La felice ambiguità di certe parole: il dialogo (nonviolento) fra Stato e soggetti fuori-legge presuppone la non accettazione del ricatto, della violenza. E' la massima espressione della fiducia nell'uomo, nella forza della parola. Il dialogo non può portare a violare la legge, ma solo a comprendere e ad approfondire le ragioni delle due parti.Nella trattativa con soggetti fuori-legge lo Stato accetta invece a priori di violare la sua legge, magari per salvare vite umane.
La conclusione del dialogo e della trattativa può portare anche ad un risultato apparentemente uguale, ma le conseguenze politiche delle due procedure sono molto diverse.
Un esempio reale e concreto: i terroristi chiedono, per il rilascio di un ostaggio, la chiusura di un carcere speciale. Nella trattativa l'eventuale accettazione di questa condizione sarà percepita come un cedimento dello Stato, come un incoraggiamento al ricatto violento.
Attraverso il dialogo si può anche giungere allo stesso risultato, ma a partire dal riconoscimento che il carcere speciale rappresenta esso stesso una violazione patente delle leggi, dei principi costituzionali che impongono il rispetto della dignità della persona, anche del peggiore criminale.
Vengo all'esempio di Xavier: trattare significa in pratica garantire l'impunità ai narcotrafficanti colombiani i quali sanno di poter condizionare, con la violenza, i giudici nazionali. Il dialogo può invece portare da una parte a riconoscere che l'arrogante pretesa degli Usa di estradare i narcotrafficanti nel loro paese deve essere respinta con fermezza, ma dall'altra ad ottenere che nessun giudice sia minacciato o, peggio, ucciso.
Ma come dialogare se la Drug-War vuole proprio impedire che la parola prevalga sulla violenza, che la ragione prevalga sull'isteria ideologica ?