrebbe fin
almente associarsi in un grande progetto, organico, ricco di potenzialità, istituzionale e non meramente assistenziale, duraturo e di lunga portata.
Infine: Il progetto "Federatio Balcanica" potrebbe essere (sarebbe, anzi) la punta di lancia di un gigantesco rinnovamento politico in tutto l'est europeo, fino al Caucaso e oltre. Sarebbe, anzi, un progetto di importanza mondiale, perché esprimerebbe il primo tentativo per costruire una società nonviolenta, capace di inventare e realizzare soluzioni "istituzionali" al problema dello scambio interculturale, eliminando la violenza razziale,ecc. Se è vero che la nonviolenza gandhiana esprime il massimo sforzo culturale e politico per "inverare" i grandi principi della rivoluzione liberale, illuminista, federalista, antigiacobina sottraendoli al destino della scissione tra ideale ed effettuale che li ha mortificati per secoli, il progetto della Federatio sarebbe il più forte punto di partenza oggi concepibile per ottenere questo risultato.
Angiolo Bandinelli
L'Aquila, 18 aprile 1994